Pietro Milone, Lucciole e lanterne: Andò, Baliani, il Maestro di Regalpetra e don Milani

La notte delle lucciole è il titolo della bella rappresentazione teatrale che Roberto Andò ha costruito quasi per intero su testi e dichiarazioni di Leonardo Sciascia in un immaginario dialogo con Pier Paolo Pasolini. Il titolo allude proprio a quest’ultimo, al suo famoso pezzo sulla scomparsa delle lucciole, oltre che al Pirandello delle Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra.

Lo spettacolo, convincentemente interpretato dall’ottimo Marco Baliani, ha proseguito il suo tour con un meritato successo che ci auguriamo prosegua in altre città e in altre stagioni. Perché l’opera di Andò rappresenta, con Sciascia, un buon antidoto alla stupidità imperante in una società senza più maestri in cui la scuola, come anche l’informazione e la cultura, è stata ridotta da una scellerata politica bipartisan a spettacolo, al ludico e decerebrato intrattenimento mediatico-televisivo (ovverosia al minimo comun denominatore del berlusconismo Mediaset e dell’ antiberlusconismo della Rai  già ulivista). Nella rappresentazione di Andò, sulla scena, tra i banchi di una scuola, risuona la voce del Maestro di Regalpetra e la finzione del teatro diventa, viceversa, scuola di coscienza e conoscenza.
Quale sia lo Sciascia di Andò e Baliani richiederebbe un troppo lungo discorso critico. Diciamo, semplificando un po’, che è soprattutto lo Sciascia che va dalle Parrocchie di Regalpetra all’ Affaire Moro. Uno Sciascia che resterà se stesso ma diverrà anche un altro, negli anni Ottanta. Che aveva anzi già cominciato a divenirlo, da Candido in poi.
Le intenzioni di Andò si possono leggere nella sua bella ed efficace presentazione dello spettacolo (la pubblichiamo a parte) che egli definisce, in maniera appropriata e suggestiva, una “veglia”. Andò richiama il tema della morte quale motivo ispiratore della messinscena e l’intonazione e le note della pietà come scandaglio di redenzione civile.
Completerei, da parte mia, ricordando la veglia della ragione: l’insonnia che fu frequente metafora in Sciascia di sgomento esistenziale e politico (dalla guerra civile in Spagna e dal patto Molotov-Von Ribentropp a Moro). L’italiano è il ragionare faceva dire Sciascia al professor Franzò in Una storia semplice. E anche il teatro, nella Notte delle lucciole, è il ragionare. Sta qui il suo incondizionato valore di testimonianza civile (senza scordare i suoi pregi, con qualche piccolo limite, sul piano dell' arte e dell' interpretazione critica) in una società in cui, per citare ancora l’affilata ironia del professor Franzò, si può stare «più in alto» con meno italiano, con meno teatro, con meno cultura, con più stupidità asservita al potere o, come ora si dice, alla "casta".
