Saremo perduti senza la Verità

(Intervista a cura di Tony Zermo, pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” il 14 agosto 1978)

Sciascia scrive di Moro. In una casa dalla facciata bianca e rossa di guardia su un poggio ombrato di vigneti che appare all’improvviso tra il polverone di una trazzera. Lavora di lena in una stanzetta con aria condizionata, una sedia, un tavolino ingombro di carte e di libri. Scrive fitto con una portatile, ha già riempito un centinaio di fogli senza alcuna correzione. Il libro su Moro si apre con un breve brano di Borges, bello, profondo ed enigmatico: “Sembra suo”, dico.


“Comincio sempre i miei lavori con una frase emblematica, che è un po’ il simbolo-guida di quello che voglio scrivere”.

E’ calmo, i capelli scuri sempre ben ravviati, gioca un po’ col nipotino Fabrizio. Poi parliamo di Moro, di questa grande tragedia del paese, di questo libro già destinato a far scalpore e che nasce, pagina dopo pagina, nella quiete della campagna di Racalmuto. Sciascia, nei giorni caldi del caso Moro, proclamò la necessità di salvare l’ostaggio. Sostenne delle dure polemiche. Ed è ancora di questa idea, anche se comprende benissimo che la sua tesi dividerà gli animi.

“Moro me lo sogno anche di notte”, dice, “è difficile cercare di ricostruire questa vicenda così enorme. Ho letto tutto di lui, per immedesimarmi nel personaggio, per capirlo. Mi baso solo sulle cose concrete, le lettere da lui scritte in cattività, i comunicati delle BR. Basta saper leggere e saper comprendere. Devo scrivere ancora un centinaio di pagine e poi consegnerò tutto ad un editore francese”.

Che morale può ricavare da questa vicenda? Ho seguito per quasi due mesi il caso Moro, ma devo confessare che tutto mi è rimasto oscuro.
“In un mio libro – se non ricordo male il Contesto – ci sono queste due battute: Tutti i nodi vengono al pettine, dice uno. E l’altro risponde: Quando c’è il pettine. Ecco: il caso Moro è un grande e terribile nodo venuto al pettine. Ma il problema è che questo nostro paese riesca a trovare un pettine. Per conto mio, direi di averlo. Un piccolo pettine, un pettine tascabile. E anche se il nodo è troppo grosso, troppo diabolicamente complicato, sto tentando di scioglierlo: per me, e per quelli che sentono e pensano cosa se ne può trarre una volta che ognuno avrà tentato di sciogliere questo nodo nella propria coscienza, è che la menzogna genera menzogna, che l’Italia è un paese senza verità: che bisogna rifondare la verità, se si vuole rifondare lo Stato. Se non riusciamo ad arrivare alla verità sul caso Moro siamo davvero perduti. E’ stato un delitto che ci ha tutti coinvolti: ognuno ha le sue responsabilità, con le proprie colpe. Ma siccome nella Fattoria degli animali tutti sono uguali e però ci sono più uguali degli altri, bisogna di fronte al caso Moro cercare quelli che sono più colpevoli degli altri, più degli altri responsabili. Le BR, d’accordo. Ma le BR sono uno strumento, un meccanismo, che ha fonte d’energia e centrale d’impulsi altrove. E non sto alludendo a interventi stranieri, di servizi segreti stranieri; che è pure possibile che ci siano. Sto parlando di energie ideologiche, di impulsi che per la loro ambiguità possono servire per accendere contemporaneamente fatti rivoluzionari e fatti repressivi: interscambiabili, mutuabili…Ecco, questo a me pare l’insegnamento fondamentale da trarre dal caso Moro; e direi anche che è il messaggio di Moro: rompere la possibilità che l’atto follemente rivoluzionario venga mutato in altro, che serva ad altro”.

