Anna Maria Sciascia: “Leonardo Sciascia, mio padre” – I parte

La sezione “Sciascia e le donne”, concepita per dare spazio a una carrellata di analisi di personaggi femminili dei romanzi e delle loro eventuali trasformazioni per il grande schermo, nonché a voci di donne reali che hanno conosciuto lo scrittore, questa volta dà la parola alla figlia Anna Maria, che, dopo reiterate, affettuose richieste da parte mia, alla fine ha ceduto e mi ha concesso un’intervista, tanto ambita quanto rara. Non senza un pizzico di soddisfazione offro, quindi, ai nostri lettori questa interessante testimonianza, in due puntate, attraverso la quale credo si possa aggiungere qualche tessera al mosaico che le convergenti ricerche cercano di comporre. Nessuno come una figlia, oltretutto a lui legatissima, può, infatti, aiutare a capire un po’ di più dell’uomo, oltre che dello scrittore: scoprirlo in veste di padre, di nonno e perfino di “cuoco” arricchisce il ritratto di Sciascia di qualche calda sfumatura, grazie a quel tocco intimista che sembra accorciare le distanze, rendendocelo più “familiare”.

Rossana Cavaliere

 

È fatto divieto di riprodurre, anche parzialmente, la seguente intervista, che si è svolta il 16 gennaio 2019, senza citazione esplicita e dettagliata della fonte e l’espressa autorizzazione da parte della redazione.

 

Raccontare è un’arte

 

D:        Suo padre è celebrato come uno dei più grandi narratori del Novecento, per cui la prima domanda, per avviare la nostra conversazione, è scontata: nel privato, che narratore è stato suo padre per lei bambina? Che storie le raccontava?

R:        La mattina mi raccontava spesso le storie di William Saroyan. In verità ero io che lo sollecitavo, con quel pizzico di tenera petulanza dei bambini, mentre lui stentava a riconnettersi con la realtà, ancora avvolto com’era dal torpore del sonno. Cedeva tuttavia alle mie insistenze e lentamente, com’è giusto per accedere nel mondo del fantastico, iniziava a raccontare… Ho già ricordato in un’altra circostanza (ndr. si riferisce al suo libro Tra Racalmuto e Caltanissetta) perché la Storia che mi raccontò un barbiere fosse la mia preferita: in qualche modo c’era una sorta di identificazione con il bimbo protagonista, che aveva un gran cespuglio di capelli, nel quale una notte nidificò un passero. Mio padre infatti, mentre parlava, giocava con i miei riccioli, inanellandoli, scompigliandomeli tutti, ed io amavo molto quel gesto affettuoso, del quale avevo il monopolio in famiglia.

 

D:        È vero che, nella quotidianità, suo padre riusciva a trasformare ogni aneddoto o notizia in narrazione? Può portare qualche esempio per aiutarci a immaginare?

R:        È così. In questo momento mi viene in mente una storia che narrò non a me, ma a mio figlio: gli raccontò di un brigadiere eroico di Racalmuto, che era stato assassinato dai briganti. Era un fatto di cronaca, ma le sue parole fluivano melodiose, come se si trattasse di una favola, e il bambino lo ascoltava incantato, tutto immerso in quel mondo fiabesco e irreale che il nonno gli andava dipingendo. Oppure penso a quando riferiva qualche piccolo episodio accaduto al circolo di Racalmuto, o anche una semplice conversazione che vi si svolgeva, per esempio, durante una partita a carte nel periodo natalizio: ogni gesto, ogni frase diventava narrazione per chi lo ascoltava.               

Il suo fascino, tuttavia, non si limitava alla sola ars narrandi. Anche quando andava a scuola aveva sempre un seguito di persone che lo ammiravano, lo seguivano, lo ascoltavano.                       

Ai miei occhi di bambina era un padre speciale, unico.

 

D:        Lei avvertiva questa sua naturale autorevolezza?

