Il premio sara' assegnato da una giuria composta da 25 lettori di Grotte e consegnato domenica 29 agosto nella piazza principale del comune agrigentino.

“Il premio Racalmare e’ strettamente collegato a Leonardo Sciascia e ne porta l’impronta indelebile. E’ stato lo scrittore siciliano a volerne la nascita e, in questi anni, lo hanno vinto prestigiosi autori legati a Sciascia e al suo modo di pensare, di leggere la realta’ e, in particolare la Sicilia”. Lo ha detto l’assessore regionale dei Beni culturali e dell’Identita’ siciliana, Gaetano Armao, stamattina durante la presentazione della ventiduesima edizione del premio letterario “Racalmare-Leonardo Sciascia”.
“Questo premio – ha aggiunto Armao – ha portato in Sicilia scrittori di grande livello che, con le loro opere, sono testimoni importanti del nostro tempo. Come lo e’ stato Leonardo Sciascia, nel raccontare la “sua” Sicilia, una terra che ha amato, assumendosi tutta la responsabilita’ di svelarne gli aspetti negativi”.
A contendersi la trentesima edizione del premio, sono Benedetta Tobagi, con “Come mi batte forte il tuo cuore”, Simonetta Agnello Hornby, con “Vento scomposto” e Bice Biagi con “In viaggio con mio padre”, selezionate da una commissione guidata dal giornalista Gaetano Savatteri. Il premio sara’ assegnato da una giuria composta da 25 lettori di Grotte e consegnato domenica 29 agosto nella piazza principale del comune agrigentino. Alla serata conclusiva del premio sara’ presente anche l’assessore Armao.

Benedetta Tobagi con “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi), Simonetta Agnello Hornby con “Vento scomposto” (Feltrinelli) e Bice Biagi con “In viaggio con mio padre” (Rizzoli) sono le tre scrittrici finaliste della ventiduesima edizione del Premio letterario “Racalmare – Leonardo Sciascia”, organizzato dal comune di Grotte (AG).
A decidere la terna finale una commissione selezionatrice guidata da Gaetano Savatteri, giornalista e scrittore, già premiato nel 2002 con il “Racalmare” nella sezione giornalismo, che da quest’anno è il nuovo presidente onorario del Premio “Racalmare – Leonardo Sciascia”.
Un premio che deve restare a Grotte, come aveva suggerito Leonardo Sciascia: “Lasciatelo qui fra voi e vedrete che lo assegnerete sempre onestamente, secondo il valore delle opere, secondo l’interesse che voi portate a queste opere. Si stabilisce così una specie di circolarità fra l’opera e il suo pubblico, fra l’opera e coloro che la premiano”, disse lo scrittore racalmutese alla prima edizione del Racalmare.
“Seguendo questo invito – spiega Savatteri – ho voluto riportare il premio – cioè i libri e i loro autori – tra la gente, cioè tra i lettori, offrendo anche quel tanto di divertita competizione che accende passioni e interessi. Un modo – prosegue – per segnare una nuova pagina nella storia di un premio che ha avuto presidenti prestigiosi come Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo e che vuole continuare a custodire la sua identità, la sua qualità e la sua autorevolezza”.
Per la prima volta al “Racalmare – Leonardo Sciascia” andranno in finale tre libri, l’altra novità è che saranno firmati da donne, mentre a giudicare le opere in concorso ci sarà una giuria popolare, composta da 25 lettori del paese agrigentino, che manifesterà il proprio gradimento attraverso scrutinio segreto. I libri messi a disposizione dalle tre Case Editrici potranno essere richiesti presso la Biblioteca comunale di Grotte.
La manifestazione si articolerà nell’arco di due serate. Sabato 28 e domenica 29 agosto (alle ore 20.00) la piazza che ospita il Palazzo Municipale si trasformerà in cittadella della letteratura.
Nel primo degli appuntamenti Benedetta Tobagi, Simonetta Agnello Hornby e Bice Biagi incontreranno il pubblico e la giuria popolare, per discutere insieme dei titoli selezionati, delle esperienze personali che hanno condotto le tre donne alla stesura delle opere e di letteratura come elemento indispensabile per la crescita culturale e per lo sviluppo economico e sociale del Paese.
Nella serata di domenica si procederà alla votazione per decretare la vincitrice della ventiduesima edizione del “Racalmare – Leonardo Sciascia”, la giuria popolare – come anticipato – si esprimerà attraverso scrutinio segreto e subito dopo si passerà allo spoglio delle schede e dunque alla cerimonia di premiazione.
Main sponsor del “Racalmare – Leonardo Sciascia” 2010 la Cmc (Cooperativa Muratori Cementisti Ravenna) che ha stabilito per l’occasione un badget di 5.000 euro, tremila dei quali andranno a pari merito ai tre libri finalisti, gli altri duemila saranno destinati alla vincitrice della ventiduesima edizione. Mentre le spese di viaggio, ospitalità e allestimento della manifestazione sono offerti dal comune di Grotte.
La Commissione selezionatrice è composta da: Gaetano Savatteri (presidente onorario del Premio), Paolo Pilato (sindaco di Grotte), Angelo Collura (presidente del Consiglio Comunale di Grotte), Domenico Criminisi (assessore alla Cultura di Grotte), Gaspare Agnello, Nino Agnello, Salvatore Bellavia, Domenico Butera, linda Criminisi, Diega Cutaia, Giancarlo Macaluso, Daniela Spalanca, Giovanna Zaffuto.
Consulenti della commissione: Salvatore Ferlita, Angelo Alfano e Gaspare Spalanca.
Margherita Gigliotta

