Leonardo Sciascia - Quaderno

Il primo articolo pubblicato da Leonardo Sciascia su un quotidiano italiano apparve su “L'Ora”. Era il 15 febbraio 1955. Una nota letteraria su “Micio” Tempio, poeta del Settecento catanese. Era stato Vittorio Nisticò, da pochi mesi direttore del giornale, a cercare e invitare alla collaborazione Sciascia, in quel momento praticamente sconosciuto in Italia.

Cominciava così tra “L'Ora” e Sciascia un rapporto destinato a durare oltre trentaquattro anni, fino a quel giorno di novembre del 1989 in cui lo scrittore, poche ore prima di morire, dettò, proprio per “L'Ora”, quella che può essere considerata la sua ultima riflessione pubblica: la prefazione per un volumetto di scritti di Borgese, poi apparso nella collana “Dalle pagine de “L'Ora”.

Racconta Mario Farinella, uno dei direttori di quel glorioso giornale che tanta e importante parte ha avuto nella storia siciliana: “Quando il giornale gli chiedeva un articolo, una nota, un commento, pur nelle fitte giornate del suo lavoro e dei suoi molteplici impegni, non mancava mai all'appuntamento. Veniva lui stesso, arrivava in redazione quasi di soppiatto e come preoccupato di mostrarsi il meno possibile, di rimpicciolire la sua presenza. Lentamente estraeva dalla tasca il foglio piegato in quattro: “Non so se va bene, vedete voi”, era la sua formula d'uso. “Grazie, Nanà”, gli dicevamo. Nessuno o pochissimi lo chiamavano così. Era il diminutivo del suo nome, da ragazzo. A sentirlo gli si accendeva sempre sulle labbra sottili quel sorriso appena accennato, perplesso ed evasivo, quel sorriso dell'intelligenza che era proprio suo. “Vedete voi”, ripeteva. Una stretta di mano, un bacio d'antica sicilianità sulle gote, e se ne andava come era venuto a piccoli passi, rasentando il muro”.

Centinaia di articoli e interviste, in trent'anni di collaborazione a “L'Ora”; e, tra il 1964 e il 1968, in una rubrica che Sciascia stesso volle fosse chiamata semplicemente “Quaderno”. Un piccolo, prezioso scrigno di pensieri che il tempo non ha usurato.

 (in Notizie radicali, n. 81, 22 marzo 2010)

 

 Con la faccia per terra

Che Pietro Chiara, autore di quei due felicissimi libri che s'intitolano Il piatto piange e La Spartizione, fosse di origini siciliane e legato alla Sicilia da ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza, pochissimi sapevano. E dal suo libro ora pubblicato Con la faccia per terra, che appunto racconta le impressioni di almeno trent'anni addietro, raffrontate e verificate su quelle di un recente viaggio, qualche critico ha avuto sorpresa: poiché, a saperlo, forse avrebbe riconosciuto nei due precedenti libri, qualche traccia di tali sue origini; e un riferimento all'eros brancatiano gli sarebbe venuto in taglio, specialmente riguardo alla Spartizione che davvero, a momenti, dà il senso che si svolga in un paese della Sicilia orientale invece che a Luino.

Il padre di Pietro Chiara era nato a Resuttana, in provincia di Caltanissetta. Ne era scappato a vent'anni, ma tenacemente mantenendo, come tutti gli emigrati siciliani, rapporti con i propri familiari e con il luogo in cui aveva trascorso parte della vita: quel piccolo foruncolo, scrive Chiara, segnato in poche carte geografiche e dal quale era uscito come dal foro di un termitaio.

