Cartella N. 1 - Natale 1995: Gesualdo Bufalino / Domenico Faro: "Linea d'ombra"

Sciascia, amateur d'estampes

Diceva spesso Guttuso di amare tutta la pittura come l'ubriacone ama tutto il vino. Il medesimo avrebbe potuto ripetere di sé Leonardo Sciascia nei confronti dell'incisione: tanto egli era, come amateur d'estampes; indistinguibile da quelli che Honoré Daumier rappresenta, ora in piedi ora seduti, intenti a osservare con una mite follia nelle pupille un foglio testé uscito dal torchio o scelto da un grande mucchio. Era una passione, la sua, benché assoluta, di benevola latitudine, sì da allargarsi a comprendere parecchi territori limitrofi: film muti, vecchie fotografie, manifesti d'una volta... tutto quanto, insomma, è figura minore e segreta del mondo, alfabeto di segni più che di colori. Non che ai colori lo scrittore fosse insensibile, ma forse un poco lo disturbava la loro presunzione di farsi immagini speculari e vicarie della realtà più diurna, quella che ogni mattina affrontiamo, svegliandoci, nel vano di una finestra...

Meglio, al suo pudore altero, si confacevano i complotti di bianchi e neri che un bulino sommessamente intrattiene fra i margini di un'acquaforte, là dove la vista fa presto a diventare visione, se non visibilio. Qui egli sperimentava un'astrazione totale, una sorta di sfinimento contemplativo, non esente da qualche tremore, che manca poco rassomigliasse a un'estasi religiosa...

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Titolo: Linea d'ombra

Autore: Domenico Faro

Testo di: Gesualdo Bufalino

Misure Lastra: cm 50x40

Ebbene, quali le radici di un gusto siffatto in un uomo che si è soliti ancorare ai bastioni solidi della ragione e dell'impegno, dimenticando fino a che punto, da Pirandello a Borges, il versante dell'ombra lo seducesse? Essendosi la critica ultima (Massimo Onofri in testa) doverosamente occupata di questa non contraddittoria ambivalenza, a me compete solo proporre un ulteriore, minuscolo argomento che conferma: la parzialità in favore degli arcani dell'incisione di contro ai lumi perentori della pittura, come se Sciascia sentisse più familiare, più consaguinea l'opera di chi gremisce di rune il rame, il legno, la pietra e in un minimo spazio cattura gl'infiniti emblemi e prodigi della vita. Un'impresa di meticoloso rigore, pari a quella ch'egli stesso era venuto compiendo nel corso della sua carriera con testi sempre più avari, anche se carichi di tutte le virtualità dell'espressione creativa. L'incisione, dunque, come oggetto oscuro del desiderio, venerabile manufatto che nel silenzio delle sue cornici divulga più forza e fuoco e grido che tanti conclamati dipinti e marmi di statue, e colonne di partenoni... Ricordo, nel visitare insieme una mostra di Van Gogh a valle Giulia, davanti a un ritratto della signora Ginaux, i suoi borbottii d'ammirazione, conditi però (o così mi parve) da un lampo di sotterranea riserva, da una goccia di diffidenza...

La stessa diffidenza, inconfessata, è probabile che nutrisse di fronte al mondo dei suoni (alla Noce, in villeggiatura, nessuna presenza di dischi, salvo qualche polveroso 78 giri verdiano, lascito antico), di cui forse temeva il contagio, così propizio ai deliqui del sentimento.

Le stampe, viceversa, lo innamoravono tutte, antiche o moderne, belle o brutte che fossero. E avrà giocato a questo punto la febbre del collezionista, l'ingordigia ingenua di frugare nei cataloghi specializzati, o, più ancora, dal vivo, nei retrobettega degli antiquari, sfilando con mani caute dalla custodia di cellophane i fogli, indugiando su ciascuno con la lente di ingrandimento, alla ricerca d'una firma, d'un sigillo, di una iscrizione, con la stessa chiaroveggente pazienza di un investigatore dei suoi.

Un fanatismo che condividevo. Donde scambi di regali, quando se ne dava l'occasione, e dovote ricognizioni, fianco a fianco, nella sua casa palermitana, dentro il deposito che, saturate ormai le pareti, s'era venuto costituendo entro gli ampi cassettoni di un mobile, acquistato al Mercato delle Pulci e adattissimo all'uso.

Ivi s'accumulavano le plaquettes, le prove d'autore, le tirature rare (Bartolini, Viviani, Castellani...), i doni degli stampatori (da Prandi all'amato Sciardelli), i doni degli autori amici (quanti: Clerici, Faro, Caruso, Guttuso, Zancanaro, Tranchino, Janich, Cazzaniga, Di Silvestro...), gli esemplari del prediletto Otto-Novecento francese (da Moreau a Dunoyer de Ségonzac, da Lobel Riche a Cappiello...), non senza incursioni - sempre in area francese - nei domini dell'école de Paris e altrove.

