Euclide Lo Giudice - Un cruciverba su “L’isola del tesoro”

 

L’isola del tesoro : una lettura, aveva detto qualcuno, che era stata quanto di più si poteva assomigliare alla felicità. Pensò: stasera lo rileggerò”.

Chi sarà mai quel “qualcuno” a cui pensa il Vice de Il cavaliere e la morte nel momento in cui si propone di rileggere L’isola del tesoro ? Forse è il suo stesso autore, che subito dopo ci informa dell’edizione su cui il Vice lo aveva “tante volte riletto”: edizione che, si può ragionevolmente presumere, si trova nella biblioteca di Leonardo Sciascia [i].

Ma Sciascia si riferiva a Jorge Luis Borges. A Domenico Porzio, che gli ricorda: “Nel Cavaliere e la morte dici una cosa che mi è piaciuta molto: che il tuo alter ego, il Vice, leggendo L’isola del tesoro di Stevenson, conosce una delle sue forme di suprema felicità”, Sciascia risponde: “È un’idea che ho preso da Borges” [ii]. Ed è interessante notare che una delle poesie della borgesiana raccolta Elogio de la sombra si intitola Dos versiones de ‘Ritter, Tod und Teufel’, ed è ispirata all’incisione di Albrecht Dürer che Borges teneva nella sua camera da letto [iii] e che il Vice si porta “dietro da una sede all’altra, da un ufficio all’altro: attaccandola sempre alla parete di fronte alla scrivania” [iv].

L’isola del tesoro come fonte di felicità, dunque: e se la paternità della definizione spetta senza dubbio a Borges, si può tranquillamente affermare che, a proposito del romanzo di Stevenson, “Leonardo” Borges e “Jorge Luis” Sciascia la pensavano allo stesso modo.

Comunque, “Dice Montesquieu che ‘un’opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento altre, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule’. Non so se il Candide sia servito da formula a cinque o seicento altri libri. Credo di no, purtroppo: ché ci saremmo annoiati di meno, su tanta letteratura”  [v].

Non so a quanti altri libri L’isola del tesoro sia servito da formula o modello o ispirazione. A La vera storia del pirata Long John Silver di Bjorn Larsson [vi], che ne costituisce un ideale seguito, di sicuro è servito come base di partenza. L’ho letto, come si usa dire, tutto d’un fiato, con gran divertimento e piacere. (Quanto a un giudizio sul romanzo, io, lettore dilettante, lo lascio ai critici di professione. E se affermare di aver letto un libro tutto d’un fiato e divertendosi equivale a un giudizio positivo, si tratta di una semplice constatazione, non di un giudizio critico [vii].)

Qualità letterarie a parte, il romanzo di Larsson fa comunque sorgere – o rinnova, in chi già le avesse – delle perplessità di ordine storico. Mi spiego subito. L’io narrante, ossia lo stesso Long John Silver, inizia il racconto della sua vita – avventura sull’isola del tesoro ovviamente inclusa – affermando seccamente: “Siamo nel 1742” [viii].

E subito, chi ricordi L’isola del tesoro e la mappa dell’isola disegnata da Stevenson [ix], è portato a pensare: “Eh no, non siamo, né possiamo essere, nel 1742”. E per almeno due buoni motivi: il primo è che la mappa – attribuita da Stevenson al capitano Flint – è datata agosto 1750. E il secondo è che da un’altra annotazione apposta sulla stessa mappa risulta che soltanto il 20 luglio 1754, a Savannah, il prezioso documento sarebbe passato nelle mani di Billy Bones, il pirata che all’inizio del romanzo alloggia all’Admiral Benbow, la locanda di Jim Hawkins. In nessun punto del romanzo è detto in quale anno avvenga la spedizione dell’Hispaniola alla ricerca del tesoro, ma è ovvio che – per i motivi appena descritti – deve essere avvenuta dopo il 1754  [x].

Quando il Long John Silver di Larsson, iniziando le sue memorie, scrive: “Siamo nel 1742”, sa quindi benissimo di scrivere una cosa inesatta, se rapportata alla narrazione di Stevenson. Ma ciò nonostante la scrive. Della discordanza temporale tra il suo racconto e quello di Jim Hawkins, Long John Silver è del resto pienamente consapevole, se più avanti sente la necessità di sottolinearla: “Non capisco perché tu (Jim Hawkins, ndr), invece, abbia mentito sulle date, qua e là, senza alcuna ragione” [xi].  Ma si tratta appunto di una conferma – e al tempo stesso di una spiegazione necessaria – di quanto ha dichiarato fin dall’inizio.

