Diego Guadagnino – Saggio introduttivo al libro di Gaetano Augello "Angelo Ficarra – La giustizia negata" (Ed. Cerrito, Canicattì, 2008)

Volentieri ho accettato l'invito del professor Gaetano Augello a scrivere questa nota introduttiva alla biografia di monsignor Angelo Ficarra, che, per le qualità e lo spessore della sua personalità, il passare degli anni rende sempre più vicino alla sensibilità e alle problematiche dei suoi posteri. Se il volumetto sciasciano, sulla nota vicenda della sua rimozione da vescovo della diocesi di Patti, lo ha fatto conoscere al grande pubblico, la biografia scritta adesso da Augello, pregevole per la ricchezza di documenti consultati e di notizie raccolte, rivela gli aspetti intimi dell'uomo, il prestigioso retaggio culturale, le scelte che ne hanno segnato la vita, dandoci così un'opera destinata a diventare punto di riferimento imprescindibile per quanti in futuro si vorranno cimentare con la figura e l'opera di Angelo Ficarra. 
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciascia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana "La Memoria"), uscita nell'anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l'evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso " gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini". 
Annoverai la figura di monsignor Ficarra tra i personaggi creati dallo scrittore, dal professor Laurana a Candido Munafò, tutti accomunati da quel particolare e scomodo "candore" che Bontempelli aveva visto in Pirandello affermando che "l'anima candida è divinamente incauta". Per tale divino attributo, presente nell'uomo in maniera macroscopica, e per la sua emblematica vicissitudine col potere (che fosse ecclesiastico è di secondaria importanza), Angelo Ficarra rientrava di diritto nel pantheon dei personaggi sciasciani. 

Tra gli altri, erano presenti al dibattito, tenutosi nella sala consiliare del Comune, l'avv. Calogero Corsello, l'onorevole Giuseppe Signorino (a cui Sciascia rivolse un caloroso "Ma noi ci conosciamo", accolto con perplessità dall'onorevole che non ricordava in quale occasione si fossero incontrati), l'arciprete don Vincenzo Restivo, il prof. Angelo La Vecchia, il prof. Gaetano Ferreri. A ogni intervento, Sciascia puntualmente mi chiedeva sottovoce "Cu è chistu?", tanto che finii per prevenire la domanda assecondando la sua legittima curiosità ogni volta che qualcuno si alzava per parlare. 
L'ultimo e il più memorabile intervento fu quello dell'arciprete, il quale, premettendo la sua stima per lo scrittore la cui grandezza era ormai "riconosciuta dentro e fuori le mura", passò ad accusarlo di avere utilizzato mons. Ficarra per scrivere un libro che nello spirito risultava volterriano ed anticlericale. Rispose Sciascia che lui da laico non si poneva problemi di tal genere. Al che monsignor Restivo propose una domanda nuova: "Visto che lei nelle sue opere dimostra di avercela tanto con la Chiesa, non sarà che per caso da bambino abbia subito qualche trauma nel rapporto con i suoi rappresentanti?" Sciascia, lievemente sorridendo a quel tipo di domanda, precisò: " Monsignore, io non ho subito nessun trauma nell'infanzia. Le mie posizioni scaturiscono dal ruolo che la Chiesa ha avuto nella storia nel corso dei secoli." "Per esempio?" "Ma non pretenderà che io le faccia qui tutta la storia della Chiesa." L'arciprete riprese dilungandosi in altre valutazioni critiche sull'aver pubblicato delle lettere che avrebbero dovuto far parte del patrimonio esclusivo della Chiesa. Lo scrittore lo interruppe, ora ponendo lui una domanda precisa. "Secondo lei, monsignore, questo libro si doveva scrivere o non si doveva scrivere?" L'arciprete ci pensò sopra qualche istante e quindi rispose: "Secondo me, no." "Appunto per questo l'ho scritto" concluse l'autore, alzandosi e ponendo fine al dibattito, mentre dalla sala si levava l'applauso finale. 

