LA COLONNA INFAME E LA «BUROCRAZIA DEL MALE». MANZONI, SCIASCIA E LA GIUSTIZIA PENALE

di Francesco Gonin per l'edizione del 1840 de I Promessi Sposi di Francesco Gonin per l'edizione del 1840 de I Promessi Sposi

A margine di Gaetano Insolera, La giustizia penale di Alessandro Manzoni, Mucchi, 2023

Nella nota alla mirabile edizione della Storia della colonna infame pubblicata da Sellerio, Leonardo Sciascia ha sostenuto che l’opera del Manzoni – che si dice minore, ma è invero, ahinoi, misconosciuta – non è tanto un’appendice ai Promessi sposi, quanto piuttosto il suo capitolo conclusivo. I Promessi sposi, secondo Sciascia, andrebbero allora letti una prima volta dall’inizio alla fine, compresa appunto la Colonna, e poi al rovescio, ossia partendo dalla Colonna e giungendo ai travagli di Renzo e Lucia. Così, non soltanto si svelerebbero i richiami incrociati disseminati nei due testi, ma «il problema della giustizia» (ancora Sciascia) emergerebbe come sfondo del corpus complessivamente inteso. Proprio l’analisi congiunta delle due opere è al centro del volume che Gaetano Insolera, già professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Bologna, ha dedicato alla questione della giustizia penale nell’opera del gran lombardo, di cui è appena caduto il 150° anniversario della morte. Insolera coglie e rappresenta, in una rara sintesi, le idee del Manzoni «sulla verità e sugli uomini» e, più in generale, sulle «ingiustizie del mondo» (p. 29) che è motivo dominante e costante del suo pensiero, come già si ricava da quei versi dell’Adelchi [Atto V, Scena VIII] intrisi di intenso pessimismo: «Ad innocente opra non v’è: non resta / Che far torto, o patirlo. Una feroce / Forza il mondo possiede, e fa nomarsi / Dritto». La giustizia, osserva Insolera sulla scia di Manzoni, «nelle mani degli uomini, può assumerne tutte le imperfezioni: passioni, ferocia, ignavia, falsità. Storture, con la tentazione – […] demoniaca – di usarle per ottenere, con il processo criminale, una verità che corrisponda a quella che si vuole comunque ottenere, perché tale deve essere: per ragioni che hanno a che fare con i potenti, compiacendoli e ammansendo la forza bruta della folla, con l’assecondarne le superstizioni. Una tentazione che non incontra limiti nel dare sofferenza agli sventurati caduti tra gli artigli della giustizia penale» (p. 30).
Come ben noto, nella sua «sdegnata ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione» (SCIASCIA, Nota, p. 176), Manzoni, pur riconoscendo l’altissimo valore storico e ideale de Le osservazioni sulla tortura del Verri, ne prende le distanze, non potendo accontentarsi – davanti alla tragedia di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora – della consolante versione dell’«ignoranza de’ tempi» o dell’ottimistica visione per cui è sufficiente l’incivilimento per eradicare i mali sociali. Chiarisce Sciascia – che dice di sé, impiegando però una prima persona plurale che può dirsi felicemente inclusiva: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico» – che se «Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni», Manzoni si volge alle «responsabilità individuali. La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte. Quando il Nicolini […] dice che “l’istruttoria venne delegata a un Monti e a un Visconti, ch’è quanto dire a uomini di cui tutta Milano venerava l’integrità, l’illibatezza, l'ingegno, l’amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”, coraggio civile a parte, e cioè in meno, viene da pensare a quel libro di Charles Rohmer, L’altro, che è quanto di più terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: “una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l’esatta misura della loro negatività” […]. Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c’è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono “burocrati del Male”: e sapendo di farlo» (SCIASCIA, Nota, p. 176-177).
Contro uno storicismo che vorrebbe risolvere tutto sul piano di un progredir civile lineare – e che, chiosa Sciascia, è «di profonda malafede se non di profonda stupidità» (Nota, p. 182) – Manzoni esalta invece la facoltà della scelta, e lo fa nella prospettiva della morale cattolica, che quella facoltà significativamente appella come «libero arbitrio». In una pagina dedicata al rapporto – anch’esso non incontroverso – tra Manzoni e Beccaria, Alessandro Passerin d’Entrèves sottolinea infatti che «Un cristiano non potrà mai addurre a sua difesa che gli è stato ordinato di commettere un delitto: la responsabilità non può essere spostata; ogni e qualsiasi decisione prendiamo, è nostra. I giudici che condannarono quegli innocenti non erano le vittime di un sistema, gli strumenti di una società corrotta, di un’età oscura e barbara. Erano corrotti essi stessi, in quanto tradivano il loro vero e solo dovere, che era quello di ricercare la verità, non di accontentarsi di confessioni estorte con la violenza. Non c’era nulla di inevitabile in quel mostruoso errore giudiziario. Non c’è nulla di evitabile nella storia, perché sono gli uomini che fanno la storia, non la storia gli uomini» (Beccaria, Manzoni e la giustizia penale, in ID., Potere e libertà politica in una società aperta, a cura di S. Cotellessa, Bologna, 2005, p. 147). Gli “untori” potevano essere riconosciuti innocenti persino «con una legislazione che ammetteva la tortura», e invece si sono giudicati «colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva», come proprio Manzoni scrive nella Colonna infame (p. 11-12).
