Leonardo Guzzo – Sciascia e le aporie del pentitismo

E Sciascia si rivoltò nella tomba. Un po’ di qui e un po’ di là. Una volta a destra e una volta a sinistra… Il 25 novembre 2009, nella seduta del Senato chiamata a discutere il caso del senatore Cosentino, indagato dalla procura di Napoli per le accuse di alcuni pentiti di camorra, lo scrittore di Racalmuto ha collezionato un vero e proprio record di citazioni in aula, al fianco di mostri sacri come Montesquieu e Robespierre.[1] Con un’esegesi più o meno felice e una riverenza assolutamente bipartisan è stato chiamato in causa da maggioranza e opposizione, da chi chiedeva a Cosentino di dimettersi per un gesto di “moralità politica” e chi invece invocava la presunzione di innocenza e la cautela di fronte alle accuse dei pentiti. Più tardi sono venuti il “papello” e le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il pentito Spatuzza e le insinuazioni su Dell’Utri e Berlusconi: Sciascia ha continuato ad essere il nume tutelare dell’uno e dell’altro schieramento, dei garantisti e degli assetati di giustizia, riletto e a volte travisato per esigenze di propaganda. Ma esiste, al di là delle interpretazioni e delle strumentalizzazioni politiche, uno Sciascia “autentico”?

Non è facile ricostruire, anche su un tema specifico come è quello dei pentiti, la traiettoria intellettuale di uno scrittore che in nome del pensiero “onesto” rivendicava il privilegio di correggersi e di contraddirsi. Esistono commenti estemporanei, più o meno “accidentali”; interviste, articoli, dichiarazioni ispirate ai fatti di cronaca, talvolta influenzate dallo “spirito dei tempi”, dalle emergenze e dai rivolgimenti della realtà quotidiana. E poi esiste un pensiero di fondo, meditato e sedimentato, che Sciascia ha affidato ai suoi scritti e che compone un quadro quanto mai coerente di principi ideali per la comprensione e il contrasto della mafia. La mafia non si combatte senza conoscerla, senza coglierne la valenza storica e sociale, senza studiare il contesto in cui si sviluppa; e non si combatte senza violare “i santuari del potere”, senza scardinare, cioè, il sistema di protezioni, collusioni, compiacenze che la avvolge e la difende. Infine, ma non da ultimo, la mafia si combatte affermando la superiorità morale dello stato di diritto, senza indulgere a “repulisti”, ricorrere a poteri speciali e misure eccezionali, ma usando la giustizia con la precisione di un bisturi, con l’accortezza che merita uno strumento delicato e devastante[2].

Sulla base di queste premesse la posizione di Sciascia sul pentitismo è improntata alla cautela. Il primo approccio col tema riguarda piuttosto i pentiti politici, reduci dalla stagione efferata del terrorismo, che i pentiti di mafia. Nell’ introduzione all’edizione della “Storia della colonna infame” di Manzoni, da lui curata, lo scrittore pone un’analogia tra il pentimento e la tortura: i condoni che si fanno ai pentiti, la promessa di impunità, giunge agli stessi effetti delle punizioni corporali[3]. Per Sciascia il vero pentimento è un moto autonomo della coscienza e sfocia nella “conversione”. Gli episodi che lo circondavano, e si moltiplicavano con sospetta progressione nell’Italia dei primi anni ’80, erano esempi di pentimento opportunistico e strumentale. Un pentimento indotto, o addirittura “estorto”, con la promessa di sconti di pena, privilegi carcerari e, nella migliore delle ipotesi, di una nuova, insperata e immeritata libertà.

Nel febbraio del 1982, mentre in Parlamento si discute la cosiddetta “legge sui pentiti”, che prevede notevoli sconti di pena per i collaboratori di giustizia, l’onorevole Leonardo Sciascia, deputato nelle file del Partito Radicale, insorge:”Mi pare che il Parlamento, votando questa legge, si metta sotto i piedi sia i principi morali sia il diritto”. A suo dire, “bisogna anche pensare alle famiglie delle vittime. La grazia si può concepire ma ci vuole sempre un certo consenso da parte di coloro che sono stati colpiti”[4].

