Figli, fratelli e una figlioccia d’Italia

All’inizio del 1830 la situazione finanziaria di Henri Beyle è piuttosto precaria. Per lui si rende quindi necessario trovare un impiego, ma soprattutto uno stipendio, che gli garantisca la possibilità di vivere decorosamente, e di scrivere. La rivoluzione del luglio 1830, che vede la cacciata di Carlo X e l’ascesa al trono di Luigi Filippo, gli offre l’occasione per cercare un incarico adeguato alle sue aspirazioni e al suo passato di funzionario dell’amministrazione napoleonica. Cerca in un primo tempo di ottenere una prefettura; e solo successivamente, non essendo riuscito nel suo intento, pensa a un consolato in Italia. Il 25 settembre, finalmente, è nominato console di Francia a Trieste, con uno stipendio di 15.000 franchi annui.
  
Henri Beyle parte per la sua sede di servizio il 6 novembre e arriva a destinazione il 25, dopo una sosta involontaria e imprevista a Pavia: dove la polizia del Regno Lombardo-Veneto sequestra il suo passaporto, che non è munito del visto dell’ambasciatore d’Austria a Parigi. Grazie all’intervento del console generale di Francia a Milano, dopo due giorni di sosta forzata lo scrittore può riprendere il viaggio.

   Il 26 novembre assume la gestione del consolato. Ma si tratterà di una permanenza molto breve – poco più di quattro mesi – e di un incarico che non verrà mai riconosciuto dal governo ospitante: già il 4 dicembre, infatti, il Journal des Débats “annonce que la cour de Vienne a refusé l’exequatur à M. Bayle de Sthendall (sic), nommé au poste consulaire de Trieste en remplacement de M. Delarue”. Il governo francese è costretto a prendere atto della situazione: il 30 marzo 1831 il console Beyle passa le consegne al suo successore e il giorno seguente parte per la sua nuova e definitiva sede di Civitavecchia. Il trasferimento gli costa tra l’altro una notevole diminuzione dello stipendio: dovrà infatti accontentarsi di 10.000 franchi invece dei 15.000 previsti per la sede di Trieste.
   Nei circa quattro mesi trascorsi a Trieste, Henri Beyle invia al Ministero degli Affari Esteri a Parigi numerose lettere di varia natura. In una breve nota, la N° 14 del 28 dicembre 1830 indirizzata alla “Ire Direction - Affaires Politiques”, riferisce che il 24 dicembre, al termine di una navigazione iniziata ad Algésiras sedici giorni prima, la fregata austriaca Medea ha gettato l’ancora nella rada di Trieste. La nave, armata con sessanta cannoni e con un equipaggio di trecentoventi uomini, è “sous les ordres de M. le Chevalier Bandiera, capitaine de corvette”.
   Il cavaliere e capitano di corvetta Francesco Bandiera aveva quarantacinque anni. Aveva iniziato la sua carriera nella marina del napoleonico Regno d’Italia, per poi passare in quella austriaca dopo la Restaurazione. Nel 1831, forse durante la breve permanenza a Trieste di Henri Beyle, l’ufficiale fu il padrino di battesimo di Fanny Grassi, quartogenita di Giulio e Giovanna di Lugnani. Già soldato napoleonico, Giulio Grassi si era da tempo trasferito da Genova a Trieste, dove aveva avviato un’importante attività commerciale e sarebbe stato tra i fondatori del Lloyd Triestino. Dopo gli eventi del 1848, divenuto sospetto al governo austriaco, Grassi aveva lasciato Trieste per tornare a Genova. Si era poi trasferito a Sète, in Francia, dove la figlia Fanny avrebbe sposato Barthélemy Valéry, funzionario doganale di origine corsa – cognome originale Valerii – e sarebbe diventata madre di Paul Valery. 
   I due figli del capitano Bandiera, Attilio ed Emilio, avrebbero entrambi seguito le orme paterne. Il primo, uscito nel 1828 dall’Imperiale Accademia di Marina di Venezia, nel 1831 era ufficiale già da due anni; il fratello minore lo sarebbe diventato a sua volta nel 1836. Dopo due carriere che li videro prestare servizio anche agli ordini del padre, i due fratelli, ormai disertori e ribelli, morirono il 25 luglio 1844, trentaquattrenne il primo e venticinquenne il secondo, fucilati nel vallone di Rovito da un plotone d’esecuzione borbonico.
   Il padre, dal giorno in cui la sua fregata Medea era stata notata dal console Beyle nel porto di Trieste, aveva fatto carriera. Era diventato, infatti, il barone e ammiraglio Francesco Bandiera. Fedele suddito della monarchia austriaca, dopo la fucilazione dei figli rassegnò le dimissioni dall’incarico. Morì, sessantaduenne, appena tre anni dopo.
   E il ricordo corre al magistrato trentino Antonio Salvotti, poi barone von Einchenkraft und Bindeburg, che nel 1821 istruì il processo contro Pellico e Maroncelli. Il giudice Salvotti, convinto suddito asburgico, fu infatti protagonista di una vicenda personale analoga a quella dell’ammiraglio Bandiera. Nato nel 1789, anno della presa della Bastiglia, e morto nel 1866, anno in cui l’Italia ottenne il Veneto grazie – paradossalmente – alle sconfitte di Custoza e Lissa, il giudice Salvotti nel 1853 ebbe dal ventitreenne figlio Scipione il dolore forse più grande della sua vita. Il giovane finì infatti in prigione, a Theresienstadt, per aver abbracciato la causa nazionale italiana.
   Altri due sudditi austriaci, i fratelli Carlo ed Ercole Dembowski, non ebbero la possibilità di compiacere o deludere la madre – la milanese, suddita austriaca ma ardentemente italiana – Matilde Viscontini Dembowski. La “Métilde” infelicemente amata dal futuro console Beyle morì infatti nel 1825, troppo presto per vedere le strade divergenti che avrebbero preso i suoi due figli: Carlo esule dall’Italia a causa d’un duello – concluso con la morte del suo avversario, un ufficiale austriaco – e destinato a finire dolorosamente i suoi giorni; ed Ercole fedele ufficiale – diversamente dai due fratelli Bandiera – della marina austriaca: nella quale prestò servizio anche agli ordini dell’ammiraglio Bandiera.
  
