Dieci Processi

Alberto Savinio, Dieci processi, Palermo, Sellerio, 2003, pp. 85, euro 8


Nella collana "La memoria" dell'editore Sellerio è uscito un libro di Savinio particolarmente interessante - naturalmente, verrebbe da aggiungere a quanti conoscono il suo strepitoso talento; non molti in verità. Per decenni sull'autore (1891-1952) - e musicista, pittore, scenografo; fratello del più celebre Andrea De Chirico - è gravata una congiura del silenzio che proprio l'editore di Palermo aveva contribuito a infrangere, già negli anni Settanta, pubblicando alcuni suoi scritti grazie al diretto interessamento di Leonardo Sciascia, che per Savinio aveva una speciale predilezione - "il più grande scrittore italiano tra le due guerre", scriverà.

Le sue opere sono state riproposte in questi anni dall'editore milanese Adelphi; il libro che ora si segnala esce finalmente da quella clandestinità cui pareva destinato assieme al suo autore: scritti tra il 1932 e il 1935 per la rivista giuridica "I Rostri", i Dieci processi ricomparvero poi in una raccolta stampata quasi clandestinamente in Olanda, una ventina di anni fa, e nel 2001 sulla rivista "Il Caffè Illustrato".

Savinio qui riapre - da par suo - dieci processi celebri, in cui gli accusati quasi sempre sono stati poi assolti, riabilitati, santificati dal tribunale della storia: da Socrate a Galilei, da Campanella a Gesù, e poi Landru, Luigi XVI e altri ancora. Ogni processo è illustrato - e pregevolmente arricchito - da un disegno dell'autore.

Qual è il metodo adottato da Savinio? Se di metodo si può parlare per questo impareggiabile amante della digressione, del divertimento nel senso etimologico del termine (dal latino divertere, deviare, volgere altrove), per avventurarsi ogni volta negli sterminati spazi dell'intelligenza. E nei dieci processi ne darà prova impareggiabile, pur dentro il disegno d'insieme improntato a uno strenuo, provocatorio scetticismo. Esercizi di scetticismo avrebbe potuto intitolarsi questo libretto, nella suggestione e nel ricordo dei celebri esercizi allo stile dedicati; e nella considerazione, anche, della lezione di stile offerta dalla scrittura saviniana.

Socrate, Gesù, Galileo sono stati condannati iniquamente: questa è per tutti una verità che non ammette dubbi. Ma è poi così accertata l'iniquità di queste condanne? E' poi così accertato che costoro mirassero veramente al bene dell'umanità? Ecco il dubbio insinuato da Savinio, paradossale e provocatorio, e tanto più in quegli anni di solidissime e gloriose certezze - sappiamo poi quanto funeste. Fino alla conclusione - per eccellenza provvisoria - che riapre la questione, il processo, e rimette in discussione il concetto stesso di verità: "Ognuno di questi grandi accusati, prima di diventare vittima della giustizia umana, è stato vittima di una sua particolare forma di misticismo". Savinio vede dunque questi grandi processi come la lotta di due credenze, due misticismi: quello della giustizia - la sacralità della legge -, e quello della santità, del fanatismo e della riabilitazione postuma, quello - in una parola - della storia. Decisamente egli si schiera contro la verità immutabile, contro la verità unica, che facilmente prende forma di fanatismo, di misticismo. Seguendo la lezione di Montaigne.

I dieci processi riaperti da Savinio, tutti insieme ne compongono uno solo, contro la Verità - come suggerisce il titolo della bella e densa postfazione scritta da Gabriele Pedullà - contro la Verità Unica. C'è un passo, nella sterminata messe di scritti lasciata da Savinio, che merita di essere riproposto, che anzi potrebbe assumersi come ideale epigrafe al volumetto ora in libreria. A proposito della verità: "C'è la verità? No. Ci sono 'le' verità. Grande conforto per noi. Quanto più alto il numero delle verità, tanto più bassa la possibilità di una verità sola. Nostro còmpito è di aumentare il numero delle verità, fino a rendere impossibile la ricostituzione della verità. Còmpito sacrosanto. Perché la fisima della verità è la cagione di ogni follia quaggiù; e l'uomo che crede in una sola verità (dio unico, verità unica, principio unico) reca in sé il germe della pazzia".

Lo scienziato - scrive qui Savinio a proposito di Galileo - è tra i tipi più puri del mistico, pronto a sacrificare la propria vita in difesa della Scientia: della "dea" Scientia. Lo scienziato toscano, proprio in virtù della sua abiura, sarà assunto da Savinio come il nemico di ogni misticismo, come l'esempio da seguire: "Scienziato, egli adora sì la Verità, ma non mai con quel furore sacro, con quella dedizione greca dei suoi colleghi di lassù, gli abitatori delle zone artiche".
Ci si accorge, leggendo i brevi articoli, che vale più il principio ispiratore - la corrosiva rilettura delle più consolidate certezze - che non le singole e specifiche riaperture dei casi giudiziari.

Marcello D'Alessandra

Recensione apparsa su "Stilos", 1 aprile 2003