Non c'è dubbio che il giudizio di mons. Restivo, sulla opportunità del libro, riflettesse, nella sua estrema sintesi, il disagio di una Chiesa venutasi a trovare nella necessità di dover fronteggiare un dibattito, provocato da parte laica, su un suo ministro, che, morto vent'anni prima, avrebbe preferito dimenticare in coerenza con l'emarginazione a cui l'aveva condannato da vivo. Quel disagio, probabilmente, nasceva dalla consapevolezza che mons. Ficarra fosse stato vittima di un'ingiustizia, ma che, nel contempo, non si sapesse ancora come affrontare e riconoscere pubblicamente tale fatto: tipico dilemma che il potere come entità storica istituzionalizzata crea nelle coscienze dei suoi subordinati, quando fatti che ripugnano al comune senso di umana dignità si siano resi necessari alle sue ragioni. E tale consapevolezza negli ambienti ecclesiastici doveva essere presente e viva già all'indomani della scomparsa del presule, se nella sua casa d'affitto in via Magenta a Canicattì, allora abitata dal fratello Calogero, si presentarono a reclamarne l'archivio privato, e con interesse particolare la corrispondenza, in un primo momento esponenti del clero locale, in un secondo momento il segretario della curia vescovile di Agrigento e ancora successivamente, considerato l'inamovibile diniego dei familiari, un prelato venuto da Roma, che reiterò la richiesta minacciando scomunica. Minaccia che non sortì l'effetto voluto e l'archivio dopo qualche tempo, per volontà dei nipoti Angelo e Luigi Ficarra, approdò, escluse le lettere ed inclusa la biblioteca, all'Istituto Gramsci Siciliano: in partibus infidelium, appunto.

Il quadro del caso Ficarra nell'ambito della cultura cattolica, oggi, a ventotto anni dall'uscita del libretto sciasciano, appare mutato, ma non univoco. Negli anni si sono succedute diverse prese di posizione con letture differenti dei fatti, evidenziando come a tutt'oggi non sia possibile parlare di una sua definitiva chiusura. Valgano in tal senso due pubblicazioni, che Augello ha diligentemente compulsate per la stesura della suo saggio biografico e che in questa sede vengono evocate e citate a titolo esemplificativo. Parlo dei due volumi Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti (1936-1957) a cura di Alfonso Sidoti (Patti 1999), e Mons. Giuseppe Pullano Vescovo di Patti (1957-1977) a cura di Basilio Scalisi, (Patti 2005), che contiene un capitolo a firma di Pio Sirna, docente dell'Istituto Teologico Diocesano "Mons. Angelo Ficarra" di Patti, sul "problema Ficarra". 
Il Sirna, pur riconoscendo "le modalità repellenti" con cui l'intervento della Santa Sede è stato attuato, ne avalla in toto le ragioni sintetizzandole nelle inadeguate condizioni fisiche di Ficarra e nella conseguente "mancanza di slancio missionario", in un momento in cui Roma auspicava e si aspettava dai vescovi una pastorale in forma di crociata anticomunista, improntata allo spirito della guerra fredda iniziata con la fine del secondo conflitto mondiale. 
"Il contendere, dunque," scrive Sirna "ci pare che abbia per oggetto non tanto un semplice scontro tra due personalità forti, Ficarra e Piazza, durato ben sette anni, quanto piuttosto e soprattutto il bisogno romano di tenere una diocesi, anche se marginale nello scacchiere italiano, al centro dell'aspra lotta di difesa della civiltà cristiana". Ma tale tesi non convince e soprattutto non regge al vaglio dei fatti. E che sia così viene fuori dall'analisi condotta, sempre in casa cattolica, da mons. Alfonso Sidoti, il quale, nel suindicato testo, con specifico riferimento al presunto pericolo dello spettro comunista che si sarebbe aggirato in quel di Patti e alla impellente necessità di combatterlo, scrive: "A Patti e nell'intera diocesi, le elezioni del 1946 (quelle per la Costituente) e soprattutto le politiche generali del 1948 avevano decisamente sbarrato il passo al Fronte Comunista”. Era quello, in quei tempi, l'impegno principale della Chiesa, sul piano politico. Il 18 aprile 1948, nella diocesi di Patti, "la Democrazia C. ha avuto 46.000 voti; tutti gli altri partiti insieme 50.000 dei quali il blocco popolare (i socialcomunisti) solo 13.500”, come leggiamo nella Relazione sull'attività dell' A.C.I. per l'anno 1948, inviata alla Sede centrale dal Presidente Diocesano dell' A.C.I. Da tale impegno mons. Ficarra non si era affatto estraniato. 