Le lettere di Moro che servono da base al suo libro cosa dicono veramente?
“Delle lettere di Moro direi che bisogna innanzitutto farne una lettura candida. Voglio dire: bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio – che ci è stato inoculato dai mezzi di informazione che, bisogna dirlo, per tutta la durata della vicenda si sono comportati come mezzi di regime – dal pregiudizio che Moro non era se stesso, che era diventato un altro Moro: un uomo che aveva perduto il senso dello Stato, stravolto dalla paura di morire. Se si scorre la vita di Moro negli scritti e nelle azioni, viene fuori invece che Moro continuava ad essere se stesso nel modo più lineare ed assoluto. Si può non essere d’accordo – come io non sono stato e non sono – su quello che Moro pensava della DC e dello Stato; ma dire che “nella prigione del popolo” avesse mutato pensiero è una menzogna; malvagia, delittuosa menzogna. E scendo nel particolare: se Moro pensava che lo Stato dovesse piegarsi al ricatto, se lo pensava da prima – e lo conferma Gui – perché non avrebbe dovuto continuare a pensarlo quando oggetto del ricatto era lui? Non era un eroe, si capisce; e perché poi avremmo dovuto pretendere da lui l’eroismo? Era un professore, un uomo di sereni studi, di serena vita familiare; credo non abbia mai pensato di potersi trovare, nella sua vita, in una situazione drammatica, per la quale occorresse eroismo…Il cosiddetto senso dello Stato non lo aveva mai avuto. Uno dell’opposizione, durante la discussione su uno dei suoi governi di centro-sinistra, gli fece accusa di nutrire la dottrina del non-Stato. Accusa giustissima, penso. Una volta stabilito che Moro continuava ad essere se stesso, che continuava a pensare come sempre aveva pensato e che in lui la paura di morire non arrivava al grado di sconvolgerlo – e anzi gli dava una maggiore testamentaria lucidità – si può anche procedere a una decifrazione più particolare e sottile delle lettere. Porsi, per esempio, queste domande (e cercarne altre): perché Moro rivolge la sua prima lettera a Cossiga? Perché non parla mai del ministero della Giustizia, che pure era il più idoneo ad entrare nella decisione dello scambio? Perché parla così freddamente della scorta massacrata, vietandosi quella pietà che pure doveva sentire per uomini che stavano con lui da anni? Perché scrive contro Taviani una lettera in cui sembra far proprio il punto di vista delle BR? E così via, domande su domande…E sto cercando di darmi delle risposte”.

Ha tracciato una specie di identikit del cervello delle BR? E queste BR cosa sono in effetti, una sigla, uno strumento, un movimento rivoluzionario?
“Non è difficile ad un uomo di immaginazione, farsi un’immagine del capo, o di uno dei capi delle BR. Magari non corrisponderà a quella vera: ma è probabile, probante e coerente rispetto ai dati su cui l’immaginazione si fonda. Ecco: non è giovane: ha fatto il partigiano con ritardo o marginalmente, per cui ora sta realizzando il sogno giovanile dell’azione e del comando; è ben mimetizzato nel partito in cui ha sempre militato, forse considerato senza ambizione e velleità dai suoi più vicini; non conosce per nulla il Sud e forse ha accanto qualcuno del Sud che gli racconta, come Crispi a Garibaldi, di un Sud pronto ad esplodere; non ha mai letto nulla al di fuori dei sacri testi, e non sa che ripeterli; anche perché è fanaticamente certo di quelle verità, che quelle verità non potranno che realizzarsi così come dopo la notte viene il giorno; e infine ha quel tanto di concretezza da non sperare che quelle verità possano realizzarsi al di fuori della forza comunista tout court, del comunismo, per dirla con un’espressione di Moro, nella sua “unicità”. Insomma, le BR sono veramente rosse…”.

Perché lo Stato non ha trattato? E’ stata una scelta giusta a suo parere? E l’iniziativa “umanitaria” del PSI meritava migliore considerazione?
“Lo Stato non ha trattato per debolezza. Nella misura in cui si è creduto forte (ma si è davvero creduto forte?), era debole. Uno Stato forte non ha paura di trattare. Poniatowski, ministro degli interni francese, di uno Stato che è veramente Stato, ha detto che quando ci sono in gioco vite umane innocenti, lo Stato tratta. E’ dopo che deve saper annientare i focolai di eversione, radicalmente. Poniatowski che senso dello Stato ne ha, la pensa dunque esattamente come Moro. Ma dette da Moro – che peraltro senso dello Stato non ne aveva mai avuto – queste cose sono parse segni di stravolgimento, di follia…E in quanto alla rottura del fronte statolatrico da parte del PSI, io penso che non sia stata mossa dalle sole ragioni umanitarie. Il PSI aveva da un lato la preoccupazione del “compromesso storico” che il rapimento di Moro veniva a cementare (e c’era il pericolo che lo cementasse ancor più la morte) e dall’altro, probabilmente, aveva avuto una qualche avvisaglia di un dissenso all’interno delle BR, e quindi intravisto la possibilità di una trattativa non indecorosa da parte dello Stato. Del resto, leggendo con attenzione i comunicati delle BR, una qualche traccia di inquietudine interna si può ravvisare”.

Cosa c’è dopo Moro?
“Ci attende da una parte la verità, e quindi la possibilità di andare avanti, di migliorare, e dall’altra l’antica menzogna da continuare a servire: e quindi altra violenza, altro sangue, la convivenza col terrorismo, fino a quando, come rimedio, come salvezza – e salutata come salvezza da un popolo stanco e nauseato – non interverrà la fine della libertà”.

Tutti i suoi libri hanno un messaggio, una morale. Qual è la morale del caso Moro?
“Appunto questa: che non bisogna aver paura della verità, se non si vuole perire. Moro è stato un uomo da me non amato, e forse non amabile: ma il modo come è morto, come – dalle due parti – è stato fatto morire, quello che nelle sue lettere ha lasciato come constatazione e come previsione, è una grande e tragica lezione. Teniamocela nel sentimento e nella ragione. E cerchiamo di essere veramente cristiani. Cristiani con questa insegna: “La verità vi farà liberi”.