Spigolature sul Giorno della civetta*

Dovendo individuare un libro che possa rappresentare nel canone della letteratura italiana la narrativa di Leonardo Sciascia, il Giorno della civetta sarebbe senza dubbio la scelta più scontata, ma direi obbligata. Il romanzo, pubblicato nei «Coralli» di Einaudi nel 1961, è certamente l’opera sciasciana più diffusa,

come mostrano i dati (risalenti peraltro a una decina d’anni fa) offerti da Giuseppe Traina nel suo Leonardo Sciascia (Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 131-32): 690.000 copie vendute e traduzioni in diciassette lingue, comprese turco, ebraico e giapponese, dati di vendita che per di più non tengono conto delle edizioni scolastiche (due di Einaudi, una di Adelphi). È anche fra i libri più e meglio studiati, in particolare da Claude Ambroise, Marco Belpoliti e Massimo Onofri, dallo stesso Traina, e da Nicola Fano, autore di una pregevole monografia sul romanzo (Come leggere «Il giorno della civetta» di Leonardo Sciascia, Milano, Mursia, 1993). E, sia detto sommessamente, fra i più belli.
Il compito di descrivere il romanzo in un saggio per l’edizione allargata delle Opere della Letteratura italiana diretta per Einaudi da Alberto Asor Rosa e distribuita con «l’Espresso» e «la Repubblica» negli ultimi mesi del 2007, mi è parso perciò al contempo agevole e disperante, mosso com’ero dalle opposte esigenze di inserire il lavoro in griglie precostituite (ne sono venuti fuori cinque capitoli su Genesi e storia, Struttura e personaggi, Tematiche e contenuti, Modelli e fonti, Stile e lingua, e una Nota bibliografica) e cercare di non ripetere stancamente il già noto. Del risultato non sta a me giudicare, e non sarebbe utile né opportuno riproporne estesamente i contenuti. Vorrei tuttavia cogliere l’opportunità offerta dalla Newsletter per segnalare alcuni punti che mi sono parsi rilevanti durante la stesura del lavoro.



Innanzitutto registro la presenza di una traccia della prima stesura del romanzo, quella che nella Nota che chiude il libro Sciascia definì oggetto di un «lavoro di cavare», sistematico e lungo, vòlto a ottenere una versione che gli consentisse di «parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla [su]a rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti» e le conseguenze penali di quelle intolleranze. La traccia è il testo intitolato Il silenzio, presentato come «racconto» nella «Fiera letteraria» dell’8 febbraio 1959, e che corrisponde alla prima sequenza del romanzo, l’assassinio in piazza di Salvatore Colasberna e le prime indagini dei carabinieri, limitate dal silenzio omertoso dei numerosi testimoni oculari. Il precedente, a quanto ho visto, è sfuggito agli studiosi, con l’unica eccezione di Olivia Barbella che ne accenna nella sua monografia sciasciana (Sciascia, Palermo, Palumbo, 1999, p. 27).
Il confronto fra le stesure consente di concordare con Sciascia quando nella Nota scrive «Può darsi il lavoro ne abbia guadagnato», valutando perciò positivamente il côté puramente stilistico del «lavoro di cavare»: rispetto al Silenzio, infatti, la prima sequenza del Giorno della civetta è non solo più ampia (le aggiunte si limitano comunque a specificare gli elementi narrativi, non ne introducono di nuovi), ma presenta un ritmo, una costruzione narrativa e una scelta lessicale che diventano rispettivamente più vivace, più compatta, più espressiva. Il saggio per la Letteratura italiana non consentiva però un indugio adeguato sulle differenze fra le versioni, per cui ho ridotto all’essenziale le osservazioni, rinviando un confronto più dettagliato a un articolo che uscirà nella prossima primavera nella rivista «Per leggere».