Un'esemplare biografia del 'padre' di Sciascia

Matteo Collura – Il gioco delle partiVita straordinaria di Luigi Pirandello (Longanesi ed., 2010)

Questa non è una nuova biografia di Pirandello, ma un racconto della sua vita che ne rivela pienamente la complessa, modernissima personalità. Dopo aver esplorato il pianeta Sciascia e le infinite storie di Sicilia, Matteo Collura in un duello a lungo atteso e preparato si confronta con il figlio più illustre della sua stessa città, restituendogli la verità che sempre gli è stata negata o edulcorata. Umano, troppo umano, il Pirandello di Collura è un personaggio che ha forse trovato il suo autore. Viene fatta completa luce sul suo teatro, dove nel dramma talvolta  si affaccia per un attimo il sorriso, come un sole d'inverno. E così eccole, più vive e vere che mai, le infinite maschere della sua fantasia: i sei personaggi, Enrico IV, l'uomo dal fiore in bocca, il mago Cotrone, lo scrivano Ciampa...

Sappiamo ora finalmente la verità: sul suo fascismo, tutt'altro che episodico e ambiguo, sulla follia della moglie, sul rapporto con i figli, di cui fu al contempo vittima e carnefice, sull'amore ossessivo e a senso unico per Marta Abba, sua splendida musa e sua dannazione.

di Salvatore Silvano Nigro

Date e luoghi non sono semplici tacche nel tempo e nello spazio. Sono infatti capaci di estensioni narrative. Si sfili una data: notte del 26 marzo del 1938. La si collochi nello scenario mobile di un piroscafo diretto a Napoli. In una cabina dorme Ettore Majorana. Il giovane fisico non arriva a destinazione. Non si presenta agli appuntamenti. Scompare nella notte. È un fatto. Ma è anche una relazione narrativa. Contiene già un futuro di storie, non ancora narrate. 
Negli anni 1956 e 1957 uno scrittore segreto tenta una storia fantastica. Si piega sul foglio bianco. Scrive una data: 1938. È l'anno in cui, secondo lo scrittore, il cui nome è Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il grecista Rosario La Ciura accoglie l'invito della sirena Lighea. Il vecchio professore si è imbarcato sul Rex, che naviga verso Napoli. Ha un appuntamento accademico, come Majorana. E come Majorana non arriva all'incontro. Il professore è salito in coperta. E si è lasciato sedurre dalla creatura marina. Ha raggiunto la sirena in fondo al mare, «dove tutto è silenziosa quiete». La scomparsa di Majorana "anticipa" la scomparsa di La Ciura, sulle acque stregate del golfo di Napoli. Il racconto di Tomasi di Lampedusa narrativizza la verità fantastica di un mistero storico. La vicenda di Majorana e il racconto sono in rapporto di reciprocità.