Altrettanto puntuale e motivata appare l'analisi delle reali contingenze in cui la D.C. si trovò ad affrontare la campagna elettorale delle amministrative del 1946 dalla quale uscì sconfitta. "E' noto a tutti" riferisce Sidoti "che, a Patti, la Democrazia Cristiana stentò a nascere. Non c'erano personaggi di spicco che avessero militato nelle file del Partito Popolare di don Sturzo. L'Azione Cattolica qui si era formata solo dopo il 1932 e non aveva avuto il tempo di offrire alla politica persone preparate per i nuovi compiti." 
Un particolare curioso che risalta dal confronto dei testi di Sirna e Sidoti e che merita di essere qui additato all'attenzione del lettore è che entrambi si soffermano su due biglietti autografi del vescovo per ricavarne valutazioni di segno opposto. Osservando i due autografi, Sirna ritiene di intravedervi "uno scrivere faticoso, tendente a caricarsi di singolarità, tremolante", che "sembra mostrare i segni di una progressiva difficoltà ad autodeterminarsi" e quindi, una prova delle precarie condizioni fisiche che resero necessaria la discussa promozione. Al contrario, mons. Sidoti, di uno dei due autografi afferma: "Questo biglietto nella sua sconcertante semplicità, ci svela il vero animo del vescovo e basta da solo a smentire le accuse accumulate contro di lui"; mentre trova l'altro autografo "scritto con la grafia inimitabile e inconfondibile di mons. Ficarra. E' la bozza di una lettera, immune da ripensamenti o correzioni." 

Tralasciando ogni altra valutazione di merito, le discordanti letture del caso Ficarra, provenienti dalla stessa matrice cattolica, denotano che la rimozione o defenestrazione, come la chiama Augello, non ha avuto una base oggettiva e concreta a suo fondamento e men che meno il pericolo comunista nell'ambito della diocesi pattese. Fu piuttosto un evento maturato in quel torbido clima di fanatismo integralista indotto dalla politica di Pio XII e propugnato dai comitati civici di Gedda. In particolare si trattò di un atto di isteria repressiva che in quel contesto specifico faceva di Angelo Ficarra una vittima quasi predestinata. E tale sacrificale qualità discendeva dalla sua biografia, dalla sua identità culturale, dalle scelte che avevano caratterizzato il suo apostolato, e in ultimo, ma non in misura meno determinante, dalla sua indole infinitamente lontana da ogni forma di intolleranza e di fanatismo, due modalità di fare apostolato che in quel momento il Vaticano, invece, anteponeva a ogni altra. La sua indiscussa santità, il suo tanto lodato spirito di carità, in teoria gli attributi primari e più preziosi di una pastorale cristiana, in quel contesto non servivano e non lo salvarono dall'emarginazione punitiva, anzi in parte ne furono la causa. Alla santità furono preferiti il fanatismo e l'intolleranza. E vinse l'intolleranza accecata dal fanatismo. 