Il contenuto della prima sequenza non permette di misurare le modalità dell’autocensura sciasciana: non c’erano nel brano personaggi da far scomparire o far ritirare nell’anonimato, né passaggi di esplicita denuncia politica da far cadere. Va detto che quel che lo scrittore ha deciso si potesse leggere senza rischiare d’incorrere in «imputazioni di oltraggio e vilipendio» è comunque sufficiente a fare del romanzo la prima e perciò più coraggiosa opera letteraria in cui il fenomeno mafioso viene rappresentato estesamente senza esaltazioni o mistificazioni. Operazione quella sciasciana che nasce dall’esperienza diretta della realtà, ma che si nutre dell’apporto di osservazioni dirette o indirette (ma di estrema sagacia) del fenomeno. Faccio un paio di esempi, meglio contestualizzati nel saggio.
Un brano del romanzo deriva direttamente dal libro Questa mafia scritto nel 1956 da Renato Candida, allora ufficiale dei Carabinieri a Agrigento e principale modello del capitano Bellodi: è il passo in cui si ricorda come in un comizio l’onorevole Livigni, circondato di mafiosi, giurava di non aver mai conosciuto un mafioso, attiran¬dosi la battuta «e questi che stanno con lei che sono, se¬minaristi?». La stessa battuta fu effettivamente pronunciata durante un comizio della campagna elettorale per le amministrative del giugno 1959, come racconta Candida a partire dalla seconda edizione (1960) di Questa mafia.
Un altro ‘sottotesto’ che va fatto emergere sono i Quaderni del carcere. Non è la sede per interrogarsi sulla portata e le modalità della lettura di Gramsci da parte di Sciascia negli anni Cinquanta; mi pare comunque indubbio riconoscere un’ascendenza gramsciana nell’analisi del fenomeno mafioso proposto nel 1956 in una recensione al libro di Candida (confluita poi col titolo La mafia in Pirandello e la Sicilia), in particolare quando Sciascia scrive: «Dove la coscienza di classe manca, la mafia riesce a sostituirsi al sindacato, in estremo “doppiogiochismo” tra istanze propriamente sindacali e difesa padronale». La consonanza con un brano dei Quaderni mi pare evidente: «Non partecipare attivamente alla vita collettiva [...] significa che al par¬tito politico e al sindacato economico “moderni”, come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si “preferi¬scono” forze organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo “mala¬vita”, quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte» (Quad. 6 [VIII], § 162, a p. 815 dell’edizione curata da Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975).

Quella recensione costituisce il precedente più articolato della concezione del fenomeno mafioso che emerge dal Giorno della civetta, in cui trova posto una rappresentazione di cui non è purtroppo inutile ribadire la forza e l’importanza, di fronte alla persistenza del pregiudizio di uno Sciascia che, trovandosi immerso in una cultura, quella italiana, che «almeno fino ad oggi, non ha in sé parole d’ordine e valori abbastanza forti da potersi contrapporre alle parole d’ordine e ai valori della mafia», avrebbe «subìto la forza di fascinazione del Mostro», come scrisse Sebastiano Vassalli su «la Repubblica» del 7 agosto 1992, poco prima di pubblicare il suo Cigno. Il ritratto del capomafia don Mariano Arena, e soprattutto il «saluto delle armi» con cui Bellodi e Arena, partendo dalla classificazione dell’umanità enunciata dal mafioso in «uomini, mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà», si riconoscono reciprocamente il titolo di «uomo», sono stati da sempre fonte di ambiguità (ma cos’è la letteratura se non una fonte inesauribile di ambiguità?), e hanno reso Sciascia citabile persino da Totò Riina (che, a quanto ricordo, in un processo trasmesso in TV disse pressappoco così: «Lo sa, Presidente, come diceva Sciascia? ci sono gli uomini, i mezzi uomini e i quaquaraquà, e quell’infame che mi accusa è un quaquaraquà»). Lo hanno fatto definire da Giorgio Bocca come qualcuno che «non era mafioso ma pensava mafioso, aveva sensibilità mafiose» (Il provinciale. Settant’anni di vita italiana, Mondadori, Milano, 1991, p. 302), e hanno fatto scrivere a Pino Arlacchi su «la Repubblica» dell’11 dicembre 1993 che la rilettura del Giorno della civetta e di A ciascuno il suo gli ha fatto provare «una grandissima delusione», perché ci ha ritrovato «la magnificazione del potere mafioso, una visione nichilistica e profondamente cinica sulla possibilità di sconfiggere la mafia» e che la Nota sulla riscrittura del primo romanzo «è un messaggio di una codardia civile spaventosa» (tesi ribadite e circostanziate pochi giorni dopo, ne «la Repubblica» del 23 dicembre, dove si legge anche un’osservazione fulminante sul Giorno della civetta: «Il volumetto non contiene alcuna denuncia»).

