Anna Maria Sciascia: “Leonardo Sciascia, mio padre” – II parte

La sezione “Sciascia e le donne” ospita, questa volta, la seconda parte dell’intervista rilasciata dalla figlia Anna Maria: i lettori vi troveranno interessanti informazioni sulla vita e sugli affetti dello scrittore, sulle sue frequentazioni, sulla genesi di alcuni romanzi e molto altro; il tutto inframmezzato da considerazioni condotte attraverso un punto di vista interno alla famiglia e da aneddoti che impreziosiscono la testimonianza, rendendola un documento unico.

Rossana Cavaliere 

 

È fatto divieto di riprodurre, anche parzialmente, la seguente intervista, che si è svolta il 16 gennaio 2019, senza citazione esplicita e dettagliata della fonte e senza espressa autorizzazione da parte della redazione del sito.

 

 

 

Le visite, il lavoro e gli argomenti di conversazione

 

D:        Si legge nelle biografie di Sciascia che alla casa della Noce c’era una sorta di pellegrinaggio estivo di personaggi famosi: quali sono i suoi ricordi in proposito?

R:        Quando ero piccola, c’erano sì tante visite, ma non tutti i visitatori erano già famosi, anche se non pochi lo divennero col tempo. Ricordo che venne a trovarlo Mario Dell’Arco, che ospitammo anche a dormire. Una volta, a Caltanissetta, venne Camilla Cederna: mi piacque subito, perché era molto garbata e dedicò del tempo anche a me. Le figure per me più significative, quelle che sono rimaste impresse nella memoria e nel cuore sono tre: il primo è lo scrittore sloveno Ciril Zlobec. Con lui e la sua famiglia per due anni consecutivi abbiamo passato buona parte delle vacanze estive e ne è nata un’amicizia forte e sincera. A lui, come a Sebastiano Addamo, devo quel poco di sicurezza necessaria per un’adolescente piena di problemi. Il primo mi faceva sentire ammirata mentre il secondo, che mi ha dato lezioni di filosofia per un periodo breve ma denso e per me emozionante, mi ha molto lusingato, segnalandomi ai genitori come persona da sorvegliare perché complicata. Il ricordo più poetico ed emozionante riguarda la prima visita di Vincenzo Consolo a Caltanissetta. Giovane ma già brizzolato e, poiché era luglio, abbronzato, timido e impacciato. Il suo sguardo limpido, di un candore infantile, sembrava cercare negli occhi degli altri un incoraggiamento, una conferma, un qualcosa di indefinito. Venne a pranzare a casa nostra, era il mio onomastico, mio padre comprò dei dolci e lui volle farmi un regalo: una tazza da tè con un piccolo vassoio pieno di cioccolatini, ma il modo in cui me lo ha dato e le parole che ha detto lo hanno reso speciale.

Gesualdo Bufalino, che era un habitué a casa nostra, era diventato una persona così di famiglia che, quando venne a mancare mio padre, i miei figli si rivolgevano a lui per qualche consiglio. Mio marito infatti ha immortalato i ragazzi che gli mostrano qualcosa e io conservo con piacere queste fotografie. Ecco, Bufalino era il classico professore. Ma anche Ferdinando Scianna era una presenza costante alla Noce. Veniva spesso anche Matteo Collura, amico di vecchia data. E papà ne era contento.

 

D:        Ne viene fuori un ritratto di una persona tutt’altro che chiusa o taciturna, come, a volte, è stato descritto.

R:        Papà era, invece, una persona socievole. La sua disponibilità era straordinaria: chiunque poteva parlare con lui. Non c’erano filtri di sorta. A Racalmuto o alla Noce, quando veniva qualcuno per incontrare papà, era accolto senza remore, anche se noi potevamo trovarci per casa uno sconosciuto all’improvviso. È chiaro che la privacy era compromessa: se volevi prendere il sole in giardino, dovevi poi scappare in fretta e furia se sentivi il rombo di un’auto che si avvicinava, perché era senz’altro una visita per papà. Oppure, se facevi la doccia, rischiavi di uscire in accappatoio e imbatterti in un estraneo. Non posso negare che agli inizi questo continuo via-vai mi divertiva, mentre, a lungo andare, ne colsi anche gli aspetti un po’ fastidiosi.   

 

D:        D’altra parte la notorietà ha sempre un risvolto della medaglia. E suo padre come la prendeva?