In questa lucida veglia, in questa bella festa di intelligenza e passione, di coscienza che illumina e rischiara la realtà (senza trionfalismi, come un «lanternino» avrebbe detto Pirandello al quale dispiacevano invece, come perniciose illusioni, i «lanternoni» delle ideologie), in questa musica ben concertata e interpretata, pochissime sono le note stonate. Con il rischio di prendere lucciole per lanterne (e pirandellianamente: «lanternini» per «lanternoni») quando, a commento di un passo delle Cronache scolastiche, Marco Baliani con tono ammirato postilla (con Andò, dobbiamo pensare), che Sciascia, lì, quasi precorre don Lorenzo Milani. Un ossequio a Sciascia o viceversa, come mi sembra, a uno dei perduranti miti e idoli del vangelo dell'ideologia politically correct? Si tratterebbe allora, per dirla chiaramente, della nota stonata nel registro dell' acritico e prono ossequio all’ideologia egemone delle teorie educative e della politica scolastica da quando, nel clima di un ininterrotto Sessantotto, passando dalla didattica alternativa degli anni Settanta a quella ministeriale dei Novanta, hanno cominciato a imperare nipotini di padre Milani e demolinguisti gramsciobarbiani. Con il deliberato proposito, brillantemente attuato, di negare e svilire il ruolo e la funzione docente, di negare e svilire i contenuti disciplinari e culturali e lo spirito critico abbassando continuamente i livelli di insegnamento e apprendimento. Insomma: abbassare il livello di cultura della scuola anziché innalzare, con la scuola, il livello di cultura del popolo sovrano. Come a dire: il maoista “servire il popolo” coniugato col mercato mediatico di programmi "aggiornati" fuori di polverose tradizioni culturali e nell'orizzonte di un sol non più dell'avvenire ma del presente, con una didattica che traghetta la scuola da Ungaretti o Svevo agli Amici della De Filippi, dal Paradiso di Dante a Tre metri sopra il cielo di Moccia. Non esagero: a Roma, al liceo Giulio Cesare un docente moderno, aggiornato e politically correct, voleva portare al cinema, a vedere quel film, la sua classe che si è ammutinata pretendendo la consueta lezione in aula (il caso è finito nella cronaca dei giornali in un giorno, speriamo, da segnare sul calendario e da ricordare, in futuro come una data simbolica, come il 25 aprile o il 14 luglio).
Nulla di più distante da Sciascia (e da Gramsci, forse anche da don Milani). Nulla di più distante dalla Notte delle lucciole il cui intento, indiscutibilmente pedagogico, di veglia della ragione, si esprime, anche quando il ritmo dell' argomentazione si fa più serrato, per lo più nel tono recitativo, e nella visione, di un'individuale pacata conversazione o di una sommessa confessione. E solo a tratti (così nella mia, un po' distanziata e spero non ingannevole, memoria della rappresentazione) accenna ad una rappresentazione corale  e quasi epica della realtà che costituisce un’altra stecca del regista che ha impostato quelle scene sul registro stonato di una retorica da realismo socialista degli anni Cinquanta che se riguarda il contesto storico delle Parrocchie  non riguarda certo la realtà del testo e della biografia di Sciascia.
Insomma: La notte delle lucciole stecca, prendendo lucciole per lanterne, là dove, nei contenuti e nella messinscena, si intona non ad un atto di verità dell' esperienza e della conoscenza ma ad una, sia pur velata, retorica ideologica, ivi compresa quella della vocazione e della missione del maestro quale vessillifero organico alla classe.
Tralasciando la classe proletaria, siciliana o terzomondista, mi limito alla classe discente, riprendendo il filo della vulgata del  donmilanismo quale reliquia incensata dal fanatico culto nella chiesa del "cretino di sinistra" (nella definizione sciasciana). Con il suo correlato di vacua retorica della missione docente che, già tanto cara, dopo il fascismo, ai vecchi tromboni democristiani (come può ricordare chi ha almeno una cinquantina d’anni), è riapparsa nel linguaggio di una già (e non più) sedicente sinistra (con la stessa funzione di deterrente ideologico alle rivendicazioni di più dignitose condizioni salariali e proprio negli anni di maggiori oneri e di inferiore status sociale degli insegnanti). A ulteriore dimostrazione che l’eterno fascismo italico, come Sciascia, sulla scia di Brancati, diceva, rispunta nei luoghi più impensati e anche apparentemente opposti, e che, di conseguenza, è necessario «dormire con un occhio solo», mantenere la ragione sempre vigile. Tanto più che  il fascismo è stato l’ errore non solo dei peggiori ma anche dei migliori.
E così, come dalla stupidità, sempre in agguato, non si può dire definitivamente vaccinato e indenne neanche il più acuto degli intellettuali, non ci si sorprenderà se anche in uno degli spettacoli più intelligenti della stagione, se non m’inganno, l'insonne ragione, stanca della prolungata veglia, si addormenta per qualche istante e provoca qualche nota stonata.