L’ultima volta che (ri)lessi Treasure Island la mia attenzione era stata attirata dalla citazione di un preciso fatto storico. Oltre agli altri indizi di natura cronologica forniti da Stevenson [xii], al cap. XVI – il primo dei due narrati dal dottor Livesey – è infatti menzionata una battaglia: “I was not new to violent death – I have served his Royal Highness the Duke of Cumberland, and got a wound myself at Fontenoy…”.

Fontenoy, 11 maggio 1745, guerra di successione austriaca: battaglia perduta dagli inglesi del duca di Cumberland contro i francesi di Maurizio di Sassonia. Dunque: “La morte violenta non mi era nuova – ho servito agli ordini di Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland, e sono stato ferito a Fontenoy…”

E subito mi ero fermato, perché il pensiero mi era corso a L’affaire Moro: “E parodiando banalmente Borges: Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle nove, l’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale. […] Scritta – e letta – subito dopo il rapimento, questa è una pura cronaca di quel che l’onorevole Moro stava facendo e aveva in programma di fare. Ma per contro, se oggi scrivo: Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle nove, l’onorevole Aldo Moro […]; se oggi scrivo questo – le stesse parole e nello stesso ordine – per me e per il lettore tutt’altro ne sarà il senso.” [xiii]

Ecco: se la frase del dottor Livesey (“I was not new to violent death – I have served his Royal Highness the Duke of Cumberland, and got a wound myself at Fontenoy…”) viene scritta da un inglese – il dottor Livesey è appunto inglese – ha un suono quasi del tutto innocuo; ma se viene scritta da uno scozzese – Stevenson era appunto scozzese – acquista un tono alquanto diverso.

Si dà il caso, infatti, che il duca di Cumberland, nella sua non lunga carriera militare, abbia perduto tutte le battaglie da lui combattute contro eserciti regolari. Nel suo stato di servizio compare una sola vittoria, a Culloden Moor, il 16 aprile 1746: ma contro le bande affamate, male armate e peggio addestrate di Carlo Edoardo Stuart, il “Bonnie Prince Charlie” del folklore scozzese. Lo scontro durò meno di un’ora e fu una strage di scozzesi. Non si trattò di un affare glorioso, e non soltanto perché i novemila uomini dell’esercito inglese erano il doppio degli avversari.

Secondo Winston Churchill, sul campo di Culloden il duca di Cumberland si guadagnò il soprannome di “Macellaio” [xiv]. Secondo l’Encyclopaedia Britannica, il soprannome di “Macellaio” lo meritò per la brutale repressione della rivolta scozzese nel suo complesso [xv]. Sia come sia, Cumberland è passato alla storia come “Butcher Cumberland”, soprannome che nemmeno gli inglesi riescono a togliergli.

Viene quindi spontaneo chiedersi perché Stevenson, in quello che nel suo primo romanzo, pubblicato nel 1883, è l’unico riferimento a un preciso fatto storico, nomini il duca di Cumberland e una sconfitta inglese. Avrebbe potuto scrivere, per esempio: “I was not new to violent death – I have served his Grace the Duke of Marlborough, and got a wound myself at Blenheim....”. Ciò gli avrebbe consentito di nominare un personaggio prestigioso anche se discusso della storia britannica [xvi] e una vittoria, non una sconfitta inglese. Senza considerare che l’eventuale indicazione della battaglia di Blenheim (13 agosto 1704, guerra di successione spagnola) – oltre al cambio delle date iscritte sulla mappa e alle notizie riportate nelle carte di Billy Bones – non avrebbe comportato alcuna variazione nello svolgimento della vicenda di Treasure Island, e l’avrebbe anzi resa cronologicamente più realistica. È infatti il caso di sottolineare che il periodo d’oro della pirateria si concluse intorno al 1725, e non intorno alla metà del XVIII secolo [xvii], come si potrebbe dedurre dalla datazione implicita del romanzo di Stevenson.

Il Long John Silver di Bjorn Larsson ha quindi ragione di accusare Jim Hawkins di aver mentito sulle date. Per paradossale che possa sembrare, nel suo romanzo Larsson rimette per così dire le cose storicamente a posto, ambientando la vicenda de L’isola del tesoro in un periodo imprecisato ma in ogni caso ben anteriore al 1742. Per farlo è tuttavia costretto a sorvolare su Fontenoy: e non può essere diversamente, perché quella battaglia si svolse nel 1745.