Il rapporto tra l'inquisito Angelo Ficarra e l'inquisitore Adeodato Giovanni Piazza, a questo punto, si erge in tutta la sua umana imponenza e senza la copertura istituzionale che artificialmente attutisce la muta sofferenza di un uomo giusto ingiustamente condannato e l'accanimento persecutorio di un altro uomo che mette al servizio dell'Istituzione la parte peggiore di se stesso, e siamo propensi a credere con le migliori intenzioni, che in tali frangenti si fanno discendere dai fini. I due uomini, che s'incontravano e si scontravano all'interno di quella vicenda, provenivano da percorsi diversi: una diversità che certamente pesò su quel rapporto e pesò a tutto discapito del soccombente. Angelo Ficarra era entrato in Seminario ubbidendo a una vocazione autentica e totale. Memorabili le parole che scrive nel suo diario: "In Seminario, o mio Dio, la mia mente è più unita a Voi, il mio cuore gusta maggiormente le caste gioie del Vostro amore, il mio corpo ubbidisce completamente all'anima." Quest'ultima frase gli risuona dentro come un programma di vita che svolgerà con dedizione assoluta e con impeccabile rigore. Il corpo è il territorio del rapporto possessivo con il mondo, in esso convergono gli appetiti, le ambizioni e le vanità che distolgono dall'anima e Angelo ha optato per quest'ultima. Ma vivere nell'anima non vuol dire chiudere le porte alla terra, ma cristianamente abitarla nel disinteresse per sé e nella dedizione per gli altri e soprattutto per i più bisognosi, giacché solo l'uomo liberato dalla miseria materiale può intravedere, capire e gustare i tesori di una religiosità vissuta. Aiutare gli altri a riscattarsi dalla povertà, dalla superstizione, dall'analfabetismo è il modo più concreto ed efficace di avvicinarli a Dio. 
E il giovane prete, confortato da tali intuizioni, profonde le sue risorse intellettuali sulle colonne de “Il Lavoratore”, il periodico fondato da don Nicolò Licata, arciprete di Ribera, dove Angelo Ficarra viene assegnato non appena ordinato. Su quel foglio viene pubblicando, tra l'altro, le “Meditazioni vagabonde”, che costituiranno il nucleo originario di quell'eccezionale saggio sulla religiosità popolare che, col titolo Le devozioni materiali, uscirà postumo perché censurato dai suoi superiori. Istituisce una scuola serale per i contadini. Indirizza le sue simpatie verso il modernismo. E in virtù del suo indefesso impegno sociale riscuote un pubblico attestato di stima da parte del deputato repubblicano Napoleone Colajanni. La dedizione verso il prossimo, tuttavia, non gli impedisce di attendere agli studi umanistici, dedicandosi alla compilazione della sua mirabile monografia su san Girolamo. Se si volesse dare un nome allo spazio psicologico o alle direttrici entro cui si svolge la vita di Angelo Ficarra non ci sarebbe definizione migliore del bel titolo di un libro di Jean Leclercq, L'amour des lettres e le dèstre de Dieu. In tali contesti viene a contatto con uomini come Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori teorici del modernismo, punito per le sue convinzioni sia dalla Chiesa con la scomunica che dal fascismo con l'allontanamento dalla cattedra universitaria. Intrattiene rapporti di amicizia e di collaborazione culturale col suo concittadino Calogero Angelo Sacheli, filosofo, docente universitario, laico e socialista. Nominato arciprete a Canicattì, vi fonda l'Azione Cattolica, i cui locali una notte del luglio 1923 vengono incendiati dai fascisti. E' il periodo in cui imperversa lo squadrismo che porterà alla soppressione della democrazia. I fascisti di Canicattì, nel gennaio 1925, fecero una sfilata in corso Umberto, inneggiando alla instaurazione formale della dittatura; in quell'occasione, scrive Luigi Ficarra in una e-mail inviatami nel giugno 2007, "il fratello di Angelo Ficarra, Vincenzo, aderente al Partito Socialista, che era seduto al Circolo degli Operai, coerentemente non si alzò e non si tolse il berretto. La sera tardi, tornando verso casa, venne, al buio, aggredito lungo la strada da una squadra di fascisti, che lo colpirono ferocemente a manganellate sulle spalle. Riuscì a trascinarsi a casa, ma ne uscì a febbraio con i piedi davanti, chiuso in una bara. Il 15 febbraio 1925 Angelo Ficarra, che sapeva dell'aggressione fascista al fratello, ma non aveva la prova, così scriveva riferendosi all'incendio del Circolo: “quale meta hanno raggiunto i nostri nemici...con l'insul arci, il danneggiarci ed incendiare il nostro circolo? Chi poteva mai sognarlo che Canicattì...doveva avere oggi un gruppo di giovani forti e votati a qualunque cimento... ?" 
Tale retaggio culturale, sociale e familiare poneva lontano mons. Ficarra dall'ideologia del fascismo, e l'ormai famoso "incidente diplomatico" di Librizzi non può essere letto come un fatto episodico senza alcun nesso causale con la sua storia personale e con la sua concezione dell'impegno religioso nella società civile. Lo stesso dicasi della sua adesione, nell'estate del 1950, all'Appello per la Pace di Stoccolma, promosso dal movimento dei "Partigiani per la Pace". Pur essendo in pieno clima di anticomunismo viscerale, di caccia alle streghe e di scomunica papale infetta ai comunisti, egli non esitò ad apporre la sua autorevole firma su quel documento, accanto a quella di tanti rappresentanti del movimento operaio internazionale. Non si può fare a meno di rilevare come la politica vaticana negli anni fosse cambiata, irrigidendosi, chiudendosi al dialogo con le forze laiche progressiste e facendosi, così, sempre più lontana ed estranea ai modelli a cui si era ispirata la formazione e l'opera del Ficarra. Il tragitto involutivo del Vaticano, ovviamente, non poteva che risolverei in una strisciante delegittimazione della sua figura. 

