Si agitano bandiere

Il saggio di Salvatore Costanza Si agitano bandiere, Leonardo Sciascia e il Risorgimento presenta e commenta una rassegna di testi sciasciani, racconti, introduzioni, brevi interventi, che hanno come spunto narrativo eventi della storia siciliana della seconda metà dell’Ottocento.

L’autore è un intellettuale trapanese, appassionato ricercatore di storia, che ha vissuto esperienze culturali e politiche nel contesto fervido degli anni Sessanta, molto simili a quelle dello scrittore di Racalmuto, anche se spesso su versanti diversi. Costanza, come corsivista e redattore dell’Ora di Palermo, ebbe l’opportunità di organizzare numerosi dibattiti, che precedettero la celebrazione del primo centenario dell’Unità d’Italia, ai quali parteciparono, tra gli altri, Denis Mack Smith, Gioacchino Tomasi Lanza, Antonino Uccello e lo stesso Sciascia. Proprio di fronte all’esito deludente dell’attività politica della Regione Siciliana, su cui pesava quello che l’autore del Giorno della civetta definiva “l’eterno milazzismo della Sicilia”, gli intellettuali si rivolgevano all’analisi degli eventi che avevano condotto allo Stato Unitario, per rivisitarne, in chiave critica, il mito.

   All’interno di questo clima di ricerca, si collocano, nel tempo, i testi sciasciani analizzati dall’autore del libro: Il quarantotto, I fatti di Bronte, I pugnalatori, la prefazione al testo di Mauro De Mauro Sette giorni di fuoco a Palermo, i commenti polemici all’uscita del romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Nel ripercorrere racconti e saggi, Salvatore Costanza contestualizza alcuni passi della narrazione sciasciana all’interno della vicenda storica presa in esame, ne evidenzia le fonti di riferimento, fa osservazioni circa l’attendibilità delle stesse, converge o meno sulle valutazioni storico–politiche, che dalla trattazione derivano.

   Un esempio significativo del metodo adottato dall’autore può essere rinvenuto nella presentazione del racconto Il quarantotto, in cui il barone “incoccardato”, che ospita Garibaldi nella sua dimora, dopo aver superato indenne tutte le crisi che hanno preceduto la spedizione dei Mille, da lui temuta e detestata, viene presentato come un classico esempio del “nicodemismo” dei siciliani, pronti a cambiare posizione quando si agitano bandiere di un nuovo corso di eventi. Con lui si alleano altri nobili, il vescovo e i “galantuomini”. Se si prende in considerazione il racconto alla luce delle dichiarazioni di Sciascia stesso, è possibile individuare nell’opera di Sebastiano Nicastro (Dal Quarantotto al Sessanta, 1913) la fonte che ha ispirato la vicenda: alcuni passi trasmigrano da un testo all’altro, simili nelle immagini, nel ritmo e nella struttura. A questo punto interviene il punto di vista dello storico Costanza, che segnala la parzialità con cui Nicastro ricostruisce gli eventi, basandosi, a sua volta, su una fonte non attendibile. Ne deriva, da parte di Sciascia, la creazione di un personaggio totalmente negativo, il vescovo Antonino Salomone, che ricostruzioni più accreditate tramandano come ecclesiastico cautamente tollerante, lodevolmente impegnato nell’educazione dei giovani, probabilmente estraneo alle delazioni di cui viene accusato nella ricostruzione sciasciana.

Costanza analizza il testo, segnala qualche discordanza rispetto alla ricostruzione storica e cerca di individuare il ‘paradigma narrativo’ dello scrittore racalmutese, delineando con chiarezza la sua interpretazione della poetica di Leonardo Sciascia:

“La polivalenza contestuale della storia non viene costruita mediante il metodo della ricerca documentaria e del supporto problematico alla stessa, ma in funzione dell’evento conclusivo, che si fa coincidere con la deformazione della giustizia e le sconfitte della ragione, cioè degli “uomini ragionevoli”.