R:        Credo la avvertissero tutti: le persone gli si rivolgevano con affetto e ammirazione: questi erano i sentimenti che suscitava. Non si atteggiava mai a “maestro”. Pensi che c’erano sempre tanti giovani che venivano a prepararsi nella lingua italiana, anche ragazzi rimandati, per esempio, ma lui non li rimproverava per gli errori, non aveva un fare sussiegoso, anzi insegnava senza far avvertire il peso della sua cultura, trattando tutti con composta cordialità, non con il distacco tra chi sa e chi deve imparare.

            Per dare un segno tangibile di quanto senza sforzo alcuno incutesse rispetto e stima, dirò che, quando c’era la festa della Madonna del Monte, che era la festa del paese, eravamo sommersi dall’affetto di cui era circondato lui: chi voleva offrire a me e a mia sorella un giro sulla giostra, chi comprarci giocattoli, ma mio padre ci raccomandava sempre di non assecondare queste - pur affettuose – offerte. Ricordo la spensierata curiosità con cui ci aggiravamo in quel mondo di giochi e di luci, che sembrava attrarre un poco anche lui.

Secondo me, suscitava deferenza solo grazie alla sua naturale sicurezza di sé. E posso aggiungere che il senso di protezione che mi dava mio padre non l’ho mai più sentito.

 

La calma è la virtù dei forti e la verità non è solo in fondo al pozzo…

 

D:        Dava l’idea di essere un tipo calmo o forse solo controllato: è così o qualche volta aveva anche lui qualche scatto di nervosismo o insofferenza?

R:        Era un uomo pacato, che trasmetteva tranquillità. Pensi che un giorno, alla casa di campagna, dove arrivammo in macchina, con mio marito alla guida, lui al posto del copilota (non aveva mai preso la patente), mia madre, mio figlio piccolo ed io, si ruppe una bottiglia di olio, mentre papà era intento ai fornelli. Io, in condizioni analoghe, con i miei nipotini, sarei stata presa dall’agitazione. Lui non si scompose, e neanche mia madre, in verità. Sollecitò solamente che si tappezzasse il pavimento di giornali, perché assorbissero l’olio e continuò imperterrito a cucinare per tutti noi. Contemporaneamente era iperprotettivo: circondato da donne, le custodiva, le tutelava, come un bene prezioso.

 

D:        Lui che era amante della verità e la ricercava a ogni costo, come reagiva a una bugia?

R:        Le bugie in famiglia non erano previste.

 

D:        In che senso? Non erano – per così dire – “contrattualmente” previste?

R:        No. Non erano contemplate nei nostri rapporti interpersonali. La prima bugia al mio papà la dissi quando ero già giovinetta e volevo andare con il mio fidanzato alla corsa automobilistica Targa Florio, ma lui me lo vietò, dicendomi che era «pericolosissimo», perché «le macchine [avrebbero potuto] sbandare e arrivar[mi] addosso». Io allora finsi di cedere, ma in realtà ci andai lo stesso, approfittando anche del fatto che lui sarebbe partito per Milano il giorno stesso. Poiché, però, la tratta per Milano prevedeva un passaggio dall’area del circuito della Targa Florio, io ero letteralmente terrorizzata che lui in qualche modo mi scorgesse dal treno!... Oggi, col senno di poi, devo ammettere che le sue remore erano tutte fondate e condivisibili: non amava, per esempio, le gite scolastiche e ci proibiva di andarci. Con quello che si sente oggi a proposito degli incidenti durante le gite scolastiche, devo riconoscere che ho finito con il condividere le sue posizioni. Allora, invece, credevo che mi venisse tolto qualcosa. Ricordo che, una volta, a scuola era stata organizzata un’uscita per recarsi al cinema, ma lui si oppose alla mia partecipazione, adducendo come motivazione – che a me parve pretestuosa – che non ci avrei capito niente. Alla fine acconsentì, ma non posso non riconoscere quanto avesse, come al solito, ragione, perché i ragazzi, stando tutti insieme fuori dell’edificio scolastico, fecero un gran chiasso durante la proiezione, che fu perciò disturbata per tutto il tempo, tant’è che …non ci capii niente davvero.                            

