Letteratura e pubblicità

Quasi alla fine de Il cavaliere e la morte il protagonista, l’innominato Vice, mortalmente malato, ripensa alle cose della sua infanzia e adolescenza, e tra queste a L’isola del tesoro: “una lettura, aveva detto qualcuno, che era quanto di più si poteva assomigliare alla felicità”. E ricorda la vecchia Edizione Aurora che ne aveva e che, a differenza di tanti altri libri perduti nel corso dei suoi trasferimenti, ancora conservava.

   E dopo aver ripensato a una trasposizione cinematografica del romanzo, con un indimenticabile Wallace Beery nella parte di Long John Silver, il Vice si lascia andare a un’ulteriore divagazione: “Ritornò all’isola. E gli si affacciò altro personaggio: Ben Gunn. La sua mente era così libera, così in vacanza e in vaganza, che da Ben Gunn, per un particolare che improvvisamente ricordò, passò a una considerazione sulla scienza pubblicitaria che alluvionava il mondo. Anche i produttori di formaggio parmigiano, certamente, pagavano la scienza pubblicitaria: ma mai che tal scienza si fosse ricordata della tabacchiera del dottor Livesey. Immaginò il manifesto che se ne sarebbe potuto fare, la pagina pubblicitaria: il dottor Livesey che offriva la tabacchiera aperta con dentro un pezzo di parmigiano: ai consumatori, come nel racconto a Ben Gunn, che aveva la passione del formaggio. ‘Un formaggio nutriente che si fabbrica in Italia’ diceva il dottore; o qualcosa di simile”.
   In effetti, al diciannovesimo capitolo di Treasure Island, Robert Louis Stevenson fa dire al dottor Livesey: “You’ve seen my snuff-box, haven’t you? And you never saw me take snuff; the reason being that in my snuff-box I carry a piece of Parmesan cheese – a cheese made in Italy, very nutritious. Well, that’s for Ben Gunn!”. (Chissà come il povero Ben Gunn ci sarà rimasto male, nel vedersi presentare, dopo averlo sognato per anni, un pezzo di formaggio piuttosto diverso da quelli di sua conoscenza: “… many’s the long night I’ve dreamed of cheese –  toasted, mostly – and woke up again, and here I were.” Lui il formaggio lo sognava soprattutto grigliato, come noi italiani a volte facciamo con la scamorza: trattamento al quale il parmigiano non si presta.)
   Dunque, il buon dottore riserva per Ben Gunn un pezzo di formaggio che nel 1883 – anno della prima edizione del romanzo – Stevenson si limita a definire correttamente “made in Italy”. Queste tre parole, che in Treasure Island indicano un semplice dato di fatto, nel secondo dopoguerra sono però a poco a poco diventate una sorta di marchio di riconoscimento e anche, in un certo senso, di garanzia dei prodotti italiani nel mondo. E quanto al parmigiano: si tratta di un formaggio non soltanto “nutriente”, come scrive Sciascia citando la traduzione italiana, ma “very nutritious”, come certifica il dottor Livesey nel testo originale.
   In Italia, come notava Sciascia nel 1988, non si era mai vista una pubblicità del parmigiano basata sull’affermazione del dottor Livesey; né, che io ricordi, si è mai vista dopo. Noi, consumatori italiani, conosciamo bene il parmigiano, lo apprezziamo e lo compriamo, e probabilmente lo compreremmo comunque, senza necessità di essere incoraggiati dagli spot televisivi di aziende e consorzi. Ma all’estero, dove certi prodotti italiani sono scopiazzati – e quelli alimentari, in particolare, malamente scopiazzati – una promozione del parmigiano basata sulla parola del dottor Livesey potrebbe essere utile, e anche poco costosa, considerato che Treasure Island è di pubblico dominio. Il dottor Livesey, su una pagina pubblicitaria o in uno spot televisivo, oltre a garantire che il “Parmesan cheese” è tra l’altro “very nutritious”, dovrebbe raccomandare ai consumatori di fare attenzione: “It’s a cheese made in Italy, and its true name is Parmigiano, not Parmesan… Look for the original one, buy only the genuine Italian Parmigiano!”. Chissà come mai a nessuno è venuto in mente di utilizzare l’episodio del romanzo a fini pubblicitari, soprattutto nei paesi di lingua inglese? C’è già tutto: basta sceneggiare, come aveva già suggerito Leonardo Sciascia ne Il cavaliere e la morte. (Ci si può chiedere perché l’episodio di Treasure Island non sia stato usato dai pubblicitari. E le risposte possono essere due: o non lo conoscono, o hanno dubbi sull’efficacia di una campagna promozionale con il dottor Livesey protagonista, a causa della scarsa conoscenza del romanzo di Stevenson da parte del pubblico dei nostri giorni. Si tratta, in entrambe le eventualità, di uno spiacevole e triste dubbio. Ma questo è un altro discorso.)
   Per passare da un prodotto alimentare diffusissimo a un oggetto del tutto diverso, riservato a pochissimi, e anch’esso per così dire pubblicizzato in un’opera letteraria, basta leggere Rome Naples et Florence. Alla data “Pavie, 16 decembre 1816”, Stendhal scrive: “… Bréguet fait une montre qui pendant vingt ans ne se dérange pas, et la misérable machine, à travers laquelle nous vivons, se dérange et produit la douleur au moins une fois la semaine…”. Che il corpo umano sia spesso una “miserabile macchina”, come lo definisce Stendhal, lo sappiamo tutti, e sempre di più con il trascorrere degli anni; ma che un orologio costruito più di due secoli fa funzionasse perfettamente per un ventennio potrebbe sorprendere. La spiegazione sta nel nome. Bréguet costruiva – e costruisce ancora – degli orologi che sono degli autentici gioielli sotto tutti i punti di vista: della perfezione tecnica, della rarità, della bellezza e, non ultimo, del prezzo.
   Oltre a questa certificazione di qualità da parte di Stendhal, gli orologi Bréguet possono fregiarsi di almeno un’altra citazione da parte di un altro dei massimi romanzieri dell’Ottocento. Lev Tolstòj, in Guerra e pace, informa infatti che il dottor Lorrain, il medico che assiste il conte Bezúchov, possiede un Bréguet: “Il dottore guardò il suo orologio, un Bréguet”. È una precisazione che dice tutto.
   Gli orologi Bréguet dovevano comunque essere ben conosciuti nell’alta società della Russia degli zar. Da Il bottone di Puŝkin di Serena Vitale si apprende che anche Aleksandr Puŝkin ne possedeva uno: infatti “impegnò per 650 rubli dall’usuraio Ŝiŝkin un orologio Bréguet e una caffettiera d’argento”. E forse non a caso un Bréguet compare anche nell’Eugenio Onegin.
   Il Bréguet è tornato a essere un orologio popolare – si fa per dire – nella Russia post-sovietica. È della Bréguet, infatti, la boutique che si trova all’angolo della facciata dei magazzini GUM che dà sulla Piazza Rossa, verso la cattedrale di San Basilio. L’unica volta che sono stato a Mosca, nel marzo del 2009, in una delle due vetrine erano esposti due soli esemplari, uno per uomo e l’altro per donna. Quest’ultimo, in effetti, era un bracciale di diamanti nel quale era incastonato un orologio di piccolissime dimensioni. Dietro i due orologi campeggiava un pannello con il ritratto di Maria Antonietta e la riproduzione, in sovrimpressione in caratteri bianchi, della registrazione della vendita di un esemplare appunto a “Sa Majesté la Reine Marie Antoinette”.
   È quasi automatico chiedersi chi siano i russi che oggi possono permettersi un Bréguet. Scomparse l’aristocrazia e l’alta borghesia dell’epoca zarista, quasi sicuramente l’acquirente-tipo è un esponente di quella “borghesia” nata negli anni successivi alla caduta del comunismo, con in testa i cosiddetti “oligarchi”, titolari di immense ricchezze accumulate in gran parte con l’acquisizione di interi settori dell’economia sovietica. Ed è una delle tante ironie della storia che la boutique della Bréguet, simbolo di lusso e ricchezza – e quindi di ineguaglianza – a Mosca si trovi di fronte al mausoleo di Lenin: ovattata e quasi beffarda dimostrazione del fallimento di un esperimento politico che avrebbe dovuto cambiare il mondo.
  