Perché, dunque, Stevenson ambienta il suo romanzo, un po’ anacronisticamente, in un’epoca certo non anteriore al 1755-1760? Posso sbagliare – e non è affatto escluso che sbagli – ma ho l’impressione che la risposta possa essere cercata nell’impulso di citare, lui scozzese, quel personaggio storico, con tutto ciò che significa, soprattutto per i lettori inglesi e scozzesi [xviii]. Ecco, non escluderei che la semplice menzione del “Macellaio” Cumberland, da parte dello scozzese Stevenson, possa essere interpretata come un sottile, implicito, quasi subliminale invito ai lettori inglesi e scozzesi a non dimenticare quella sanguinosa pagina della storia britannica.

In Treasure Island Stevenson, per mezzo del dottor Livesey, nomina formalmente e ossequiosamente il vincitore di Culloden Moor, designandolo con il suo titolo – “Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland” – e lasciando aleggiare il sanguinoso soprannome nella mente dei lettori. Ma basterà attendere tre anni: e nel romanzo Il fanciullo rapito, pubblicato nel 1886, in almeno un passaggio menzionerà il duca di Cumberland: senza il titolo e soprattutto con il suo soprannome: “Così furono fatti entrare nel palazzo e per due ore di fila diedero spettacolo dell’arte della scherma davanti a re George e alla regina Carolina, a Cumberland ‘il macellaio’ e a molti altri che non ricordo” [xix].

Quanto a Sciascia: anche lui scrisse, incidentalmente, della rivolta giacobita del 1745-46. Nel saggio Un cruciverba su Carlo Eduardo [xx] – pubblicato per la prima volta nel 1954 e dedicato al Waverley di Walter Scott, alla cronaca della sollevazione scozzese del 1745-46 scritta dal gesuita Giulio Cordara, a Luisa Stolberg e a Vittorio Alfieri, ma anche a Fabrizio del Dongo e a Renzo Tramaglino – non vi è tuttavia menzione di Culloden Moor né del duca di Cumberland.



[i] Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, p. 68: “L’isola del tesoro: una lettura, aveva detto qualcuno, che era stata quanto di più si poteva assomigliare alla felicità. Pensò: stasera lo rileggerò. Ma ne aveva precisa memoria, avendolo tante volte riletto in quella vecchia e brutta edizione che una volta gli avevano regalato. Aveva perso tanti libri, nei suoi trasferimenti da una città all’altra, da una casa all’altra: ma non questo. Edizione Aurora: carta paglierina, che dopo tanti anni pareva aver prosciugato e sbiadito la stampa; e in copertina, malamente colorato, un fotogramma del film: che era in bianco e nero, piuttosto lezioso e insulso Jim Hawkins, indimenticabile John Silver, Wallace Beery”.

[ii] L. Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, Mondadori, Milano 1992, p. 61.

[iii] Jorge Luis Borges, Tutte le opere, Volume primo, Meridiani Mondadori, Milano 1984, Introduzione di Domenico Porzio, p. XIX.

[iv] L. Sciascia, Il cavaliere e la morte, cit., p. 12.

[v] L. Sciascia, Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino 1977. Ved. la Nota dell’autore posta al termine del racconto.

[vi] Bjorn Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, Milano 1998.

[vii] “ […] E un ragazzo di dodici anni può essere un critico più fine di tutti i professori universitari; persino più fine di Henry James il quale recalcitrava al fascino dell’Isola del Tesoro di Stevenson con il misero pretesto che anche lui era stato un bambino ma non era ‘mai andato alla ricerca di un tesoro nascosto’. Qui la risposta di Stevenson è perentoria e indiscutibile: ‘Se non ha mai cercato tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino’ ”. Guido Almansi, Introduzione all’antologia di saggi di R.L.  Stevenson L’isola del romanzo, Sellerio, Palermo 1987, p. 15.

[viii] B. Larsson, op. cit., cap. 1, p. 25

[ix] Robert Louis Stevenson, Treasure Island, Oxford World’s Classics, The Hamlyn Publishing Group Limited, London-Shenzen, 1987. In questa edizione è riprodotta la mappa dell’isola e il romanzo è preceduto dal saggio di Stevenson My first book. Treasure Island, pubblicato per la prima volta su The Idler nell’agosto 1894.

È un peccato che la traduzione di questo saggio non sia stata inclusa, per scelta  del curatore Almansi, nell’antologia di saggi di Stevenson già citata: “Ho lasciato da parte i saggi di contenuto autobiografico e quelli di natura aneddotica  o di biografia letteraria…” (pp. 20-21). È  vero che si tratta di un saggio di “contenuto autobiografico”, ma è anche un documento di grande importanza sulla genesi e sulla stesura del romanzo, in cui la creazione della mappa dell’isola svolse un ruolo determinante.