Di tanto in tanto, vi tornava: e si portava dietro, nonostante le apprensioni della moglie settentrionale, il figlio. Poi, ad un certo punto della sua vita, lasciò cadere la consuetudine. E quando, a novant'anni, sentì che il figlio voleva tornare in Sicilia, cercò di distoglierlo dal proposito: “ Se aveva rinunciato lui a rivedere le sorelle e i nipoti, e anche i luoghi, non c'era ragione che mi mettessi io a rinfocolare la passione di quei ritorni, di quegli arrivi e di quelle partenze”. Considerazione oggettivamente saggia: ma, dice Chiara, ad una certa età viene la tentazione di ritornare nei luoghi della gioventù e dell'infanzia. E questo, soltanto questo, è stato il movente del suo viaggio in Sicilia: rivedere i luoghi e le persone del ricordo per farla finita (“farla finita coi ricordi, per rimestarli, appesantirli, metterli in condizione di colare a fondo e di perdersi finalmente nel passato”). Il contrario giusto, insomma, di quel che di solito avviene in letteratura (nel significato, quasi sinonimo di ipocrisia, che il termine letteratura ha da noi): cioè il ritorno alle origini: la scoperta delle proprie radici, la presa di coscienza, l'amore in Sicilia: Chiara non si è per niente riconosciuto e ritrovato, non ha sentito né ancestrale afflato né vampate di consanguineità. E ha mandato a picco i ricordi senza remore e senza rimpianti. E questa è, in definitiva, la qualità migliore delle sue pagine. E dalla sua sincerità, dal suo assoluto distacco, dalla sua fuga (“mentre già cercavo con gli occhi la fine dell'isola, la prima ombra del continente sul quale sarei passato quasi in fuga, ansioso di risalire l'Italia, fino al Lago Maggiore”), a noi pare di poter cavare motivi di riflessione.

Ma prima è bene spiegare che il titolo del libro - “Con la faccia per terra” - viene da una specie di maledizione che l'arciprete di Roccalimata (questo è il nome che Chiara dà al paese) scaglia contro il nipote Biagio, comunista: “Debbo vedervi tutti quanti con la faccia per terra!”, frase di significato “troppo chiaro o troppo oscuro”, suggestivo ed ossessivo tema dell'incontro tra l'uomo che “ha passato la linea” e una condizione umana ormai lontana dal suo modo di essere, dai suoi pensieri, dalle sue abitudini. In effetti lo stato d'animo dello scrittore è appunto quello di chi ha passato una linea di demarcazione tra due mondi se non addirittura tra due razze. Tra l'oscura e irrimediabile condizione della Sicilia e il “continente” italiano in cui vive e di cui è parte, c'è lo scarto di appena una generazione.

E dunque bisogna dimenticare e far dimenticare, relegare al di là di ogni possibilità, al di là di ogni ritorno, quel foruncolo sulla carta geografica, quel termitaio. E' un processo psicologico del tutto naturale, assolutamente ovvio: e si svolge senza deliberata volontà o malafede negli individui e nei gruppi della generazione che immediatamente succede a quella che è riuscita a passare la linea. L'Inquisizione di Spagna, che tanti ebrei bruciò nei roghi, ebbe dagli ebrei convertiti notevole contributo alla sua istituzione e consolidamento: a chi vuol saperne di più legga quel grande, a mai abbastanza conosciuto, ragguaglio sulla “Spagna nella sua realtà storica” di Americo Castro. Un processo, ripetiamo, naturale ed ovvio: e nasce dal fatto che, avendo conquistato una condizione indubbiamente più libera e sicura, un mondo in cui i rapporti sociali, ed anche i conflitti, hanno precise ragioni ed ordine, diventa inconcepibile che gli altri restino invece, ancora, dall'altra parte della linea, con la faccia per terra.

Perché con la faccia per terra la Sicilia c'è già, anche se l'arciprete di Roccalimata non se ne accorge. E il libro di Chiara onestamente ce ne avverte.