Un altro amore-reviviscenza, questo, d'una sepolta memoria infantile - andava alle figurine del cinema degli anni Venti e Trenta. Che gioia, il giorno che, in una libreria dalle parti di Fontanella Borghese, affiorarono dalla polvere, incastonati in un album d'epoca, i ritratti di Carmen Boni, Maria Jacobini, Lupe Velez, Pola Negri, Brigitte Helm, Lily Damita...

Erano retaggi del primo Dopoguerra, il tempo più caro a Sciascia che lo sentiva consentaneo fra mille, forse più dei tempi di Montaigne o Cervantes, di Voltaire o Stendhal. Un tempo, esplorato e amato nei libri, ma inseguito accanitamente nelle sue reliquie grafiche e iconologiche: vignette, ex-libris, autografi... Acqueforti, sopratutto, essendo l'acquaforte la cima dell'incisione, così, come, teste Leopardi, la lirica è la cima d'ogni discorso. E di acqueforti Leonardo ebbe a farsi persino editore, inventando quei “Quaderni della Noce” che accoppiavano brevi prose di scrittori amici (lui in persona fece da battistrada) a illustrazioni di graveurs altrettanto amici. Preziose edizioni fuori commercio, riservate ancora una volta a un gruppetto di sodali, quasi gli adepti d'una setta innocente: i visitatori estivi della casa della Noce.

Nel 1988, un anno prima di morire, malato terminale, come con orrendo eufemismo si dice, Sciascia si pone per la penultima volta di fronte alla macchina da scrivere. E' un'acqueforte a ispirarlo: Il cavaliere, la morte e il diavolo di Durer. Il suo eroe, un Vice di polizia, moribondo anche lui, negli intervalli del male lavora a un'indagine: così come Sciascia stesso alle pagine del libro. I due sono una stessa persona: maniaci di stampe entrambi, fumatori incalliti, condannati senza rimedio a una fine imminente. La natura del libro è di sotie gialla, ma con un fondo di dolorosa meditazione sulla morte e sul niente, quale suggeriscono i tratti arcigni e inesorabili della composizione sin dal frontespizio del libro. Omaggio ultimo, quasi un addio accennato con la mano, che Sciascia rende al mondo dell'incisione.

Ma v'è altro, nel romanzo, che c'intriga: i due nomi che il Vice decifra sul rovescio della stampa, scritti a matita da un proprietario precedente che aveva voluto porsi il problema dell'indentità del cavaliere; quei due nomi: Christ? Savonarole?, più che esibirsi come eventuali soluzioni dei simboli incarnati nella figura, non potrebbero esser divenuti l'interrofazione finale con cui l'homo patiens Sciascia si poneva dinanzi al bilancio della propria vita? Il quesito supremo dov'era incluso e nascosto il senso del suo fugace transito sulla terra? Si, il cavaliere era lui stesso, armato e in cammino fra le tentazioni del diavolo e le lusinghe della morte.... Ma era stato un Cristo? Un Savonarola? Un Salvatore sceso fra gli uomini a soffrire e a morire per loro? Un moralista intransigente, capro espiatorio pur esso, vittima della sua propria parabola umana, il doppio interrogativo... Chissà se i suoi occhi stanchi cercarono ancora una volta una risposta impossibile nelle tragiche, sibilline morsure dell'artista alemanno...

Io preferisco credere che, al di fuori d'ogni suggestione privata, egli vi abbia goduto, prima della fine, un miraggio di tragica, appagante bellezza oltre i carceri carnali della vita e della morte.

Gesualdo Bufalino

 

Notizia

Oltre un anno fa uno dei nostri più fedeli sodali Gesualdo Bufalino donava questi suoi ricordi appositamente per questa cartella degli Amici di Leonardo Sciascia. Cause di forza maggiore hanno impedito di realizzare la nostra iniziativa nei tempi previsti. Nel frattempo la rivista Kalos prima (Anno VIIº 3-Maggio-Giugno 1995, pp. 4-11) e un volume di saggi poi (Il fiele ibleo, Avagliano, Cava dei Tirreni, 1995, pp. 148-152) ospitavano questo suo scritto. Nello scusarci con l'autore per il contrattempo lo ringraziamo per avere comunque accosentito a questa pur tardiva pubblicazione che certo nulla ha tolto alla suggestione della prosa.