Arrivati a questo punto, è inevitabile sentirsi chiedere: cosa c’entra Leonardo Sciascia con queste divagazioni su figli, fratelli e una figlioccia? Forse nulla. Ma certamente Sciascia era un appassionato stendhaliano, e questa noterella prende spunto da una lettera inviata dal console Beyle al Ministero degli Esteri a Parigi, e pubblicata nel secondo dei tre volumi della Bibliothèque de la Pléiade che raccolgono la Correspondance stendhaliana.
   Quanto alla vicenda del giudice Salvotti, che fu l’istruttore del processo a Silvio Pellico, conosciuto da Stendhal nei suoi felici anni milanesi, è stata rievocata da Fausta Garavini, traduttrice di Montaigne – altro grande amore letterario e filosofico di Sciascia – nel romanzo In nome dell’Imperatore. Romanzo ottocentesco, pubblicato nel 2008 da Cierre edizioni di Sommacampagna (Verona). Ed è forse il caso di ricordare che Leonardo Sciascia e Fausta Garavini ebbero nel 1984 uno scambio epistolare, garbatamente polemico, a proposito del significato e della traduzione della parola enfance nel saggio Des boiteux (Degli zoppi): scambio epistolare narrato nei suoi dettagli da Fausta Garavini in “Sciascia e Montaigne: breve storia di un malinteso”, articolo comparso nel terzo dei Quaderni Leonardo Sciascia, dal titolo Il piacere di vivere. Leonardo Sciascia e il dilettantismo, a cura di Roberto Cincotta e Marco Carapezza, pubblicato nel 1998 da La Vita Felice di Milano.
   Infine, nella Cronologia che si trova nel Meridiano Mondadori delle Opere scelte di Paul Valery, curato da Maria Teresa Giaveri e pubblicato nel 2014, si legge il simpatico aneddoto della madre del futuro premio Nobel per la letteratura tenuta a battesimo dall'ammiraglio Francesco Bandiera. Paul Valery è tra l’altro l’autore del magistrale saggio intitolato semplicemente Stendhal, che si conclude con le due frasi: “On n’en finirait plus avec Stendhal. Je ne vois pas de plus grande louange”. La prima delle due frasi è citata da Sciascia alla fine di Stendhal e la Sicilia, il saggio che chiude la raccolta Fatti diversi di storia letteraria e civile, pubblicata da Sellerio nel 1989.
   Per concludere, è appena il caso di aggiungere che Maria Teresa Giaveri, illustre francesista dell’Università di Torino, guida il gruppo internazionale che, per conto dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia e dell’Editore Leo S. Olschki di Firenze, nei prossimi anni condurrà un vasto progetto di ricerca dal titolo Leonardo Sciascia e la Francia.

Euclide Lo Giudice