 

Una data e un luogo sono diventati uno spazio narrativo, dentro il quale, tra incontri mancati e tracolli psichici, tra realtà e finzione, il caso Majorana si è costituito come archetipo di tutte le scomparse, di tutte le fughe dal mondo, di fisici, matematici, filosofi, economisti, che caratterizzano l'immaginario letterario e cinematografico, non solo italiano, del secolo scorso. E sia detto tra parentesi: la "catastrofe" di La Ciura è preparata, nell'anno 1887, nel cuore del racconto di Lampedusa che ha per cornice gli incontri del professore con un giovane giornalista in un caffè torinese di via Po, dall'abbraccio con una bella "bestia", con una seducente sirena. Stavolta Lampedusa ha "profetizzato", anticipandola di poco, di appena due anni, e dislocandola nel "laggiù" di una Sicilia mitica, la "catastrofe" di Nietzsche che in via Po gettò le braccia al collo di un cavallo. Nella letteratura esistono anche i "plagi" per anticipazione. A volte basta truccare date e luoghi. La letteratura sa come inventare la realtà.

 

(in Il Sole 24 Ore – Domenica, 24 ottobre 2010)

 

Il racconto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è l'unico di cui esiste una registrazione a voce dell'autore. La rendono disponibile scaricandola dal sito www.ilnarratore.com le Edizioni Full Color Sound. La stessa Casa ha edito un CD con la lettura di Lighea da parte di Giuseppe Tornatore con Jasmine Trinca su musiche originali di Andrea Morricone.

Leonardo Sciascia (1921-1989) è molto noto soprattutto per i suoi romanzi-bestsellers sulla mafia (Il giorno della civetta è del 1961). Meno conosciuti sono invece i suoi rapporti con la Svizzera che, in realtà, sono assai stretti. Nel 1957 lo scrittore siciliano vince a Lugano il Premio «Libera Stampa»: è l'inizio di una carriera brillante e fortunata e di rapporti umani e culturali con il mondo elvetico che dureranno fino alla sua morte. In Svizzera escono le traduzioni in lingua tedesca di varie sue opere; Sciascia tiene parecchie conferenze; pubblica una trentina di articoli su giornali; intrattiene amicizie; si fa intervistare dalla radio e dalla televisione. Fresco di stampa è il volume Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, curato da Renato Martinoni (Firenze, Olschki, 2011). Nel corso della serata verrà proiettata anche un'intervista fatta dalla televisione svizzera allo scrittore.

Scarica locandina di invito

In questi articoli di Repubblica si torna sulle tracce di Majorana evocando l'ultimo mistero del ragazzo di via Panisperna. Un'immagine datata 1950 del più grande criminale nazista, Adolf Eichmann, accanto alla presunta figura dello scienziato siciliano scomparso nel 1938, farebbe pensare a ipotesi inquietanti. Approfondimenti

Vi segnaliamo questa intervista al nipote di Majorana andata in onda su Radio3 Scienza il 28 ottobre 2010. 

Potete ascoltarla alla pagina interna presente nella seziona Media Gallery - Radio e podcast del nostro sito, oppure cliccando  direttamente qui (intervista al min. 11e 30 sec. del documento audio)

Sabato Incontro di studio sull’avvocato
26 marzo 2011 Giuseppe Rensi,
9.00-13.00 politico e filosofo italo-svizzero,
Bellinzona dal 1903 cittadino di Bellinzona,
Sala dell’arsenale in occasione del doppio
Castelgrande anniversario
(140o della nascita, 70o della morte)

Sabato 26 marzo 2011
ore 9.00-13.00
Bellinzona
Sala dell'arsenale
CastelGrande
 

Incontro di studio sull’avvocato Giuseppe Rensi, politico e filosofo italo-svizzero, dal 1903 cittadino di Bellinzona, in occasione del doppio anniversario(140o della nascita, 70o della morte) 

L’incontro di studio si articolerà in due parti distinte: la prima si concentrerà sull’esilio svizzero di Rensi e avrà l’obiettivo di mettere a fuoco i suoi rapporti con le istituzioni elvetiche, la collaborazione a giornali e riviste ticinesi, la rete di contatti politico-culturali nella sua “patria d’adozione”; più in generale, si cercherà di sondare l’importanza dell’esperienza svizzera nella maturazione delle sue idee politiche e filosofiche degli anni più maturi; la seconda si occuperà del ritorno di Rensi in Italia, nella “patria d’origine”, e avrà l’obiettivo di analizzare gli sviluppi della sua filosofia negli anni successivi alla Grande Guerra, che videro l’ascesa del fascismo, fino al secondo conflitto mondiale; in particolare, si cercherà di valutare le relazioni tra le vicende politiche italiane nonché sovranazionali e gli approdi estremi del suo pensiero.

