Sciascia maestro geniale ma svogliato

Il “maestro di Regalpetra” fumava in classe, si attardava nei corridoi con i colleghi per chiacchiere e caffè, si assentava spesso per scrivere i primi libri, per convegni a Catania e Palermo, per i primi contatti con Pasolini, Calvino o l’editore Bardi a Roma. E si dannava l’appena ventottenne Leonardo Sciascia per la miseria che lo circondava, in pena per scolari con scarpe di stoffa ai piedi anche nei giorni di neve, sconfitto perché cosciente di non riuscire ad aiutarli come avrebbe voluto: “Educare è una cosa impossibile quando l’ambiente resiste, quando quei valori che l’opera educativa illumina non esistono nell’ambiente”.

Di essere “sempre stato un maestro senza vocazione, in un certo senso un pessimo maestro”, fu Sciascia a dirlo di se stesso, nel 1982, parlando nella scuola elementare di Racalmuto dove, da bambino, aveva imparato a leggere e scrivere e dove aveva poi insegnato dal 1949 al 1957. Proprio l’esperienza raccontata nelle Cronache scolastiche che Calvino gli fece pubblicare nel ’54 sulla rivista “Nuovi Argomenti”. La stessa poi inserita nelle Parrocchie di Regalpetra.

Ma, dopo mezzo secolo, nel paese dove si continua a stampare il pungente giornalino “Malgrado Tutto”, ecco saltare fuori, grazie a due segugi di quel foglio amato dallo scrittore, proprio i suoi diari, i suoi registri di classe custoditi negli archivi della scuola “Macaluso”. Documenti inediti su Sciascia alunno e sul “maestro di Regalpretra”, stando al titolo della fortunata biografia di Matteo Collura. La scoperta di queste note su Sciascia bambino e vergate di pugno è merito di appassionati ricercatori come Salvatore Picone, Carmelo Marchese e Pietro Tulumello, autori di un volume in stampa con “Malgrado Tutto”, una inedita raccolta destinata a offrire nuovi, singolari elementi di riflessione sugli esordi e sulla personalità dello scrittore.

Anche perché, lavorando su quei registri, è stato possibile rintracciare alcuni colleghi di Sciascia e molti suoi allievi. Come Calogero Creparo, un medico trapiantato a Genova, emozionato rileggendo il giudizio del suo maestro: “C’è nella classe un bambino di straordinaria intelligenza, anche se distratto e confusionario”.

Sciascia supera il concorso magistrale nel 1948, venti giorni dopo il suicidio del fratello Giuspepe. E il 12 ottobre del ’49 ottiene la prima cattedra, una sgangherata scrivania in un’aula fredda e scrostata, la IV C, dove compila il primo “atto d’ufficio” sul registro di classe: “Non è senza timore che inizio la mia opera di insegnante. La classe affidatami è numerosa il che contribuisce ad accrescere il mio disagio. A questo primo brusco contatto, l’opera educativa a cui mi ritenevo, per esperienza libresca, preparato e che perciò vagheggiavo perfetta, mi si presenta al quanto scoraggiante e difficoltosa…Qui occorrono molti anni perché la scuola veramente sia scuola”.

Sembra la riflessione che apre le Parrocchie di Regalpetra: “Qui, in un remoto paese della Sicilia, entro l’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie”.

Ventisette alunni. E annota l’occupazione dei genitori: mezzadro, calzolaio, contadino, zolfataro, emigrato. Tracce di sofferenza antica in una Sicilia disastrata dalla guerra, come appunta: “Educare e istruire è indubbiamente compito più facile in una società non così economicamente minorata”. Primo impatto: “La distribuzione delle scarpe ai più bisognosi (due nella mia classe), ha riempito gli altri di recriminante invidia”. Secondo nodo, i libri: “Ho dovuto spendere molta persuasione con i genitori. Mille lire sono, per un operaio di questo comune, più di tre giornate di lavoro”. E affonda sul valore dello sciopero: “Qualcuno è venuto fuori dicendo che i loro padri dovrebbero scioperare, ma tutti uniti, stante le paghe di miseria”.

Il maestro cerca il linguaggio per catturare la loro attenzione e s’aggrappa a Umberto Saba: “Abbiamo studiato la poesia Goal e – tutti grandissimi tifosi di calcio – l’hanno accettata con entusiasmo”. Poi inventa una gara di lettura come quelle che oggi si fanno perfino in TV. Con piccoli premi in palio. Anche nel ’54 quando in classe ci sarà quel futuro medico di Genova. Scrive Sciascia: “Il livello medio del modo di leggere, rapidità e precisione, è migliorato. Per rientrare nell’ortodossia pedagogica faccio poi in modo che tutti ricevano un premio”. Coincide il ricordo di Creparo: “Vincevamo penne colorate, una lente di ingrandimento, quaderni, righelli”.

Ma alla fine dell’anno Sciascia non promuove tutti: “Per i tre che ho respinti, mi spiace: non potevo fare in modo diverso senza nocumento a quel senso di giustizia che spero mi abbia sempre ispirato”. Lo sconforto per alcuni studenti “naturalmente” negati al perseguimento degli studi” è bilanciato da qualche sorpresa esaltata nel registro del novembre 1950: “Adoperano il dialetto con spontaneità, con precisione, con ricchezza di espressioni. Certe loro espressioni a volte mi sorprendono per la “letterarietà”. Uno scrive: “I campi cominciano a vendicare”. Mi chiedo dove avrà raccolto quel “vendicare”, tanto letterario…forse dove trova certe impossibili coniugazioni di verbi, certe strambe declinazioni di aggettivi”.

Ma è dal terzo anno che scatta un sempre maggiore distacco del maestro. Sempre in coincidenza con eventi letterati o con incontri importanti. E quando torna a scuola, forse, cerca una giustificazione con se stesso sul registro: “Il maestro è ben pco, per quel che può fare nelle tre ore di scuola: è la famiglia che dovrebbe collaborare costantemente con il maestro”.

Ma sa bene che la scuola per lui è “un po’ marginale”. Come ammette nel 1982 in quella stessa scuola lasciata nel 1957, l’anno in cui muore il padre e il paese scopre che dietro il feretro sfila una miriade di gente venuta da città lontane. Compreso un capitano dei carabinieri, Renato candida, che lette le Parrocchie aveva voluto conoscere il paese. Senza immaginare che egli stesso sarebbe diventato il capitano Bellodi de Il giorno della civetta. E che a quel funerale il maestro lasciava il passo allo scrittore.


Da “Corriere della Sera”, 8 aprile 2007 pag.33
Di Felice Cavallaro