Non me ne pentii, ma dentro di me dovetti convenire che mio padre aveva visto giusto. A lui però non lo confessai.

 

Un padre-maestro, anche di vita

 

D:        Avere la possibilità di parlare con Leonardo Sciascia ha rappresentato un’occasione di arricchimento per tutti quelli che lo hanno conosciuto. Quanto è stato importante nella sua preparazione e formazione?

R:        Determinante. Ammetto tranquillamente, infatti, che ricorrevo spesso a lui, per la filosofia, per esempio: con poche parole riusciva a spiegare concetti astrusi e a rendermeli fruibili. Era chiarissimo e aveva il dono della concisione. Quando poi mi assegnavano ricerche, mi affidavo subito a lui: non mi aiutava a svolgerle, ma me le dettava direttamente. Alla fine del lavoro, poiché sapevo che l’insegnante avrebbe controllato le relazioni e giustamente avrebbe preteso che fosse specificata la bibliografia, lo sollecitavo in tal senso e lui mi dettava una sfilza di titoli e di autori.

 

D:        Comodo! E lei cosa pensava?

R:        Che era molto funzionale avere a disposizione un “maestro” così preparato, così colto, che parlava a braccio e sapeva di tutto. Per me era bellissimo avere un papà “magico” e competente. Mia sorella invece era autonoma, molto brava e orgogliosa e non ricorreva mai al suo aiuto. Credo che ci tenesse a essere l’erede intellettuale di papà.

 

D:        Ricorda un aneddoto in particolare?

R:        Una volta il professore di Italiano ci assegnò per casa un tema sulla bontà. Quel pomeriggio avevamo programmato di andare al cinema: papà era notoriamente un cinefilo convinto e io pure amavo i buoni film, specie poi se andavo a vederli con lui. Urgeva dunque affrettare i compiti: papà mi dettò il tema in un battibaleno. Il suo svolgimento però fu contestatario: i temi sulla bontà non avrebbero dovuto essere assegnati, non era bello parlare di bontà, perché la mano sinistra non deve sapere quello che fa la mano destra in opere di bene, etc. etc. La mattina seguente il professore mi fece leggere il mio tema e, mentre leggevo, con un po’ di imbarazzo, vedevo il suo volto trasecolare. Alla fine, pur consapevole che alle spalle c’era mio padre, mi disse: «Hai voluto interpretare in questo modo la traccia!», e certamente non ne era affatto contento. Ricordo anche che, quando capitava che non rispondessi bene alle domande della professoressa di Latino, questa, rimarcando la mia inadeguata performance, così mi etichettava: «Indegna figlia di un padre illustre».

 

Crescere non è mai facile, ma la letteratura illumina il cammino

 

D:        Nel suo libro Tra Racalmuto e Caltanissetta faceva riferimento a una sorta di senso di inadeguatezza provato da bambina…

R:        Certamente mi sentivo esclusa dal fermento culturale che si respirava in casa mia, con mio padre che leggeva sempre, mia madre e mia sorella che facevano altrettanto, mentre io provavo soprattutto il bisogno di giocare e trovavo ascolto solo al piano inferiore, dove le zie accoglievano comprensive la mia fuga dal cenacolo di “letterati”. E quando sentivo il bisogno di leggere anch’io, quasi mi nascondevo, temendo di essere “scoperta”, specialmente se il libro era del mio papà inarrivabile.

 

D:        Non dev’essere stato facile per lei ritagliarsi il cantuccio per la sua ragnatela, per dirla con Pirandello, su cui lei ha scritto un interessante saggio. Come ha fatto poi a raggiungere la necessaria sicurezza di sé e dei suoi mezzi?

R:        È stato un cammino in salita…

 

D:        Se la sente di ripercorrere, a grandi tappe, questo suo cammino, a partire da quello scolastico? È vero che sua madre è stata anche la sua maestra?