Con la cattura, nel 1983, del “boss dei due mondi” Tommaso Buscetta e la vicenda del suo pentimento, che si intreccia in maniera decisiva con la preparazione del maxiprocesso di Palermo contro la mafia, l’attenzione di Sciascia si sposta inevitabilmente dal pentitismo politico a quello mafioso. Mentre i partiti e l’opinione pubblica si interrogano sulla possibilità di estendere la legge 304 (finalmente approvata nel maggio del 1982) ai pentiti di mafia, Sciascia si esercita a scavare le ragioni e il significato del pentimento di Buscetta, indirettamente pronunciandosi sulla fondatezza dell’impianto accusatorio costruito dal pool antimafia di Falcone e Borsellino. Nel libro-intervista “Cose di cosa nostra”, scritto nel 1991 con la giornalista francese Marcelle Padovani, Giovanni Falcone afferma che i mafiosi si pentono per diversi motivi e Buscetta, in particolare, aveva deciso di collaborare con la giustizia perché non condivideva i crismi della “nuova” mafia, lontana anni luce dall’ideologia e dalla nobiltà della “vecchia”. Nel primo incontro ufficiale coi giudici del pool antimafia dichiarava candidamente: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia”[5].

Dalle colonne del Corriere della Sera, il 18 aprile 1986, Sciascia esprime un’idea non dissimile, ma non del tutto coincidente con quella di Falcone. Commentando la deposizione di Buscetta al maxiprocesso di Palermo, sostiene che don Masino è semplicemente un uomo impaurito e amareggiato, “che ha visto intorno a sé cadere familiari ed amici, che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge trovare vendetta e riparo”[6]. La natura opportunistica del pentimento di Buscetta sarebbe testimoniata dal suo iniziale rifiuto a collaborare e dalle sue ripetute omissioni. Il pentito volontariamente tace circostanze che non può non conoscere, salta a pie’ pari il capitolo dei rapporti tra mafia e politica, incurante delle pressioni e del crescente scetticismo dell’informazione, per obbedire probabilmente ai “consigli” dei suoi protettori americani. Buscetta, avverte Sciascia, non è l’angelo sterminatore che incombe sulla mafia siciliana e internazionale. Sembra solo desideroso di far presto e tornarsene negli Stati Uniti, vuole scansare i pericoli che chi parla corre in Italia, tende a non moltiplicare il numero dei suoi nemici, e specie di quelli che ancora “possono”. Ha detto quello che sapeva, e che poteva dire, in istruttoria: sperare che aggiunga qualcosa nel processo dibattimentale è “insensato”, contrario alla prassi di tutti i processi di mafia, in cui semmai le dichiarazioni rese in istruttoria subiscono in aula una riduzione o una negazione. “La mentalità di Buscetta è perfettamente mafiosa […] dalla parte della legge continua a fare quello che avrebbe fatto dentro una famiglia ancora capace di far qualcosa: restituisce i colpi ricevuti, si vendica. Ed è appunto perciò credibile in quello che rivela”.[7]

Quanto alla fiaba della mafia di una volta, della mafia buona e della mafia cattiva, Sciascia la liquida con le stesse parole di Buscetta. All’avvocato che gli domanda perché Sindona fosse venuto in Sicilia a incontrare il boss Stefano Bontade, don Masino risponde: “Bontade mi disse che Sindona era solo un pazzo”. L’avvocato incalza: “Ma Sindona parlò di una rivoluzione. Bontade non era preoccupato di essere custode di simili segreti?”. Buscetta allora lo inchioda con una battuta: “I segreti di Sindona! Erano una piuma, in confronto ai segreti che aveva Bontade”.[8] Poteva dirsi “buona”, si chiede Sciascia, una mafia che custodiva segreti tali da far impallidire quelli, indubbiamente compromettenti, del famigerato banchiere?

Il discorso di Sciascia si dipana secondo i criteri della più rigorosa razionalità, perché è la razionalità, secondo lo scrittore, che muove i pensieri e le azioni degli uomini di mafia. “In Sicilia si nascondono i cartesiani peggiori”, sosteneva Sciascia nel ricordo di Giovanni Falcone[9]. Ma questa razionalità, formale e immorale, è piegata a uno scopo abominevole: “mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne”, secondo la battuta fulminante di Angelo Nicosia, parlamentare della commissione antimafia negli anni ’60 e ’70[10].

Per Sciascia il pentitismo è legato indissolubilmente alla “sicilitudine”; come la mafia, si inserisce in un preciso contesto sociale e culturale; risponde a caratteri che ne certificano l’attendibilità. Il pentito di Sciascia ha una certa mentalità, agisce e parla secondo un certo codice, è tanto più credibile quanto più “mafioso”, quanto più racconta fatti compatibili col suo rango e la sua storia personale. Al di fuori di questi criteri il pentitismo, o presunto tale, è semplice delazione, calunnia, protagonismo.