Scarica volantino dell'inconttro di studio: pagina 1, pagina 2

 

Salemi, Martedì 11 Maggio 2010

Martedì 11 Maggio, a Salemi, provincia di Trapani, la città amministrata da Vittorio Sgarbi, alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano è stato inaugurato il “Museo della Mafia”, dedicato a Leonardo Sciascia.

«Il Museo – spiega Sgarbi – è nato due anni fa su suggerimento di Francesca Traclò della Fondazione Rosselli. L’allora assessore alla Cultura Peter Glidewell me ne prospettò la realizzazione. La città che lo doveva ospitare non era Salemi, ma Corleone. Solo che lì, nella città di Provenzano e Riina, hanno avuto paura della parola “Museo” e l’hanno fatto diventare un noioso “Centro di documentazione per la lotta alla mafia”, che non è certo un novità. Abbiamo pensato ad un “Museo” perché vogliamo immaginare la mafia morta, sconfitta. Del resto si fa un museo dell’Olocausto non perché ci sono ancora i nazisti e i campi di concentramento, ma per dire che occorre prendere le distanze dal male. Ecco, il nostro Museo della Mafia significa questo: prendere le distanze dalla mafia, dal male. Le mie idee, da questo punto di vista, sono specchiate nel pensiero di Sciascia. Sciascia è stato il simbolo di un’antimafia non retorica».

La città di Salemi dedica allo scrittore di Racalmuto anche una mostra di suoi ritratti fotografici messi a disposizione dalla Fondazione Sciascia.

L’allestimento del Museo è stato curato da Nicolas Ballario che dirige, tra l’altro, il «Laboratorio della Creatività» di Vittorio Sgarbi.

Le installazioni a forma di cabina elettorale, che costituiscono la parte più significativa del Museo della Mafia, sono state realizzate dall’artista siciliano Cesare Inzerillo: «è un artista – spiega Sgarbi - che vede il mondo dalla parte della morte e dei morti. Le sue mummie sono simili a quelle delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Inzerillo è come Tadeusz Kantor che vede la “classe morta”».

Il Museo, dedicato a Leonardo Sciascia, è stato concepito, apposta, per scioccare e può far star male chi non è abituato, come i cronisti o gli investigatori, a vedere cadaveri per terra crivellati di colpi di lupara. Nel giorno stesso dell'inaugurazione, una donna di 40 anni milanese e una giovane studentessa catanese hanno dovuto sedersi all'aperto e bere un po' d'acqua fresca per riprendersi dopo essere passate attraverso la "cabina della violenza", una delle 10 del museo che rappresentano il percorso virtuale attraverso la storia di Cosa nostra.

La cabina 8 per esempio, che come le altre è di appena un metro quadrato, simula il retro di una macelleria siciliana con le piastrelle sporche di sangue e presenta immagini raccapriccianti che mostrano particolari anche "scientifici" di delitti.

"La cabina delle estorsioni - spiega il direttore del museo Nicolas Ballario - prima di essere sistemata nel museo è stata bruciata e il legno semicarbonizzato impregna il visitatore dell'odore tipico di ciò che resta dopo un attentato del racket. Lì dentro si assiste alla disperazione dei commercianti che vedono la loro vita andare in fumo".

All'ingresso del museo, inoltre, alcuni cartelli avvertono i visitatori che la visione di foto e video che raccontano gli omicidi di Cosa Nostra può suscitare forti reazioni emotive. Nei giorni successivi all'inaugurazione, l'amministrazione di Salemi ha vietato l'ingresso ai minori di 16 anni.