È contro le «passioni perverse» che bisogna dunque rivolgersi: passioni, ci dice Manzoni, «che non si posson bandire, come falsi sistemi, nè abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle» (Colonna infame, p. 13). Sono passioni «non particolari a un’epoca» ma eterne, perché connaturate all’animo umano: nel tempo, hanno condotto al supplizio del Piazza e del Mora, all’assalto alla casa del vicario di Provvisione (capitolo XIII dei Promessi sposi), al linciaggio del Ministro delle finanze del Regno napoleonico d’Italia Giuseppe Prina (il grande rimorso dello stesso Manzoni), alla «burocrazia del male» nei campi di sterminio, alle leggi d’eccezione. E oggi? I tempi sono certamente meno “ignoranti”, senza che ciò – ammonisce Gaetano Insolera – ci sollevi dal chiederci, ancora, «come tradurre il concetto di umana “passione”, che può irrompere nella pratica della giustizia penale, compromettendo lo scopo di ricerca di verità e responsabilità» (p. 49). «Sfuggire alle “passioni” contemporanee – prosegue l’autore – vuol dire evitare una contrapposizione tra giudice emotivo e giudice razionale, trovando un punto di equilibrio, una sintesi che non dia prevalenza né a giudizi sospinti da passioni e intuizioni, né alla pretesa di rinchiudere i percorsi del decidere in paradigmi regolati da aprioristica razionalità» (p. 51-52): «Oggi le “passioni” della giustizia penale non sono più guidate da ignoranza, credenze, superstizioni di un volgo reso feroce e colpevolmente ascoltato da chi invece avrebbe dovuto e potuto trovare la verità insieme all’innocenza di poveri capri espiatori. Spunti li ritroviamo in un panorama completamente diverso che presenta però, in molti casi, dinamiche e notazioni analoghe rese inquietanti dalla crisi politica delle democrazie liberali, con l’affermarsi di un populismo penale che si rispecchia in quello politico, regolando i meccanismi del consenso democratico» (p. 56).
Ma si deve prestare attenzione anche a un altro risvolto dell’incidenza delle “umane passioni” nell’attività del giudicare. Un risvolto che non fa del giudice lo strumento per così passivo delle pressioni della massa – quando questo cade preda del «timor di mancare a un’aspettativa generale, […] di parer meno abili se [si scoprono] degl’innocenti, di voltar contro di sè le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne [possano] avvenire» (MANZONI, Colonna infame, p. 12) – ma lo conduce invece ad auto-investirsi della funzione promozionale di una giustizia non più resa secondo la legge, e dunque nei limiti della decisione politica assunta da altri, ma oltre di essa, oltre il rispetto cioè della forma testuale che è vincolo e parimenti garanzia. E se è vero che, come ha recentemente ricordato Giovanni Fiandaca (Giudici o politici a latere? Come distinguere i ruoli, in Il Foglio, 02.12.2023), non sempre risulta agevole distinguere «l’interpretazione correttiva o integratrice secondo Costituzione dalla tentazione di un interventismo e di una supplenza politica che pretendano pregiudizialmente di contrapporre autonome politiche giudiziarie del diritto alle politiche del diritto decise in sede parlamentare e/o governativa», ciò non vale certo «ad avallare il libertinaggio ermeneutico, ancorché sorretto da buone intenzioni», ma semmai a mostrare «come ineludibile una esigenza di misura, di self restraint per non cancellare quelle pur sottili linee di confine tra politica e diritto, il cui mantenimento rientra tra i presupposti essenziali di uno Stato di diritto degno di questo nome». «Le passioni del giudice, le sue moderne intuizioni», per dirla con Insolera, aprono dunque anche uno squarcio sul tema del rapporto tra giudicante, regola e giudizio, che tutto ha a che fare con la divisione dei poteri e, specialmente nell’ambito penale, con il tentativo di mitigare, per quanto possibile, la terribilità della coercizione: «il vincolo al testo della legge contrasta due possibili degenerazioni della coercizione penale: l’affermarsi di un “giudice di scopo”, che si sostituisce, anche con le migliori intenzioni, nell’individuare i limiti delle opzioni punitive della legge, che dà attuazione a proprie convinzioni e scelte di politica criminale. È il tema dell’analogia in malam partem delle fattispecie incriminatici. Ma l’abuso del decisore può annidarsi anche nella deformazione delle regole processuali per via di interpretazione e prassi, perseguendo obiettivi di giustizia sostanziale, che il giudice ritenga imbrigliati da quelle regole e dalle invalidità probatorie: da cavilli formalistici» (p. 51-52). Un abuso del decisore che è l’anticamera di un assolutismo “giuristocratico” – fiat iustitia et pereat mundus – cui è possibile, e necessario, opporre una manzoniana resistenza.

[Questa recensione è destinata al prossimo fascicolo della rivista «PaSsaggi costituzionali». Si ringrazia la direzione della rivista per averne consentito la pubblicazione]

GIUSEPPE PORTONERA