R:        Mio padre ci scherzava sopra e diceva che gli sarebbe piaciuto vivere come un impiegato del catasto. Dunque noi avremmo dovuto essere come le figlie di un impiegato del catasto, ma non era per niente così. In realtà abbiamo vissuto una vita diversa, a cui abbiamo dovuto abituarci. E non è stato facile: a volte avevamo l’impressione che la nostra famiglia, con un padre così, fosse anomala. Mi è capitato di sentirmi varie volte a disagio, come disorientata, forse perché incapace di omologarmi o forse di trovare nelle altre persone trascorsi comuni. Malgrado ciò, sono convinta fermamente che la cosa più bella della mia vita sia stata nascere figlia di un padre tanto speciale, che ha dato non solo un’impronta alla mia famiglia d’origine, ma anche a quella che mi sono creata poi, ai miei figli in particolare.

 

D:        Con voi figlie parlava del suo lavoro?

R:        Di sicuro ne parlava moltissimo con mia madre, che era inoltre la sua prima lettrice e correttrice delle sue bozze. La sua apertura con noi, comunque, dipendeva fondamentalmente dai libri che stava scrivendo: per esempio, la Recitazione della controversia liparitana è stato un lavoro del quale mio padre ha parlato tanto, perché la vicenda lo aveva profondamente colpito. Ne aveva prima scritto un articolo, Una rosa per Matteo Lo Vecchio, che poi ha sviluppato. Questo dramma in quattro atti ha finito con il costituire il mio libro preferito, forse proprio perché ho partecipato di più alla sua gestazione e perché vi riconosco tutto il cristianesimo di mio padre. Sì, perché mio padre era naturalmente, “costituzionalmente”, intimamente cristiano: amando e rispettando il prossimo come se stesso e perfino di più, dimostrava il suo cristianesimo, la sua spiritualità, che io spero di aver ereditato. Lo aveva dedicato a Dubček, in quanto coglieva analogie tra le due vicende.

 

D:        E cosa ricorda di quanto accadeva in casa in occasione della stesura di altri libri, magari di quelli più famosi come Il giorno della civetta, che lo proiettò d’un colpo nel Gotha della letteratura? Che cosa si diceva in famiglia?

R:        Ricordo una grande emozione. Io sapevo che papà scriveva, lo sapevo da quando ero piccola: entravo nella stanza e lui era intento a battere a macchina. Mi avvicinavo a lui ugualmente, non essendo ancora consapevole che aveva bisogno di concentrazione, ma lui non si infastidiva: si limitava a sfilare il foglio dal rullo e mi prestava attenzione, con pazienza. Per un certo tempo non mi resi conto di quale fosse la risonanza dei suoi scritti, di quanto cioè stesse diventando sempre più noto nel panorama letterario – e non solo –, ma toccai con mano tutto questo quando lo Stabile di Catania decise di portare sulla scena il testo de Il giorno della civetta. La cosa mi entusiasmò. In verità per tutta la famiglia fu un avvenimento: partimmo da Caltanissetta con un gruppo di parenti e amici, mia zia, mia cugina; comprammo dei vestiti eleganti come per un matrimonio; io bevvi il mio primo bitter! Quando mio padre fu chiamato sul palco, scomparve per qualche minuto dal teatro. L’accuratissima preparazione, il viaggio a Catania, lo spettacolo, la percezione concreta della considerazione in cui era tenuto mio padre, il calore del pubblico che lo acclamava… vissi tutto con un’emozione grandissima, che ho ancora ben impressa nella memoria e che si rinnova ogni volta che il pensiero torna indietro nel tempo.              
          Per Il Consiglio d’Egitto successe, invece, un fatto curioso: mia madre sognò papà che in abiti settecenteschi veniva condannato a morte! Si svegliò di soprassalto, spaventatissima, ma in casa si sorrise di quell’incubo.

 

D:        La vicenda del Vella, ma soprattutto del Di Blasi deve averla suggestionata… E poi, in merito ad altri libri?

R:        Ad A ciascuno il suo associo soprattutto le lunghe passeggiate pomeridiane di papà, nelle quali credo andasse mettendo a punto meticolosamente il perfetto congegno narrativo. 
            Non ricordo se ci abbia anticipato altre trame dei suoi libri, ma comunque era stringato nel narrare, sebbene efficace come pochi.

 

D:        So che si tratta di una domanda delicata e, in parte, posso immaginare la risposta: c’erano argomenti tabù in casa Sciascia?