R:        Sì, perché a Racalmuto c’era una sola sezione e così la mia maestra era mia madre. E fu un po’ la mia rovina. Infatti non sono stata una buona alunna, tant’è che alle superiori persi due anni: il primo per un inciampo, conseguente al mio scarso impegno protratto; il secondo perché rimasi a casa, senza frequentare, accogliendo con leggerezza la proposta di mio padre, che – all’apparenza – così mi assecondò: «Va bene, se non ti piace andare a scuola, resta a casa».                           

In realtà, c’era stato a monte un errore: poiché avevo un certo talento per la matematica, ero stata, infatti, iscritta a un istituto tecnico, ma alcune materie, come la stenografia e la dattilografia, mi risultavano sgradite, non mi ci applicavo volentieri. Era scontato, pertanto, un rendimento insoddisfacente. A quel punto era intervenuto mio padre con la sua proposta di starmene a casa e a me, sul momento, era sembrata una soluzione strepitosa. In quell’anno tuttavia lessi molti libri, a partire da Pirandello, e altri testi che mi suggerì lui.                                         

Mi resi conto con il tempo, tuttavia, che, non frequentando la scuola come i miei coetanei, ero in pratica tagliata fuori da tutto e che questa rinuncia agli studi mi stava isolando dal mondo. Dovetti, però, insistere non poco per tornare a scuola e seguire i più consoni studi magistrali: mio padre mi fece sudare questo consenso, come una concessione. Fu una lezione.

 

D:        Quali libri le suggerì?

R:        Madame Bovary, L’illusione di Federico De Roberto, i romanzi di Maupassant. Sceglieva libri declinati al femminile o che pensava potessero interessarmi: favoriva la nascita in me di un piacere per la lettura. Poi lessi anche, appunto in quel periodo, le Novelle per un anno di Pirandello, che mi appassionarono subito.

 

D:        E le consigliò di leggere anche poesie?

R:        Amava molto la poesia: prediligeva Il lamento per la morte di Ignacio Sanchez, di García Lorca, mentre io preferivo le sue poesie d’amore, che ascoltavo con lui dalla voce di Arnoldo Foà, in una serie di dischi, che in gran parte siamo riusciti a conservare. Non leggevo, dunque, poesie, ma le ascoltavo anch’io, insieme ai bei versi di Salvatore Di Giacomo, esaltati dalla recitazione di Eduardo De Filippo, e a tante altre opere poetiche, declamate anche da Vittorio Gassman.                   

La poesia mi è rimasta dentro, tant’è che ho trasmesso anche ai mei figli questa abitudine di trovare in essa conforto e io stessa ho mantenuto quella di ripetermi versi che amo, per lenire la criticità di qualche momento non bello. La poesia tocca davvero le corde più recondite dell’anima.

 

D:        Ha ragione. Direi che fu un periodo comunque proficuo.

R:        Penso proprio di sì, perché lessi molto e studiai anche la storia greca e romana. È probabile che da piccola mi facesse difetto la concentrazione, tant’è che alle medie ebbi un professore che monitorava spesso la mia capacità attentiva.

 

D:        A proposito, il rapporto di Sciascia con i docenti?

R:        Mi difendeva sempre. Una volta la mia insegnante di matematica aveva preso una decisione drastica nella valutazione assegnatami a un compito: poiché in questa materia ero bravina, avevo passato il compito a una compagna e la docente dimezzò il voto a entrambe, riducendo il 7 potenziale a un 3 e mezzo per ciascuna. Mio padre andò al colloquio e le disse che non poteva condividere la sua scelta punitiva di un atto di generosità: precisò di avermi inculcato lo spirito di solidarietà, perché è un valore importante. In effetti, entrambi i miei genitori, da insegnanti, avevano educato mia sorella e me non solo ad aiutare, ma anche a non accusare mai i compagni, anche se avevano commesso qualche mancanza per cui sarebbe stato giusto che fossero castigati. E io ora, a mia volta, do alle mie nipotine i medesimi insegnamenti: soccorrere gli altri in difficoltà, non accusare mai e nemmeno accusarsi tra di loro.