Il pregiudizio, che non nasce nei primi anni ’90 ma che in quella terribile ed esaltante stagione mise radici e trovò alimento, non tiene conto, a tacere d’altro, della specificità del discorso letterario, dove tutte le istanze devono trovare voce ed essere efficaci, anche quelle rifiutate ideologicamente da chi produce il testo, pena la realizzazione di opere a tesi, legate alla contingenza, prive di valore generalizzante e che in definitiva non reggono, non durano, non piacciono.
Ma che il ‘personaggio negativo’ avesse una Weltanschauung più suggestiva del suo antagonista è un fatto che lo stesso Sciascia si trovò a riconoscere in un altro saggio essenziale per comprendere l’idea di mafia che aveva lo scrittore siciliano, Appunti su letteratura e mafia, pubblicato nei «Nuovi quaderni del Meridione» del gennaio-marzo 1964: «dai romanzi “storici” di Natoli», scrive Sciascia nel finale, «si ha l’impressione che la forma più netta della costituzione siciliana – del modo di essere siciliano e della legge non scritta che ne scaturisce – si riduca a un’intesa tra persone “de’ medesimi pensamenti, del medesimo sentire”. Ma non soltanto dai romanzi di Natoli, come abbiamo visto, come c’è ancora da vedere: fino al Gattopardo, in cui la mafia si fa elemento della inalienabile “contemplazione della morte” cui il siciliano è dedito; fino al nostro racconto Il giorno della civetta, di cui qualcuno ha giudicato come la “virtù” dell’uomo che difende la legge dello Stato riuscisse meno suggestiva della cinica e spietata visione della vita di un capomafia. Ed è da questo punto che dovremmo ricominciare il discorso». Quando nel 1983 Sciascia ripropose il saggio con un titolo leggermente diverso (Letteratura e mafia) nella raccolta Cruciverba lo arrestò alla citazione da Natoli, occultando il problema.

Indagare le motivazioni di questa nuova autocensura ci portebbe molto lontano dal Giorno della civetta, imponendoci di considerare il lungo e articolato rapporto di Sciascia con il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e chiamare in causa elementi extraletterari, come il ruolo del romanzo nella polemica con Nando Dalla Chiesa all’indomani dell’assasinio del padre, consumato a Palermo il 3 settembre 1982. Prendo comunque spunto dalla frase finale per raccogliere l’invito ideale a ricominciare proprio dal Giorno della civetta l’indagine sulla produzione letteraria di Sciascia: ne Il mare colore del vino c’è un racconto, Filologia, scritto due anni dopo il romanzo e che del romanzo è una sorta di propaggine perché come parte di quello è strutturato in forma di dialogo fra due personaggi anonimi. Una storia in breve della mafia, che parte dall’etimologia della parola per evocare in forma allusiva eventi, concezioni e relazioni contestuali della mafia alla vigilia dell’insediamento della prima commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno. Ma di questo potrò riparlare solo tra qualche tempo, quando il lavoro sarà un po’ più maturo.

* A proposito di Paolo Squillacioti, «Il giorno della civetta» di Leonardo Sciascia, in Letteratura italiana. Diretta da Alberto Asor Rosa, vol. 17 Il secondo Novecento. Le opere dal 1938-1961, Torino, Einaudi, 2007, pp. 655-89 («La Biblioteca di Repubblica-L’Espresso»); Id., L’alba del giorno della civetta: «Il silenzio» di Sciascia, «Per leggere. I generi della lettura», primavera 2008 (in corso di stampa).