Il museo fa quindi già discutere mentre è in corso la querelle tra Sgarbi e la famiglia Salvo. Oggetto del contendere è l'esposizione nel museo della prima pagina del quotidiano L'Ora del 1984 con la foto dei cugini esattori Ignazio e Nino Salvo il giorno dell'arresto. A chiedere la rimozione di quel documento è stata la vedova di Nino Salvo attraverso un'ingiunzione del tribunale. "Noi non entriamo nel merito della vicenda giudiziaria - ribadisce Ballario - ma quella prima pagina è un documento incancellabile. Non toglieremo la foto: è uno dei trecento documenti esposti sui pannelli per ripercorrere la cronaca di Cosa nostra". Nino Salvo morì di tumore prima della sentenza del maxiprocesso. Il cugino Ignazio, condannato per mafia, venne ucciso nel settembre '92.

Il Museo della Mafia si trova all’interno del Collegio dei Gesuiti, trasformato in polo museale, dove però sono ancora in corso lavori di ristrutturazione e adeguamento degli impianti. Lavori sospesi durante la visita del Capo dello Stato, ma che adesso sono ripresi ponendo non pochi problemi per la fruizione del Museo della Mafia, di quello del Risorgimento e della mostra del FAI "Paesaggi d’Italia".

Per evitare un contenzioso con la ditta che sta eseguendo i lavori Sgarbi ha indicato una soluzione già sperimentata alla Villa Romana del Casale di Piazza Armerina: "In sostanza il Museo della Mafia – dice Sgarbi - sarà chiuso appena aperto, per essere aperto quando è chiuso.

Siccome la ditta deve pur completare i lavori e non è nostra intenzione essere di ostacolo, faremo un’accoglienza contingentata per anime sensibili: consentiremo l’ingresso al museo tutti i giorni, per gruppi di 30, dalle 18 alle 24,00. In pratica quando il cantiere sarà chiuso".

Ferdinando Scianna

Ferdinando Scianna è uno dei più celebri fotografi italiani. A Lucca fino all'1 ottobre la Fondazione Centro Studi sull'Arte Licia e Carlo Ludovico Ragghianti gli dedica una vasta antologica (dopo quelle dedicate a Man Ray e a Gianni Berengo Gardin): Ferdinando Scianna fotografie 1963-2006. Nella mostra sono documentati gli oltre quarant'anni di attività di Scianna, suddivisi in diverse tematiche: la sua Sicilia, il mondo dei bambini, gli amici e i maestri fotografi, i ritratti femminili (da Monica Bellucci a Ornella Muti, da Marpessa a Lea Padovani).

Scianna, a proposito di uno dei suoi libri più famosi, Quelli di Bagheria, citando l'amico scrittore messicano Federico Campbell, dice che «Ricordare è lo stesso di immaginare; così raccontando un proprio tempo, uno lo trasfigura, lo immagina: letteralmente "lo racconta". E poiché il racconto è fatto di cose che si eliminano inconsciamente e di cose che si valorizzano, è sempre molto arbitrario, come lo è ogni gesto letterario. E ancora sulla fotografia e la "memoria": Le fotografie non restituiscono "ciò che è stato", piuttosto ripropongono in una sorta di lancinante presente ciò che non è più». Per l'occasione proponiamo l'intervista realizzata nel 2003 da Davide Borsa, Ivan Friande, Agnieszka Kurylowicz, Nadia Probst, Patrizia Ruggiu, redatta da Andrea Bonfanti e Gregory Catella.
Che influenza hanno avuto le sue origini sul suo lavoro?
È come se tu domandassi a un pomodoro, frutto di una pianta cresciuta su un'isola greca – per non parlare ancora una volta della Sicilia – con l'acqua e con il sole, senza anticrittogamici, se il suo sapore è stato influenzato da questa origine; e se tu facessi la stessa domanda a un pomodoro che è stato prodotto in serra da qualche altra parte. Inevitabilmente questa origine ha influito sul suo modo di essere; e se influisce sulla natura di un pomodoro, figurati sulla natura di una persona!