 

D:        I buoni insegnamenti restano immutati nel tempo. E una volta cambiato l’indirizzo di studi, come andò?

R:        Raggiunsi serenamente il traguardo, prima scolastico e poi universitario.

 

Non solo padre

 

D:        Bene. Fugate le incertezze, allora?

R:        Credo che, se sono riuscita a costruirmi una mia identità e soprattutto a trovare uno spazio mio, un equilibrio, lo debba al mio potentissimo antidoto: sono stata talmente orgogliosa di avere un padre così unico che tutto il resto è venuto sempre in subordine.

 

D:        Quanto l’ha sorretta la consapevolezza di essere amata per come era, in particolare da suo padre?

R:        Se da bambina non soffrii come avrei potuto per non essere al passo con gli elementi di famiglia più preparati di me, fu solo grazie alla tenerezza di mio padre, che mi faceva sentire speciale, senza mai farmi mancare le sue attenzioni e il suo affetto. A me sono state riservate altre forme di valorizzazione. E io stessa ho sempre cercato sintonie altre con mio padre.

 

D:        Per esempio?

R:        Mi viene in mente il giorno del mio matrimonio, quando vidi nei suoi occhi una luce che mi inorgoglì: capii che avevo indovinato tutto, perché era tutto esattamente come lui avrebbe voluto. Avevo, infatti, scelto una cerimonia semplice, indossavo un abito tutt’altro che sfarzoso, non un vero abito da sposa, un’acconciatura disinvolta e lui mi guardò compiaciuto. Mi porse il braccio al quale mi aggrappai col cuore traboccante di gioia e di fierezza.

 

D:        Siete rimasti sempre così vicini?

R:        Quando stava per morire, non voleva, per pudore, farsi vedere, ma io violai la sua consegna ed entrai nella stanza: gli abbracciai la testa, la tenni fra le mie mani. Lui mi sorrise.

 

D:        In ogni sua parola trapela un grande affetto. Immagino sia stato un trauma la sua morte prematura, anche forse per il suo ruolo di “ammortizzatore” di ipotetiche tensioni: in una casa piena di donne, è possibile che ce ne fossero, forse celate o comunque tenute a freno…

R:        La presenza di una persona così speciale in un ambiente tutto femminile, nel quale non potevano non esserci rivalità nascoste, faceva passare tutto in secondo piano: solo alla sua morte ho cominciato a riflettere e a pormi domande, ripercorrendo momenti del passato. Quello che è certo è che, dopo la sua morte, nessuno è stato più com’era prima. Me compresa di certo. Finché c’è stato lui, io sono rimasta una specie di eterna “bambina”, padre-dipendente: se avevo un problema, anche con i figli, ricorrevo a lui. Quando Fabrizio, il maggiore dei miei figli, entrò nella fase più critica dell’adolescenza, io mi rivolgevo a lui: papà mi invitava a lasciare qualche giorno da lui il ragazzo, che, stando accanto al nonno, risolveva i suoi piccoli problemi e tutti riacquistavamo la serenità. In breve, si sistemava ogni cosa. Andavo in vacanza con lui, chiedevo a lui consiglio per ogni difficoltà e non mi ponevo il problema di come potesse essere giudicato o interpretato questo mio comportamento, specie da mia sorella, che, invece, appariva autonoma e forte.

 

D:        Suo padre aveva, dunque, un rapporto diverso con voi figlie?

R:        Con Laura parlava spesso di Letteratura, le assegnava i libri più impegnativi e poi li commentavano insieme. Fu molto contento del suo percorso di studi classici e fu una gioia per tutti la sua laurea, la prima nella nostra famiglia. È stata lei la depositaria e “portatrice” del versante culturale, proseguendo inoltre per tutta la vita nel campo della storia medievale, campo che ha condiviso con suo marito, storico del medioevo.

 

D:        Tornando alla scomparsa prematura di suo padre, quel sisma che ha scosso dalle fondamenta casa Sciascia, vuole aggiungere qualcosa?