Nel momento in cui il suo caso arriva alla Congregazione Concistoriale in persona del suo prefetto cardinale Adeodato Giovanni Piazza, mons. Ficarra (e qui ci sia consentita a titolo esplicativo la metafora giudiziaria) si trova nella situazione del soggetto, ritenuto socialmente pericoloso, che gli organi di polizia propongono per la misura di prevenzione: non si è reso colpevole di nessun preciso fatto di reato, ma i suoi trascorsi e le sue frequentazioni lo rendono passibile della misura dell'obbligo o del divieto di soggiorno. E in quel particolare momento di integralismo asfittico il curriculum del presule canicattinese non deponeva a suo favore per sfuggire al "divieto di soggiorno nel Comune di Patti". Tanto meno l'incaricato rappresentante della Congregazione Concistoriale era la persona idonea a valutare, a giudicare con il distacco e l'obbiettività necessari le calunnie imbastite nei suoi confronti. Mons. Piazza, a cui nessuno finora, a quanto ci risulta, nel trattare la vicenda che ci occupa, ha cercato di dare una circostanziata identità biografica, era un uomo non solo con un carattere a cui il Sidoti attribuisce durezza e limitatezza, ma con un passato che lo poneva agli antipodi dei percorsi compiuti dal Ficarra. Scrivendo del suo patriarcato veneziano nel periodo bellico, Umberto Dinelli, uno degli storici più accreditati della Resistenza in Veneto, afferma: " Ma la condotta più sorda e reazionaria fu quella di Adeodato Piazza a Venezia. Nel '44 per I discorsi del giorno, una raccolta edita dal Ministero della cultura fascista e che già aveva ospitato scritti di Hitler e di Mussolini, esce un discorso del più impopolare tra i cardinali che ebbe Venezia, Piazza, pronunciato nella basilica di san Marco il 16 agosto '44. Vi si legge: "Dinnanzi al primo micidiale attacco portato dal nemico nel cuore di Venezia dopo stragi e rovine compiute alla periferia, non possiamo oggi non elevare alta ed energica la nostra deplorazione per siffatti metodi..." E più avanti: "Noi ci sforziamo di comprendere le inevitabili leggi della guerra moderna...". La posizione del Piazza rispecchiava certi postulati teologici in materia di rapporti con l'autorità costituita garante di un ordine e di una stabilità sociale, dalla Chiesa ritenuti indispensabili. Pertanto anche un regime di occupazione, in quanto governo, doveva essere rispettato. Nel cardinale di Venezia legalitarismo e conservatorismo cattolico raggiungevano manifestazioni estreme assumendo un preciso significato: quello di favorire e fiancheggiare la politica nazifascista. Assumendo come rappresentanti dell'autorità i fascisti e i tedeschi, i nemici diventavano gli stati in lotta contro Hitler e i suoi caudatari". Giustamente è stato rilevato che "nel momento in cui i provvedimenti razziali incrinavano indubbiamente le relazioni tra la Chiesa e il fascismo", il cardinale Piazza "non solo accetta quei provvedimenti ma esalta l'amicizia con la Germania nazista". Questo squarcio della biografia politica del Piazza, ancorché limitato nel tempo, è tuttavia sufficiente a rimarcare l'enorme distanza di agire e di sentire che divideva i due protagonisti, lasciando nel contempo intuire quanta equilibrata disponibilità potesse egli accordare all'esame delle ragioni di mons. Ficarra. Né, alla luce di tanto, può stupire che fosse arrivato al punto di rifiutarsi di riceverlo personalmente, allorché il vescovo di Patti ebbe a chiedere udienza espressamente. Inutile dire che in quel preciso periodo storico, più che le idee e le virtù del vescovo di Patti, riuscivano più utili e funzionali al potere del Vaticano i connotati politici e culturali di un cardinale Piazza. Ma sono anche quegli stessi connotati che oggi lo rendono estraneo a noi, estraneo e lontano simulacro del tempo, chiuso nella sua opaca e sterile solitudine.

Il libro di Gaetano Augello, tra i tanti meriti, ha quello di porre l'accento sulla "giustizia negata" al vescovo di Patti che viene promosso arcivescovo di Leontopoli di Augustamnica, un'ironia, questa, che ne riecheggia un'altra: quella di Togliatti che soleva dire di Elio Vittorini "Vittorini si nne gghiuto e suli ci ha lassatu", facendoci percepire l'ordinaria somiglianza tra due "casi" che contemporaneamente si verificavano nella famiglia cattolica e in quella comunista. 

Il candore scomodo di mons. Ficarra fece di lui un limpido testimone della spietatezza del potere e, in virtù di tale destino, un contemporaneo dei suoi posteri, come tutti coloro che essendo giusti hanno subito l'ingiustizia e che in quanto tali non appartengono a nessuna chiesa ma all'umanità tutta, finché sopravviverà il senso della dignità e della pietà.