 NOTA BIOGRAFICA E CRITICA SULL'ARTISTA

Domenico Faro è nato nel 1924 a Catania( Nota FI: e scomparso nel 2008 a Roma). Nel 1946 si trasferisce a Torino per completare gli studi scientifici. Dal 1949 risiede a Roma, dove avviene la sua formazione artistica. Il suo interesse è rivolto inizialmente alla pittura e la sua prima sortita è del 1961 con una mostra personale a Roma; successivamente espone ancora a Roma e poi a Firenze, Padova, Venezia. Da circa 20 anni si dedica all'incisione. Pittore di matura esperienza, di estesa cultura e di formazione complessa, Domenico Faro ha trovato nella grafica, e particolarmente nell'acquaforte, oltre alla tecnica, certo molto congeniale al suo carattere, il campo espressivo più fertile per dare forma e immagine alle visioni del proprio mondo interiore; sostanziate di ricordi e di nostalgie che dall'infanzia e giovinezza siciliane ha portato con sé intatte attraverso molteplici esperienze, divenute infine un inesauribile deposito di mezzi e dati linguistici. Mostre personali di grafica sono state allestite a Padova, Venezia, Catania, Udine, Livorno, Bologna, Spoleto, Ferrara, Palermo, Milano, Monaco di Baviera, Racalmuto, Wettingen (Zurigo), Landau (Germania). Ha partecipato a verie manifestazioni nazionali tra cui la “Triennale dell'incisione” a Milano (Palazzo della Calcografia Nazionale), “Premio Internazionale per l'incisione Biella 1993”

 ...dopo l'abbagliante contemplazione del paesaggio siciliano, resta negli occhi la nera lastra su cui cadranno poi a scalfirla i segni dell'implacabile luce, la nera luce che solo una punta d'acciaio e la morsura degli acidi sanno dare, la nera luce dell'acquaforte... i paesaggi che Faro incide sono sempre e troppo oggettivi perché li si possa considerare realisti o veristi. Il troppo, come sempre, storpia: e in questo caso ne è storpiato il realismo. Per fortuna.

Leonardo Sciascia

 ...nella fedeltà della rappresentazione, egli introduce ogni volta un prezioso valore aggiuntivo di partecipazione emotiva, che rende, ogni sua riuscita, un autentico “paesaggio dell'anima”. Ciò gli ha cosentito, senza fatica, di trascorrere dalla fonte d'ispirazione più naturale e immediata, che è la memoria calcinata e dolente, luminosa e luttuosa della nativa amata Sicilia, a provocazioni più colte dettate ora da una riflessione privata che si traduce, senza inquinarsi di sociologismi e simbolismi d'accatto, come da sogno a segno, e viceversa. Qui sta forse il privilegio più sottile dell'arte di Faro; nel conferire il bagliore di un “oltre” ad ogni suo componimento, riconfermando così l'antica figura dell'incisore, come innocuo negromante e alchimista, che con la semplice arma d'un bulino, nel suo minuscolo antro-laboratorio, soffiando su una creta sordomuta, riesca a estrarne il miracolo dell'oro e il soffio d'una incorruttibile vita.

Gesualdo Bufalino

 ...ciò che non possiamo fissare nel mondo, Faro lo fissa nelle sue incisioni... né il sole né la morte si possono guardare fissamente, sentenzia la Rochefoucauld, ma una incisione di Domenico Faro si, dove nel pulviscolo di un tratteggiare ossessivo e caparbio sono state prese, come in una rete, la morte e la luce. Non una luce ancella che serva solo a far vedere le cose, bensì sovrana: squarci e schegge di un reale che aggredisce lo sguardo o, in ogni frammento della materia, capillare infiltrazione...

Claude Ambroise

...Domenico Faro è incisore di rara potenza (e per potenza qui si vuole alludere a quel qualcosa di insito nell'antico e duro lavoro dell'incisore)... il paesaggio, le case, le pietre sono riprodotte nei dettagli, ma la resa, tuttavia, sa di spolpato, di ridotto all'essenziale. E proprio perché, alla fine, nelle acqueforti di Faro è la luce a modellare, a dare copro o a toglierlo, è la luce che, distraendo dai particolari, dà forma all'opera...

Matteo Collura

}...sono rari gli incisori come Domenico Faro poiché nell'arte dell'incidere raro è l'appalesarsi della sintesi nella compresenza di una fitta rete di dettagli, come raro è il semplificato referto terminale, quasi anonimo e impersonale, dopo la raccolta di tanta informazione descrittiva...

Antonello Trombadori

 COLOPHON 

L'acquaforte originale contenuta in questa cartella, prima della serie “Omaggio a Leonardo Sciascia” è pubblicata a cura dell'Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia. L'acquaforte è stata impressa a mano da Antonio Sannino, nella Stamperia d'Arte di Gabriele Corbo “Il Cedro” in Roma, su carta “acquaforte” Magnani di Pescia cm. 50x40 e fondino india in 100 esemplari, numerati da 1 a 100 in numeri arabi, per i Soci e 15 prove d'autore numerate destinate all'artista.