R:        In casa nostra non si parlava mai del dramma della morte di mio zio. Mia cugina, fino a una certa età, non aveva saputo quale fosse stata la modalità della fine di nostro zio: mia nonna sorvolava, sua madre sorvolava. Nemmeno mio padre ne parlava mai. Io avevo afferrato qualche notizia dalle zie che, qualche volta, ne facevano sommessamente cenno e avevo avuto conferma della terribile sventura che si era abbattuta sulla famiglia dal pianto reiterato di mia nonna, che, se aveva un momento di gioia o se cedeva al riso, si colpevolizzava, accusandosi: «Che cos’ho da ridere io?». La nostra era una casa triste per i lutti. Forse anche per non crearci motivi di afflizione, di alcuni argomenti non gradevoli mio padre preferiva non parlare: se qualcuno gli faceva del male, se subiva un torto, non ce ne faceva partecipi. La sua reazione era “cancellare” quella persona. E questo per noi era il segnale della sofferenza che gli era stata inflitta. Cercava di preservare noi figlie da ogni dispiacere: essere molto protettivo era un altro modo per volerci bene. Pensi che il primo morto che ho visto è stato appunto lui; non avevo visto nemmeno la nonna.

 

D.        Era dunque una persona forte suo padre?

R:        Avrà avuto di certo le sue fragilità, ma sapeva nasconderle dietro una sorta di corazza. Non manifestava le sue debolezze: l’impressione che dava era di essere sempre pronto ad affrontare le battaglie della vita. Sebbene fosse di corporatura snella, appariva energico e in qualche modo se la cavava sempre: quando doveva prendere il treno da Racalmuto a Caltanissetta, per esempio, doveva quasi lottare per riuscire a salire, perché era una specie di… assalto al treno. Ma lui ce la faceva sempre. Era il mio “eroe” e ho vissuto come un’ingiustizia la sua morte prematura.

 

Affetti e conoscenze

 

D.        Ci racconti qualche particolare del suo rapporto con le famose zie, che tanto hanno influito nella sua formazione.

R:       Mio padre le chiamava per nome, senza specificarne l’appellativo: per lui erano familiarmente «Angela, Nica e Marietta». Con loro era vissuto a lungo, negli anni particolarmente formativi dell’esistenza, per cui era loro molto legato, mentre aveva poca confidenza con sua madre. D’altra parte era cresciuto presso le zie e non con lei.

 

D:        Ha risentito di questo distacco, a suo avviso?

R:        Se aveva qualche conflittualità interna, sapeva contenerla bene. Comunque il Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia contiene alcuni aspetti autobiografici.

 

D:        Torniamo alle zie.

R:        Angela, la maggiore, era la contabile di casa: con lei aveva un rapporto particolare, forse perché coniugava uno spirito pratico con una grandissima sensibilità, ma anche per le sue idee, per la sua predilezione per Matteotti, di cui da piccolo aveva intravisto il ritratto nel suo cestino da lavoro, accanto a rocchetti, aghi e bottoni (ndr. ne troviamo traccia ne Le Parrocchie di Regalpetra, ma ne tratta espressamente Antonio Motta, nella sua conversazione con Stefano Vilardo). Lo seguì a Caltanissetta, quando mio padre riprese il suo posto in famiglia per poter studiare. Nica si occupava della cucina: forse aveva ereditato talento e ricette anche dalla mia bisnonna Anna, la quale si era fatta suggerire le istruzioni per piatti particolarmente gustosi dal cuoco dei Matrona, la più importante famiglia della città. Evidentemente Nica trasmise a sua volta a papà queste doti culinarie, che lui mise in pratica poi per noi, per il resto della vita. Marietta invece era la più colta: faceva la maestra e lo spronava nello studio, offrendo continui stimoli al suo spirito speculativo. Mio padre, infatti, divorò i libri della sua biblioteca e diede libero sfogo a quella sua vocazione di lettore onnivoro, approfittando dei testi disparati che vi trovava. Il marito della zia Marietta, amante dell’opera e dell’operetta, dal canto suo contribuì in qualche modo a offrirgli un altro incentivo culturale, anche se mio padre preferì il teatro e soprattutto il cinema, di cui divenne appassionato. Aveva inoltre una zia materna, zia Fofa, che lo amava e ammirava. Ma le zie Angela, Nica e Marietta hanno avuto una parte significativa anche nell’educazione mia e di mia sorella Laura.

 

D.        Annamaria, ho l’impressione che da questa intervista venga fuori un ritratto leggermente agiografico del suo, pur straordinario, papà. Ma non aveva qualche difetto? Anche se suo malgrado, puoi riferircene qualcuno?