L’uso giudiziario dei pentiti, i comportamenti e le precauzioni che la giustizia deve osservare nei confronti del pentitismo, costituiscono un capitolo a parte, probabilmente il più delicato della questione.  Innanzitutto la parola del pentito non può essere l’unico elemento probatorio di un’indagine né tantomeno il più consistente. Al contrario si colloca al vertice di un castello accusatorio che ha ben altre fondamenta. Nel testo di un appello rivolto nel febbraio del 1985 al Presidente della Repubblica per assicurare “elementari garanzie di giustizia” ai 640 imputati di un processo per associazione camorrista a Napoli, e da Sciascia sottoscritto come primo firmatario, si dice che “un’imputazione, quanto più è fondata sulle dichiarazioni dei pentiti, tanto più deve essere confortata da altri riscontri probatori e vagliata con assoluta oggettività”[11]. Per evitare che quanti, al contrario di Sciascia, temono la lupara (e la cella di rigore) più della querela straparlino per rabbia o convenienza oppure al servizio di oscuri “tessitori”[12]. Un’esigenza riproposta in maniera drammatica dal caso Tortora, che Sciascia segue con passione e autentica partecipazione umana.

L’appello del 1985, peraltro, esprime riserve verso la moda dei “maxiprocessi”, grandiose campagne propagandistiche contro la malavita organizzata, che impressionano l’opinione pubblica ma difficilmente rendono giustizia ai singoli imputati. “Come può un simile processo assicurare il diritto alla difesa di 640 imputati? Come può accertare la responsabilità penale, che nel nostro sistema è sempre personale?”[13]: Sciascia se lo domanda per primo in ossequio al suo puntiglio e al suo spirito polemico, al culmine di una battaglia garantista condotta per tutti gli anni ’80. La giustizia, dice chiaro e tondo, deve operare con zelo e nel silenzio, assicurando anche ai suoi peggiori nemici le garanzie dello stato di diritto.

Pur riconoscendo l’importanza del sistema dei pentiti, che fornisce la conoscenza “interna” indispensabile per combattere la mafia, Sciascia non rinuncia a illuminarne i paradossi. In un articolo del 2 gennaio 1987 sul Corriere della Sera, riferendosi ancora una volta al terrorismo ma adombrando sullo sfondo la questione della mafia, lamenta che, grazie al “folle” meccanismo giudiziario italiano, “assassini individuati e confessi lascino felicemente il carcere dopo minima detenzione e persone che non hanno ucciso, che hanno soltanto partecipato a delle azioni più dimostrative che letali, restino invece a scontare pene che appaiono gravi ed esorbitanti”[14]. Si tratta per lo più di “giovani che, per la loro posizione periferica rispetto alle centrali eversive, per il loro disorganizzato spontaneismo, ad un certo punto consentirono alla polizia di prenderli tutti e di non poter quindi offrire quelle delazioni che leggi e giudici considerano come vero ed efficace pentimento. Curiosa e stravolta nozione del pentimento che non solo non ha nulla a che fare con la coscienza, con l’insorgere di sentimenti umani e principi morali, ma è preciso sinonimo di delazione e in quanto tale precluso all’ultimo di una banda, a meno che non si decida a denunciare qualcuno che della banda non faceva parte”[15].

Oltre al solito scetticismo sulla natura del pentimento come fenomeno pragmatico e giudiziario, dalle parole di Sciascia traspare, in filigrana, una posizione interessante: gli unici pentiti “preziosi”, gli unici a poter fornire informazioni rilevanti e credibili sul funzionamento piuttosto che sulle regole, le decisioni e le articolazioni della mafia, sono quelli che hanno occupato posizioni di vertice nell’organizzazione. E’ una constatazione amara, che Sciascia fa non senza compassione per i “pesci piccoli”, ma anche un netto altolà alle presunte rivelazioni, e più spesso agli abbagli, degli ultimi della banda – manovali, fiancheggiatori e collusi – che parlano per sentito dire o accostano con troppa audacia spezzoni di verità.

Da un punto di vista organico, la posizione di Sciascia verso i pentiti si inserisce in un discorso più ampio sulla giustizia, accusata già all’inizio degli anni ’70, nel romanzo Il contesto di essere un sistema a sé stante, distinto e avulso dalla realtà dei fatti. La sua realtà la giustizia se la costruisce da sola, ed è una realtà fittizia e formale, artificiosa e insindacabile. L’atto del giudicare, fa dire Sciascia all’immaginario giudice Riches, è “qualcosa di molto simile a quanto avviene durante la messa, quando il pane e il vino si convertono in corpo, sangue e anima di Cristo. Mai, dico mai – anche se il sacerdote è indegno – può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi”[16]. La legge 304 del 1982, la cosiddetta legge sui pentiti, rischia di essere, agli occhi di Sciascia, un altro stru ento al servizio di questa transustanziazione.