 

Il passaggio della linea

Che una linea di demarcazione – economica, culturale, razziale per certi aspetti – esista tra l'Italia continentale e la Sicilia, tra il continente europeo e la Sicilia, è cosa dolorosamente certa. E oggi più di cent'anni fa, quando le illusioni unitarie e patriottiche velavano l'effettuale realtà. Al conflitto che ieri si poneva dentro lo Stato, nei termini della questione meridionale, ora succede un più vasto ed impari conflitto con quella specie di Stato europeo le cui strutture vengono formandosi e svelandosi e di cui il sud d'Italia sta facendo le spese, come già fece le spese dello Stato unitario, del regno d'Italia. E sono masse, quelle che ora premono sulla linea di demarcazione, con più precisa coscienza di quelle altre masse che in due grandi ondate lasciarono la Sicilia tra il 1860 e la prima guerra mondiale. Con più precisa coscienza della condanna che incombe sulla Sicilia, con più netta volontà di mimetizzarsi al di là della linea, di farsi assimilare dal “continente”, di scomparire. Il che, per sua parte, il “continente” (da Torino a Zurigo, da Parigi ad Hannover) non vuole. L'ideale dell'Europa del MEC sarebbe quello di poter usufruire della mano d'opera proveniente dal Mezzogiorno d'Italia con duttile periodicità, secondo il contrarsi o l'allargarsi dei propri bisogni, e comunque evitandone la integrazione giuridica ed etnica. E infatti, appena il moto di integrazione comincia ad apparire inevitabile e irresistibile, sorgono misure di emergenza: quale quella che ha bloccato la frontiera svizzera recentemente.

Il fatto è che il Mezzogiorno d'Italia, e la Sicilia in particolare, non può fondare il suo rapporto con l'Europa in base al bisogno di schiavi che l'Europa ha. Siamo davvero, in rapporto all'Europa, con la faccia per terra. E così continuando, la condizione nostra si farà sempre più grave, irrimediabile, mortale.

Il problema va al di là, crediamo, del rilancio dell'Autonomia che si sta attualmente tentando. Il dissidio tra Stato e Regione non contiene i dati fondamentali del problema. Il dissidio è con l'Europa.

Economisti e storici, crediamo, potrebbero spiegare esattamente quelle che noi confusamente avvertiamo e che qui approssimativamente fissiamo: i problemi della Sicilia sono problemi da “terzo mondo”, e più naturalmente troverebbero soluzione nella Repubblica Araba Unita che nello Stato italiano. Questi termini possono apparire, e forse sono, paradossali: ma bisogna intenderli col classico grano di sale. Intendiamo dire, cioè, che la Sicilia non ha bisogno di un'Autonomia di decentramento e di risarcimento rispetto allo Stato italiano, ma di una concreta sovranità.

Si dirà che stiamo scoprendo, con vent'anni di ritardo, e dopo averlo recisamente avversato, l'indipendentismo. Ma vent'anni fa la Sicilia indipendente sarebbe stata una repubblica fondata sulla reazione agraria, un vero e proprio stato di mafia: mentre oggi naturalmente si inserirebbe nella rivoluzione mediterranea, in un vasto e concreto processo di risorgimento.

 

La convivenza mediterranea

Dal punto di vista storico, questa esigenza della Sicilia a non guardare oggi all'Europa continentale e ad avvicinarsi invece al risorgimento dei paesi africani, può essere suffragata da un'idea che è piuttosto ovvia: il momento più alto della loro storia, della loro civiltà, i siciliani l'hanno avuto nel realizzarsi una convivenza; e tutti i loro guai provengono dalla dilacerazione di questa convivenza. Se gli arabi non fossero stati deportati e se gli ebrei non fossero stati cacciati, la “realidad historica” della Sicilia avrebbe forse avuto precisa continuità col regno normanno, che appunto dalla convivenza trasse carattere e grandezza. E tutta la storia siciliana, dopo che la convivenza si infranse, è stata una storia di squilibri, di carenza, di vuoti.

Ma questa è un'idea che, per quanto ovvia, vuole un più lungo e motivato discorso.

 

(in “L'Ora”, 17 marzo 1965)