   È questa la verità che lo scrittore di Racalmuto ritiene di cogliere intuitivamente tramite il racconto, quella che trova la sua unica forma possibile nell’arte. Nell’intreccio complesso tra ‘vero’ e ‘verosimile’ si inserisce, secondo Costanza, anche la seconda parte del racconto, nella quale viene abbandonata la fonte storica, per affidare alla fantasia il colloquio tra Garibaldi e Nievo, colloquio in cui si prende atto dell’eterno venir meno della speranza di riscatto del popolo siciliano, sempre tradito dai compromessi del potere, sia esso rappresentato da Crispi e dal governo centrale nelle vicende ottocentesche, sia dai politici chiamati a governare la Regione siciliana, una volta ottenuta l’autonomia, nella seconda metà del Novecento.

   Fin qui lo storico si confronta con lo scrittore. Nel tessuto complessivo dell’interpretazione appaiono, però, differenze che riguardano aspetti concettuali importanti e presuppongono una diversa visione del mondo e della storia, che condiziona l’argomentazione in passaggi decisivi, soprattutto quando negli ultimi capitoli ci si confronta con il problema della mafia e con le polemiche sorte intorno al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

     Nel capitolo Mafia di ieri, Mafia di oggi, l’autore fa riferimento ad un’esperienza che lo coinvolse insieme a Leonardo Sciascia, quando, alla fine degli anni Sessanta, approdò a Palermo un gruppo di docenti e di studiosi dell’Istituto di Sociologia ed Etnografia dell’Università Heidelberg, tra cui Wilhlelm Muehlmann ed Henner Hess. Li accompagnava nei loro itinerari siciliani Salvatore Costanza e Leonardo Sciascia e li ospitava nella sua casa di Caltanissetta. Lo storico e lo scrittore saranno poi chiamati ad Heidelberg, il primo per un corso di Storia sociale della Sicilia, il secondo per una conferenza sull’Esperienza sociale di uno scrittore siciliano. Da queste esperienze nasceranno alcune pubblicazioni degli ospiti tedeschi, tra cui nel 1973 La Mafia come metodo, di Henner Hess, di cui Sciascia curerà l’introduzione.

   Proprio nell’ambito di questi dibattiti si configura un confronto circa il punto di vista con cui si possono interpretare la Sicilia, i suoi abitanti, la loro concezione dell’esistenza. Prende forma, da una parte, il concetto di sicilitudine elaborato da Sciascia: si tratta di una condizione per cui il siciliano, partendo da un senso atavico di isolamento, approda ad una percezione di insicurezza, di solitudine e di paura che non ha più soltanto una motivazione storica, ma può assurgere, in alcuni casi, ad emblema dell’angoscia esistenziale, tipica della modernità, travalicando i confini della Sicilia stessa. Dall’altra si colloca Salvatore Costanza, che confida nella ricerca documentaria, è attento allo sviluppo diacronico di ogni singola vicenda, esaminata negli aspetti specifici e diffida di interpretazioni etico-sociali in cui la storia perde la sua concretezza fattuale e si “dissolve”. Per lo stesso motivo Sciascia e Costanza assumono un atteggiamento diverso di fronte alla vicenda dei Florio, la famiglia sulle cui sorti lo scrittore di Racalmuto avrebbe voluto costruire un suo ‘racconto storico’ che ne indicasse il destino di sconfitta, deprecata e accettata al tempo stesso. Salvatore Costanza, invece, pone l’accento sulle scelte politiche sbagliate di Ignazio Florio, inserite in un contesto in cui l’economia isolana, e quella meridionale in genere, divengono sempre più marginali: non si tratta di un destino, ma di un effetto derivato da cause precise, a prescindere da qualsiasi valenza metaforica.

   Si agitano bandiere è un saggio molto articolato nell’argomentazione e corredato da un ampio apparato bibliografico in cui si possono ritrovare nomi e titoli che ricorrono frequentemente anche nella produzione saggistica, ma non solo, di Leonardo Sciascia. Proprio questo tessuto comune di letture e di esperienze permette allo storico di riconoscere il valore del letterato, come testimonia una considerazione, posta nella premessa del saggio e che costituisce il filo rosso di tutta la trattazione. In essa, al di là di ogni differenza, vengono sottolineati il “contributo di polemico ardore” e la forza intellettuale con cui Leonardo Sciascia si pose contro la mafia e le penurie morali del potere, affrontando, come uomo e come artista, numerose battaglie, convinto che alla letteratura spettasse il compito di trovare “l’ineffabile senso della verità”.