R:        Alla sua morte è crollato tutto il mondo e per me è venuto a mancare il punto di riferimento, il suo insindacabile giudizio che mi dava sicurezza. In realtà la sua perdita è stata molto sofferta anche da mio marito. Anzi, devo dire che ho spesso scherzato con lui, dicendogli che si era innamorato prima di mio padre che di me. Mio marito è un ingegnere, ma gravava lo stesso nell’orbita di mio padre: nutrendo interesse per la letteratura, si affidava a lui per avere consigli per le sue letture e amava conversare con lui. Agli inizi della sua carriera, mio marito lavorò presso l’Università di Catania, cosicché io, che avevo il primo figlio ancora piccolo, mi trasferii dai miei genitori: per favorire agli occhi del bambino la distinzione tra le due case, paterna e coniugale, le definivo rispettivamente la “casa grande” e la “casa piccola” e per Fabrizio era naturale questo continuo via-vai.

 

D:        Com’era il suo papà con i nipoti?

R:        Molto molto affettuoso, ma è stato tale non solo come nonno, bensì anche come padre e come marito. Come ho detto in precedenza, quando la mamma lavorava, papà cucinava e mai aveva da ridire con mia madre, per esempio, per una qualsiasi mancanza in casa, com’era costume dei mariti dell’epoca. Anche il cucinare per tutti era un atto d’amore.

 

D:        Persino in questo era molto avanti: non credo a quei tempi fosse usuale, specie nel profondo Sud, che un uomo si dedicasse ai fornelli, a un’attività cioè da disdegnare, riservata alle donne. E di donne in famiglia ne aveva al minimo tre.

R:        Devo aggiungere che noi avevamo assai spesso ospiti: quando ormai era famoso, capitava che i personaggi che venivano in Sicilia lo contattassero e papà non aveva remora alcuna ad invitarli a pranzo o a cena a casa nostra. Mia madre andava in crisi, perché c’era da improntare al volo un menu e lui, sornione, la rassicurava: «Maria, non ci trattiamo tanto male! Tratteremo i nostri ospiti come trattiamo noi stessi». E si metteva a cucinare.                                                            

Una volta successe un fatto curioso: arrivarono dei giornalisti da fuori e c’era uno sciopero dei macellai. Non si perse d’animo e preparò un pranzo a base di carne Simmenthal.

 

D:        Davvero pieno di risorse. Una garanzia in ogni circostanza. Mi pare di capire che fosse un generoso. Lo era anche nei regali? Gliene faceva?

R:        Tanti regali. Con tutto l’entourage femminile era assai generoso. Io conservo dei gioielli che mi ha donato lui, per esempio Lalique, e dei cucchiaini Liberty splendidi. Se vinceva un premio in danaro, lo spendeva per noi figlie, per mia madre e per la casa. Anche prima che diventasse celebre ed avessimo maggiori possibilità economiche, aveva l’abitudine di acquistare per Natale un grande pacco-dono, spesso con prodotti dolciari Alemagna: era questo il simbolo della festa che celebravamo insieme, uniti. Era munifico il mio papà e aveva fortemente sviluppato il gusto del bello. Mi viene in mente un episodio particolare.

 

D:        Ce lo racconti.

R:        Quando si laureò mia sorella, mio padre le regalò una elegante collana di perle, com’era d’uso all’epoca. Quando mi laureai io, capitò che attraversassimo un momento di congiuntura, perché si stava provvedendo alla ristrutturazione della casa della Noce e stava per celebrarsi il mio matrimonio, che comportò ulteriori spese. Insomma non ebbi lo stesso dono. Ogni tanto allora ritornavo in argomento: «Come vorrei una collana di perle! Devo assolutamente comprarmela». Un giorno, al compleanno del mio bambino, che nel frattempo era nato, il mio papà gli diede un regalo e poi tirò fuori dalla tasca un astuccio che consegnò a me, con un fare sornione, come per dire: «Così non ti lamenti più». Era una splendida collana di perle, quella collana che avevo tanto desiderato.

 

a cura di Rossana Cavaliere