Qualche autorevole giurista può spiegare che lo Stato non richiede il pentimento (e in effetti le parole “pentito” e “pentimento” non compaiono mai nella legge), che le motivazioni del gesto sono indifferenti e invece conta il comportamento esterno, fattivo, che consente di combattere la malavita. Può discettare sul fatto che gli sconti di pena (fino alla metà per i collaboratori che forniscono prove decisive per la cattura di altri autori di reati) rientrino nel concetto di “diritto premiale”, che mira a stimolare nel criminale comportamenti virtuosi tesi a limitare gli effetti del crimine compiuto o a impedire crimini analoghi nel futuro. Addirittura qualche fine ideologo può rilevare che la logica della legge 304 aderisce perfettamente alla finalità rieducativa riconosciuta alla pena dalla stessa Costituzione.

Il ragionamento non fa una grinza. Ma Sciascia non è un giurista né un ideologo. E’ invece uno scrittore, guidato dalla “ragione, l’illuministico sentire dell’intelligenza, l’umano e cristiano sentimento della vita, la ricerca della verità e la lotta alle ingiustizie, alle imposture e alle mistificazioni”[17]. E’ un eretico che difende la propria eresia, “un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo”[18]. La legge sui pentiti mette in crisi la strategia del terrorismo e lui la critica, i “maxiprocessi” rivelano la mafia come organizzazione e lui invita alla prudenza. Contro l’assalto delle ondate emotive, delle mode e delle campagne politiche, Sciascia cerca di difendere la purezza e l’equilibrio dell’idea di giustizia, esercitando – a volte fino all’eccesso – il senso critico. Questa giustizia di cui Sciascia parla non scaturisce dal formalismo, dal rito di “celebrare” il processo, ma ha una dimensione sostanziale. Si rispecchia nella ragione e nella morale razionale, si fonda sul riconoscimento e sul rispetto della dignità umana. E al suo interno si contemperano la pietà per il criminale e per le vittime del crimine, il carattere “oggettivo e probatorio” degli indizi di colpevolezza, la certezza, la proporzionalità e il carattere “retributivo” della pena. In questa ottica la natura del pentimento non è irrilevante per giustificare, moralmente e umanamente, di fronte all’opinione pubblica e alle vittime di crimini spesso atroci, i benefici e gli sconti di pena. Né si possono creare, al di fuori di circostanze del tutto eccezionali, canali privilegiati per gli ex terroristi o gli ex mafiosi.

Sciascia lo suggerisce sommessamente eppure con tutta la forza del suo magistero. A ben vedere l’intera opera dello scrittore siciliano (decine di libri e centinaia di articoli di una chiarezza lampante) è un monito a recuperare  l’obiettività, la moralità e l’umanità della giustizia. All’ordine morale e alla realtà sostanziale il diritto deve conformarsi senza pretendere di rifondarli, ingoiarli e risputarli come un nuovo Leviatano. Magari dalla bocca di un pentito.

 



[1] Si veda il resoconto stenografico della seduta n.290 del 25/11/2009 nei siti mobile.senato.it e www.parlamento.it

[2] Sciascia Leonardo, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961. Si veda anche Camilleri Andrea, Leonardo Sciascia. Un onorevole siciliano, Bompiani, Milano, 2009.

[3] Manzoni Alessandro, con una nota di Leonardo Sciascia, Storia della colonna infame, Sellerio, Palermo, 1981.

[4] Si veda www.radioradicale.it/legge-sui-pentiti-mi-pare-che-il-parlamento-votando…

[5] Falcone Giovanni, con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991.

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Falcone Giovanni, con Marcelle Padovani, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991.

[10] Bolzoni Attilio, Parole d’onore, Bur-Rizzoli, Milano, 2008.

[11] www.radioradicale.it/exagora/giustizia-lappello-del-comitato-per-una-giustizia-giusta.

[12] Perrone Nico, “Il tratto del maestro. Un’intervista con Leonardo Sciascia”, pubblicato su Il Manifesto del 5/12/1978. Si veda anche la nota finale di Sciascia a Il giorno della civetta, Einaudi,Torino, 1961.

[13] www.radioradicale.it/exagora/giustizia-lappello-del-comitato-per-una-giustizia-giusta.

[14] www.radioradicale.it/exagora/vacanze-agli-assassini-carcere-per-i-gregari.

[15] Ibidem

[16] Sciascia Leonardo, Il contesto, Einaudi, Torino, 1971.

[17] Pirrotta Onofrio, “Leonardo Nanà Sciascia, sono vent’anni che ci manca”, pubblicato su www.ilpolitico.it il 9/9/2009

[18] Sciascia Leonardo, “Elogio dell’eresia”, L’Ora, 9/5/1979