Franco Loi - Si può ancora amare l'uomo così fragile, così violento?

Parlare di Leonardo Sciascia mi è difficile e mi è  facile. Difficile perché l'ho incontrato una sola volta, e perché non si riesce mai a dire quanto e ciò che suscita la morte; facile perché il mio incontro con lui è stato intenso e subito accompagnato da un moto d'amore. Del resto, che significa conoscere? A malapena si conosce se stessi, forse si passa la vita intera nell'impossibilità di conoscersi: che aggiunge, quindi, una frequentazione?
L' incontro è avvenuto a Milano, in Borgospesso, propiziato da Domenico Porzio. Stranamente, la prima cosa che mi ha colpito è stata la fragilità. Ne avevo un'immagine diversa dalle fotografie, e persino dai libri, in cui semmai ritrovavo l'intelligenza, l'ansia ragionativa, persino una freddezza del tutto estranea all'uomo che mi stava davanti. Subito rammentai un'osservazione di Tolstoi su Anton Cechov: “Quell'uomo ha un'intelligenza di cuore”. Ecco, questa specie di fragilità e d'intelligenza mi hanno avvinto e stupito: un altro da te che senti profondamente come tuo prossimo; dunque, si può ancora amare l'uomo.
Abbiamo parlato a lungo, quel giorno. Anzi, ho cercato di rubare quanto più potevo a quell'anima così pronta a capire e a dare. Quasi subito ho compreso la sua “moralità”, la dote di cui molti hanno parlato e a cui gli stessi critici letterari hanno spesso fatto riferimento: era il suo stesso essere, la fisionomia, il suo esile e forte corpo, quei suoi occhi di dolce attenta intelligenza, quel suo volere entrare nelle ragioni del proprio parlare e argomentare, la sua presenza era morale. E ho capito di più i suoi libri. La sua scrittura è attraversata dalla necessità di raggiungere il non-dire, di cogliere l' indicibile di ogni cosa. Svuotare di corpo la realtà per dare presenza all'anima delle cose.
Anche l'inaccettabilità della mafia non era un opporsi per avversità intellettuale o per moralismo - Sciascia era profondamente morale, ma non era moralista. Era l'essenza stessa della mafia che non poteva ammettere, di qualsiasi mafia - non si deve sottacere che la congregazione degli interessi, la corporazione di potere è sempre mafia. Non poteva tollerare che la socialità fosse dominata dalla menzogna e dalla furbizia di parte. La morale di Sciascia era al centro del suo stesso concetto di Stato e di civile convivenza: c'era incompatibilità tra la sua persona, il suo corpo docile e pensante, e la pratica mafiosa. Inoltre non poteva accettare l'errore.
Così i suoi interventi, come i suoi libri, finivano per porsi come colloquio, un ragionare e dialogare per una comprensione più alta della realtà , per individuare e isolare l' errore, e quindi andare oltre tutto ciò che poteva generare violenza. Capiva, certo che capiva, sin troppo, il gioco delle parti, ma non poteva, proprio per questa sua intelligenza delle cause ed effetti di quel gioco, accettare la violenza.
Ricordo che, parlando de Il cavaliere e la morte, gli osservai che mi pareva di intuire un tema disperante nel suo libro: che l'azione del bene serviva comunque il male, e, perciò, ne usciva un giudizio estremamente negativo sulla contemporaneità. Ebbe un sorriso amaro: “E' proprio questo che mi dispera”. E c'era in quel disarmato e disarmante sorriso tutta la pietà di chi, essendo altro dal male, non può arginarlo, non solo perché lo scopre anche in sé, ma perché sa che in sé e negli altri e' inintelligenza, è  mancanza, persino negli uomini più colti e intelligenti, è schizofrenia, frattura dell'intelligenza.
Ora la sua scomparsa mi rattrista e mi dà forza. L'uomo può darsi ragione del “non c'è più'” di una persona cara? Eppure sento che la sua presenza è profondamente dentro la nostra coscienza, che è nostro compito non far sì che, ancora una volta, la sua vita e la sua parola non vengano volti al male, che, come ha scritto Lucien Blaga in una sua poesia: “Soltanto noi siamo i cantori/sotto le zolle nere dei pianeti,/ soltanto noi siamo i cantori/alle porte sbarrate,/e qui le nostre donne partoriranno Dio /dove la solitudine ci uccide”.
Qui, sento ancora presente Sciascia, tra noi lebbrosi, nella nostra resistenza al male.

(da Il Sole/24 Ore Domenica, 26 novembre 1989)