Cosa vuole trasmettere a chi guarda le sue fotografie?
Che cosa vuole trasmettere uno che vive? Non è una domanda che riguarda solo i fotografi, ma tutti gli uomini. Siamo uomini per la semplice ragione che a un certo punto dell'evoluzione qualche cosa ci ha dotato di un linguaggio.
Il linguaggio è la cosa che ci contraddistingue. Contrariamente agli altri esseri viventi, infatti, noi non solamente sentiamo, ma abbiamo cominciato a pensare, e pensiamo e sentiamo attraverso un sistema complesso, che chiamiamo coscienza e che si esprime attraverso il linguaggio. Non è quindi possibile avere coscienza ed essere uomini, quindi pensare, sentire e utilizzare il linguaggio senza volere comunicare.
La nostra natura profonda ci spinge a volere comunicare. Si vuole comunicare quello che si è, quello che si sente, si cerca di appropriarsi dell'altro e che l'altro si appropri di noi. È la vita, è lo scambio, è il senso stesso del vivere. Non ho messaggi, se è questo il senso della domanda. O meglio, tutti abbiamo dei messaggi; ma questi cambiano, perché cambiano le nostre opinioni, cambia la nostra età, abbiamo delle visioni del mondo che evolvono, ecc. E noi ci confrontiamo con gli altri. Adesso mi confronto con voi che siete molto giovani, ed è chiaro che il mio comunicare ha qualche cosa che insieme alla vanità si declina attraverso la nostalgia di un tempo in cui le domande erano più numerose di quante non siano adesso. Non che io adesso abbia più risposte, però ho delle risposte che somigliano più che altro a delle domande inevase, e una certa stanchezza, anche, di porre domande per le quali sento l'esigenza assoluta di risposte. È chiaro quindi che io parlo con voi in maniera diversa da quella in cui parlate fra voi, per rapporto alla vostra situazione storica, culturale ed esistenziale.

Il suo rapporto con Sciascia?

Una delle cose migliori della mia vita. Certo, la fortuna, forse, è anche una cosa che uno si cerca. Se volete farvi investire da un'automobile meglio non frequentare i viottoli di montagna, perché lì non passano. È anche vero che, pur avendo io la vocazione della cozza, o dell'ostrica, che quando trova una roccia che vale la pena abitare io lì mi attacco ed è difficilissimo scrostarmici, la mia fortuna è stata straordinaria: che nella mia prima giovinezza il caso mi abbia portato a incontrare quest'uomo e che sia scoccata tra di noi, misteriosamente da parte sua nei miei confronti, una simpatia che si è trasformata in un rapporto quasi padre figlio. Da quell'incontro sono nate talmente tante cose che sono difficilissime da valutare, da sciogliere anche, perché le influenze che un uomo con cui hai una relazione profonda può avere nei tuoi confronti non dipendono soltanto dai libri che ha scritto, dalla sua intelligenza, o dalle cose che ti ha detto. Il fatto è che ti ritrovi di fronte a una personalità straordinaria, con straordinarie capacità espressive, una sterminata conoscenza storica, una visione della vita talmente complessa che, per il tipo di rapporto di amicizia che vi lega, ti comunica tante cose, soprattutto ti fa intuire un criterio di identificazione della qualità. Sciascia non mi ha per esempio mai detto: "Leggiti questo libro", non mi ha mai fatto un piano di studi, per dire. Ma Sciascia era di fatto una specie di biblioteca vivente; parlava talmente tanto dei libri, delle cose lette, delle idee, e le collegava in maniera tale che c'era di che riempirci dieci casseforti. E io ammassavo. Ancora oggi mi capita di spulciare in certi rigattieri o in librerie antiquarie, e di trovare un libro di cui avevo sentito parlare da lui e che non ho mai letto e leggendolo vi trovo tante ragioni e tanti tesori e tanta continuità con il suo insegnamento.