Nel 2003 i giornali informarono che il responsabile scientifico del centro spaziale russo Yuri Gagarin – l’Unione Sovietica aveva cessato di esistere da dodici anni – aveva consegnato l’attestato di fornitore ufficiale al presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano. Nell’occasione, si apprese che il parmigiano era il primo e fino allora unico prodotto alimentare naturale ritenuto idoneo al consumo durante i viaggi spaziali. Un exploit davvero straordinario, per un formaggio di cui noi italiani possiamo essere orgogliosi: oltre a essere presente in una delle isole più famose della letteratura mondiale, e in un’opera di uno dei più importanti scrittori italiani ed europei della seconda metà del XX secolo, grazie alle sue qualità è riuscito a proiettarsi addirittura nello spazio. Forse dei bravi copywriters – così si chiamano i professionisti della “scienza pubblicitaria che alluviona il mondo” – potrebbero trarne qualcosa di divertente. Sulla bontà – del prodotto, non delle inserzioni o degli spot – non c’è da avere alcun dubbio.
  
Per concludere, tornando a Leonardo Sciascia: nelle pagine de Il giorno della civetta dedicate alle “ultime ventiquattrore di vita [di] Calogero Dibella detto Parrinieddu” è menzionato un liquore, un amaro per la precisione: “Il Pizzuco, che al caffè Gulino voleva trattenerlo per offrirgli un amaro, come prima tante altre volte era accaduto, restò dapprima allocchito dal rifiuto e dal brusco allontanarsi di Parrinieddu, come di fuga: e restò a pensaci su, ché sveglio di mente non era, per tutta la giornata. Parrinieddu, dal canto suo, per tutta la giornata svolse in significati di morte l’offerta di un amaro, amaro tradimento amara morte, del tutto trascurando la notoria affezione, cirrosi secondo il medico, che il Pizzuco aveva per l’amaro: amaro siciliano, beninteso, della ditta fratelli Averna; sul quale amaro si fondava la superstite fede separatista del Pizzuco; ex combattente dell’Evis, a suo dire; soltanto favoreggiatore di Giuliano, secondo la polizia”.
  
Sciascia non intendeva far pubblicità all’Amaro Averna. Semplicemente, la menzione del liquore – tra l’altro prodotto a Caltanissetta, città cui era molto legato – cadeva molto a proposito, in quel passaggio del racconto: per il fatto appunto di essere un amaro, con i conseguenti pensieri angosciosi – “amaro tradimento amara morte” – che ispira al terrorizzato confidente dei carabinieri. Senza considerare che molto amaro dovette essere anche il caffè – alla stricnina – con cui nel palermitano carcere dell’Ucciardone fu ucciso Gaspare Pisciotta, uccisore di Salvatore Giuliano del quale Rosario Pizzuco, secondo la polizia, era stato un favoreggiatore.

Euclide Lo Giudice