[x] Le mappe antiche possono esercitare un fascino irresistibile: “Io non conosco immagini più poetiche, più affascinanti, più ispiratrici delle carte geografiche…” (Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Adelphi, Milano 1992, 3ª ed., p. 53.) E lo stesso Leonardo Sciascia, almeno una volta, non seppe resistere: “… (la) prima volta che sono stato a Parigi, nel 1955. […] L’indomani […] prendendo un autobus per andare credo al Louvre […], ad un certo punto vidi nella vetrina di una libreria antiquaria una carta della Sicilia splendida di colori. Scesi alla prima fermata e tornai indietro. Costava novecento franchi, poco più delle nostre mille lire di allora. Non ne avevo molti, di franchi: ma la comprai” (Parigi, in Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, p. 308).

[xi] B. Larsson, op. cit., cap. 33, p. 403

[xii] La didascalia della mappa dell’isola con le date di cui ho già detto, e i riferimenti temporali contenuti nelle carte di Billy Bones, al capitolo VI del romanzo.

[xiii] L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978, pp. 25-26

[xiv] Winston S. Churchill, A history of the English speaking peoples, Cassel, London 1981 (1ª ed. 1957) , vol. III, p. 111: “No quarter was given on the battlefield, where Cumberland earned his long-lived title of ‘Butcher’ ”.

[xv] Encyclopaedia Britannica, Micropædia Vol. III, 15th edition, 1984: “Cumberland, William Augustus, duke of Cumberland (b. April 15, 1721–d. Oct.31, 1765, London), British general, nicknamed ‘Butcher Cumberland’ for his harsh suppression of the Jacobite rebellion of 1745. His subsequent military failures led to his estrangement from his father, King George II…”.

Fu sconfitto dai francesi di Maurizio di Sassonia a Fontenoy nel maggio 1745; massacrò i ribelli scozzesi a Culloden nell’aprile 1746; fu di nuovo sconfitto da Maurizio di Sassonia a Lauffeld nel luglio 1747; e coronò la sua carriera dieci anni dopo, nel luglio 1757, a Hastenbeck, con un’altra sconfitta sempre ad opera dei francesi: dopo la quale il re suo padre si decise ad esonerarlo dal comando.

[xvi] Su John Churchill, duca di Malborough, cfr. la biografia scritta dal suo più illustre discendente (Winston S. Churchill, Malborough, trad. italiana, Mondadori, Milano 1973)

[xvii] David Cordingly, Storia della pirateria, Mondadori, Milano 2003, p. XIII.

[xviii] La mancanza di simpatia che corre tra inglesi e scozzesi – e viceversa – è ampiamente nota. E se ne ha una conferma – per fare un solo esempio di natura letteraria – al cap. IV di Addio alle armi, nel dialogo che coinvolge l’io-narrante Frederick Henry, il tenente Rinaldi e l’infermiera Helen Ferguson, e che val la pena di riportare nell’originale (Ernest Hemingway, A Farewell to Arms, Scribner/Macmillan Hudson River Edition, New York 1988, pp. 20-21):

[…]

“You love Italy?” Rinaldi asked Miss Fersugon in English.

“Quite well.”

“No understand,” Rinaldi shook his head.

“Abbastanza bene,” I translated. He shook his head.

“That is not good. You love England?”

“Not too well. I’m Scotch, you see.”

Rinaldi looked at me blankly.

“She’s Scotch, so she loves Scotland better than England,” I said in Italian.

“But Scotland is England.”

I translated this for Miss Ferguson.

“Pas encore,” said Miss Ferguson.

“Not really?”

“Never. We do not like the English.”

“Not like the English? Not like Miss Barkley?”

“Oh, that’s different. You mustn’t take everything so literally.”

[…]

[xix] R. L. Stevenson, Kidnapped: being Memoirs of the Adventures of David Balfour in the Year 1751, trad. it. Il fanciullo rapito in  Romanzi Racconti e Saggi, Meridiani Mondadori, Milano 1997 (1ª ed. 1982), p. 734.

[xx] L. Sciascia, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp. 82-85. Nella “Nota” posta in fondo al volume, Sciascia precisa: “Lo scarto di anni, tra il Cruciverba su Carlo Eduardo e gli altri, è piuttosto ingente ed evidente”. Eppure, nonostante sia, tra quelli inclusi nella terza raccolta dei saggi sciasciani, il più “datato”, Cruciverba su Carlo Eduardo finisce per trasformarsi nel titolo dell’intero libro: come tributo alla memoria di Pietro Paolo Trompeo, e alla sua capacità di riuscire “a stupende combinazioni, quando si mette a fare i cruciverba”.