Resterebbe da argomentare sulle ragioni per le quali Sciascia non ha niente a che vedere con don Milani – a parte il fatto, questo sì, di vivere e di far conoscere, scrivendone, la realtà di una scuola in cui i più poveri sono destinati all’insuccesso - né tantomeno con i suoi deleteri nipotini. Ma poiché sullo Sciascia maestro e sulla scuola tornerò più estesamente, in futuro, mi limito qui, ormai in conclusione, a qualche accenno.
Il maestro di Regalpetra nulla aveva della cattolica vocazione alla missione del maestro e parroco di Barbiana e non apparteneva né si sentiva organico a nessuna chiesa, neanche di partito, e a nessuna classe.
Egli esprimeva sì la propria compassionevole umanità, la pietà verso le vittime della storia cui dava voce a risarcimento dell'ingiustizia patita, ma, in primo luogo, la indirizzava verso singole vittime, singoli individui, e in secondo luogo misurando nel proprio superiore giudizio un'irriducibile distanza nei loro confronti che non veniva mai meno. Sciascia non annullava la propria identità negli altri e, perciò, scriveva senza epici e corali afflati di mistiche comunioni di massa: tanto cari, sì, a cattolici, fascisti, stalinisti, maoisti, ma a lui del tutto estranei. Per le stesse ragioni, in classe, non aveva affatto un atteggiamento di comunanza amichevole nei confronti degli alunni (come ha voluto e vorrebbe una sciaguratamente insensata demagogia politico-pedagogica). Era e restava il maestro.
Non si cerchi, perciò, di fare di Sciascia un maestro contestatore. Non lo era. Inoltre, come egli stesso diceva, non si possono servire insieme due padroni. E il suo padrone era la scrittura. Sciascia scriveva anche in classe, tralasciando la didattica, e per scrivere si assentava spesso da scuola, da cui ottenne poi il sospirato distacco e, infine, il pensionamento anticipato. Insomma: Sciascia non aveva affatto la vocazione del maestro, ma solo quella dello scrittore come dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, le diverse testimonianze raccolte in un recente volume su cui conto di tornare una prossima volta (Tra i banchi di Regalpetra. Leonardo Sciascia e la sua scuola di Salvatore Picone, prefazione di Felice Cavallaro, Editoriale Malgrado Tutto, Racalmuto, 2007).
Nelle Cronache scolastiche Sciascia scriveva: «Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro» e descriveva il proprio stato d’animo di maestro come quello «dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie».
È noto ed è vero (con opportune precisazioni e limitazioni) che questa scolastica discesa agli inferi di una realtà altra, di un vittoriniano «mondo offeso», costituisce l’origine della poetica sciasciana e delle sue opere più caratteristiche e riconoscibili (se non della sua scrittura tout court che aveva ben più letterate radici). Così come è noto e vero (le pagine iniziali delle Parrocchie stanno lì a ricordarcelo) che essa origina altresì una presa di coscienza e un conseguente impegno civile e politico  a fianco delle vittime della violenza e dell’ingiustizia del potere (anche qui con tutte le opportune e necessarie precisazioni contro l’ ingaggiu, l’organicità, il fanatismo e i cretini di sinistra ecc.).
E dunque la lettura che informa la trascrizione scenica di Andò (con il richiamo alle vittime e alle ingiustizie sociali) è certo una lettura fondata. Ma, appunto perché nota, non sta in essa il suo principale merito (casomai, viceversa, come abbiamo visto, in essa corre i suoi maggiori rischi). Il merito e la novità, invece, sta piuttosto nel fatto che in essa affiora, in maniera avvertita, il tema dell’ infanzia, di un’età in cui, più di ogni altra, l’uomo, l’umanità, può essere vittima e il vivere fonte di pena. Un tema (sia pur marginale e quasi occultato, ma costantemente e sotterraneamente presente) e una pista interpretativa che vale la pena (alla lettera) di seguire per vedere più a fondo nell’opera di Sciascia. L’angoscia di quella scolastica discesa agli inferi derivava da una coscienza che, prim’ancora e più che di natura sociale e politica, era esperienza sentimentale e intellettuale di quella pena del «troppo umano» del vivere che è, anche e soprattutto, l'infanzia.


Pietro Milone