Ma il rapporto con quest'uomo non era soltanto relativo alle sue qualità di intellettuale. Sciascia, infatti, possedeva il dono rarissimo di rimanere sempre se stesso. Quasi tutti noi, in un modo o in un altro, ci portiamo addosso una maschera. Io sono troppo gigione per non voler sedurre facendo le battutine, o parlando con verve, o cose del genere. Tutti noi cerchiamo di indossare lo smagliante abito di Arlecchino, quello più gradito agli altri, o quello che corrisponde all'immagine di noi che vorremmo gli altri avessero. Siamo sempre su un palcoscenico, in un modo o nell'altro recitiamo. Sciascia non era così, lui era sempre se stesso; che parlasse con un contadino o con me, che facesse un intervento al parlamento o una conferenza, che cucinasse il baccalà con le olive o che andasse a raccogliere un po' di gelsomini e li mettesse in un fazzoletto perché rimanessero freschi e io potessi portarli a Paola a Milano. Sciascia era fatto di tutte queste cose, di una serie di acutissime lame intellettuali per sondare la realtà e insieme di delicatezze umane straordinarie. Sono convinto che il poco di buono che ho combinato nella vita in gran parte lo devo a lui e a quello che ho succhiato dagli altri, e non sono pochi.

A proposito di Cartier-Bresson, lei ha detto: "da lui la tradizione di cui mi sento figlio, magari degenere", che cosa intendeva?
Degenere è naturalmente una formula retorica, ma non tanto, di umiltà, di modestia. Mi considero un epigono di quella tradizione, e quindi spero sempre di non tradirla troppo. A volte mi domando addirittura se non sto partecipando alla trasformazione di una tradizione in un'accademia.
Ha collaborato con molti professionisti affermati, ce n'è uno in particolare che invidia?
Ce ne sono moltissimi che ammiro. Invidia è un peccato che non mi piace. Leonardo Sciascia diceva che tra i peccati capitali gli sembrava il più stupido: perché uno, che so, la lussuria se la gode, la gola se la gode, ma l'invidia se la soffre. A essere invidiosi che cosa ne ricavi? È un peccato stupido. Non fa parte del mio orizzonte. Quando vedo una cosa che mi piace fatta da qualcun'altro, la cosa mi stimola, mi fa venire voglia di provarci anch'io. Certo non è sempre così: magari mi deprimo o mi entusiasmo, ma non invidio. A volte mi deprimo, penso: non ce la farò mai a fare cose così belle, così buone. O invece mi eccito e penso: beh, ci provo anch'io, vediamo. Credo che l'invidia sia un atteggiamento caratteristico dell'adolescenza, età nella quale si pensa che uno debba o possa fare quello che vuole – e a volte si rimane adolescenti fino a novant'anni. Nasce da una sorta di frustrazione che si potrebbe esprimere così: sono un disastro, volevo fare meraviglie e ho prodotto porcherie.

Poco a poco, maturando, uno capisce che il suo compito è di impegnarsi a fare quello che può fare, di investire cioè la sua volontà per utilizzare al meglio e al massimo il suo talento e la sua disciplina. Non è che puoi fare quello che esorbita il tuo talento e le tue capacità, anche fisiche. È come se io invidiassi il campione del mondo di sci perché ha vinto lo slalom gigante: io che non so neanche sciare! Non fa parte del mio orizzonte, oppure non fa parte delle mie possibilità. Questo vale anche per l'attività espressiva.

Alla fine, quello che conta in ciò che ha fatto o fa un uomo, che si tratti di cucina, di fotografia o di letteratura, di agricoltura o commercio è di mettere la propria serietà, la propria disciplina, al servizio del talento che la vita o il destino gli hanno dato, in modo da utilizzarlo al meglio.
Quando hai fatto questo, hai assolto il tuo compito.
Come vede il suo futuro?
Male. Lo vedo male. Insomma, inauguro questa mostra praticamente lo stesso giorno dei miei sessantatre anni. Lo vedo breve, pieno di dolori di schiena e di ginocchia, di diete salutifere e di donne indifferenti.

Intervista pubblicata sul sito Nital.it a questo link: clicca qui

di Valter Vecellio

Teatro civile nella miglior tradizione, l’adattamento teatrale del “Giorno della civetta” realizzata da Gaetano Aronica, per la regia di Fabrizio Catalano, con Sebastiano Somma e Orso Maria Guerrini, e in scena fino al 4 marzo al teatro Parioli-Peppino De Filippo a Roma.
Il racconto di Sciascia è ambientato in un paese di poche migliaia di abitanti, nell'entroterra siciliano. Un freddo mattino d'inverno viene ucciso un uomo; tipico delitto di mafia; da qui parte la storia, che racconta dell’inchiesta per accertare chi ha commesso quel delitto, per ordine di chi, e perché. La storia di un giovane capitano dei carabinieri, Bellodi,appena approdato in Sicilia dalla lontana Parma. Siamo all’inizio degli anni ’60. Bellodi è un uomo onesto ed intelligente, pronto ad affrontare qualunque difficoltà, pur di far bene il proprio dovere. Una vicenda ispirata a un fatto vero: il delitto di un sindacalista, Accursio Miraglia, ucciso nel 1947. E anche la figura di Bellodi è tratteggiata a una persona realmente esistita: non il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, come lo stesso Dalla Chiesa credette, ma un altro carabiniere: Renato Candida, uno di quei carabinieri capaci di vedere e non solo guardare, ascoltare e non solo sentire, e soprattutto capire: come si intuisce a rileggere un importante suo libro, “Questa mafia”, che Sciascia recensì nel 1957. Candida proprio per queste sue doti, un giorno venne promosso e trasferito. A Torino.

“Il Giorno della civetta”,pubblicato nel 1961, ha – se così si può dire – una strutturazione per sequenze, e questo credo abbia facilitato il lavoro di Aronica e Catalano, che hanno saputo realizzare una rappresentazione che non tradisce il testo originario, anzi lo esalta, e ne viene impreziosito dalle potenti interpretazioni di Somma, Guerrini, ben spalleggiati dallo stesso Aronica, e da Morgana Forcella, Roberto Negri, Alessio Caruso, Maurizio Nicolosi, Giovanni Vettorazzo, Luca Marianelli e Fabrizio Catalano.
  Un racconto, “Il Giorno della civetta”, che degli imbecilli hanno voluto vedere come un’esaltazione della mafia e del mafioso che verrebbe celebrato. E’ esattamente il contrario. Al di là delle pagine più conosciute e ridotte quasi a macchietta (quelle dove don Mariano Arena elenca le cinque categorie con cui divide l’umanità), quello che si descrive è un capitano Bellodi che crede nei valori della Costituzione, e che sa conservare un comportamento corretto anche nei confronti del capomafia; un “garantista”. Ed è proprio quella correttezza, quel rispetto delle regole che gli fanno guadagnare una sorta di rispetto da parte del capomafia che da giovane ha invece subito gli arbitri e gli abusi che negli anni del prefetto Cesare Mori erano la regola. Così il mafioso qualifica Bellodi come “vero uomo”; e qui si sono appigliati gli imbecilli: che rimproverano a Sciascia una sorta di fascinazione nei confronti del capomafia, come stregato. Non hanno voluto vedere che proprio Sciascia per la prima volta, aveva raccontato il volto e la realtà spietata e violenta della mafia. Tantomeno hanno mostrato di vedere che nel “Giorno della civetta” si suggerisce – e siamo, ripeto, nel 1961 – una precisa strategia investigativa, gli accertamenti bancari che nessuno aveva mai tentato prima di Giovanni Falcone. E’ una pagina che andrebbe scolpita nei palazzi di giustizia, ovunque: “Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi e tirarne il giusto senso. Solo così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”.
C’è poi un’altra grande pagina, anch’essa andrebbe mandata a memoria: quando Bellodi, preso da sconforto, sembra quasi cedere alla tentazione di usare gli strumenti usati da Mori, al di là e al di sopra della legge. Una tentazione che subito scaccia: non è con una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali che il male si estirpa. Anzi. “Un nuovo Mori diventerebbe subito strumento politico-elettoralistico; braccio non del regime, ma di una fazione del regime”. E non manca una pagina di cauto ottimismo. Quando Bellodi ricorda al boss mafioso che la figlia studia in un collegio svizzero: “Costosissimo, famoso…Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta…”. La cultura, insomma, come strumento contro la violenza e l’arroganza mafiosa. Il boss mafioso capisce al volo: “Lasci stare mia figlia”, dice rabbioso. Un libro importante, da leggere e rileggere, come un po’ tutti i libri di Sciascia. E sarebbe importante che il ministro della Pubblica Istruzione emanasse un paio di circolari agli istituti scolastici: per invitarli ad adottare, come lettura consigliata “Il Giorno della civetta”; e portare gli studenti a vederne in teatro la riduzione.

Valter Vecellio