R:        Sì, qualcuno gliene riconoscevo anch’io. Per esempio, per restare nell’ambito della cucina, aveva l’abitudine di interferire. Perfino nel taglio dei peperoni, per esempio, se ero io intenta a prepararli, non mi risparmiava che non stavo conducendo l’operazione come, secondo lui, andava effettuata e puntualmente interveniva a correggermi. Da parte mia, un po’ piccata e un po’ perché tendevo a cedergli subito lo scettro: “Vuoi continuare tu?» - gli proponevo. Era un perfezionista.                              
           Oppure, mi sovviene la sua reazione tipica quando mi trattenevo al telefono troppo a lungo, specie da adolescente. Lui sentenziava sistematicamente: «Il telefono è un mezzo di comunicazione: stringi!». E una volta, quando ero ancora ragazza e aveva chiamato colui che sarebbe poi diventato mio marito, chiedendo di me, lui rispose che non c’ero, mentre ero in casa. Ecco, questa era una forma di gelosia, gelosia affettuosa di padre.  

 

D:        Tende comunque a “giustificare” ogni suo comportamento.

R:        Gli avrei perdonato tutto.

 

D:        Capisco. E credo proprio che avrei fatto altrettanto. Anche Laura si comportava come lei?

R:        Mia sorella non ha mai dissentito su nulla, nel mio ricordo. Credo di essere stata più io, qualche volta, a obiettare su qualcosa. Avevamo sfere diverse: la mia, come ho cercato di spiegare, era più incentrata, per così dire, sulla “casalinghitudine”, mentre quella di Laura sull’intellettualità, anche se, soprattutto alla sua morte, è stato chiaro che non erano sfere nettamente separate. Io ho vissuto una vita da impiegata presso l’Università di Palermo, mentre mia sorella, come ho detto, ha avuto una carriera accademica. Solo in un secondo momento io sono riuscita a ritagliarmi una mia autonomia di ricerca, sebbene niente sia stato facile: riuscire a scrivere qualcosa, uscire dal ruolo di cenerentola a casa e all’Università è stata impresa ardua. Quando il mio lavoro su Antonietta e Lietta Pirandello è stato pubblicato sulla rivista letteraria “Nuovi argomenti”, sono stata veramente felice.

 

D:        Riflettevo su quanto debba essere stato complicato per suo padre relazionarsi con tante donne diverse e cercare di stabilire rapporti speciali con ognuna di quelle che contavano per lui. Mi sbaglio?

R:        Credo che sia stato piuttosto complesso gestire tanti rapporti.                                                         
            La fama poi è come il miele: attira. E le donne arrivavano da tutte le parti: donne giornaliste a intervistarlo, per esempio, o ammiratrici della sua scrittura. Ricordo che, quando già abitavamo a Palermo e la mamma ancora lavorava, rimanevamo a casa lui ed io e capitava varie volte che si presentassero giornaliste o scrittrici o donne comunque conosciute a intervistarlo o a conversare con lui, con motivazioni varie. Papà era molto serio, non dava spago. Io, però, ero gelosa e mi vestivo con abiti eleganti per aggirarmi nei pressi e “tenere la situazione sotto controllo”. Devo ammettere che sono stata un po’ possessiva.

 

D:        Non dev’essere stato agevole per sua madre avere un marito così ambito.

R:        Credo anch’io. Anche se tutte le doti di mio padre compensavano la difficoltà del vivere accanto ad un uomo tanto affasciante e adorabile.

 

La porta della verità

 

D:        Non c’è da dubitarne. La notorietà tuttavia ha dentro di sé il germe del pericolo: c’è sempre qualcuno che si sente infastidito, “offeso” dall’altrui successo. Se poi pensiamo che suo padre ha avuto anche il coraggio di rivelare la mafia, con i suoi intrighi e i suoi addentellati prima misconosciuti o negati, di esprimere sempre e comunque le proprie opinioni, è facile ipotizzare contraccolpi…

R:        La cosa che più mi indigna è che, a distanza di ben trent’anni dalla morte, ancora gli arrivino accuse per il famoso articolo sui professionisti dell’antimafia. Quanta malafede, quanta ostilità, quante cattiverie! Soffro nel ricordare le frasi ingiuriose che gli sono piovute addosso: sul “Giornale di Sicilia” si lesse che Sciascia «doveva stare ai margini della società», che era «un quaquaraquà»! Lui, uomo dalla vita esemplare, si è trovato a doversi difendere da insinuazioni infamanti, da attacchi violenti e screditanti. Il suo pensiero è stato travisato. Temo che da parte di qualcuno in particolare ci sia stata un’orchestrazione per metterlo in cattiva luce.

 

D:        Effettivamente di tanto in tanto riaffiorano echi di quel clamore, di quell’enfasi risentita, ma a mio avviso niente può giustificare i giudizi offensivi che riferisce.

R:        Mio padre diceva: «Se ti avvicini alla porta della verità e tocchi il picchio per bussare, ti metti in difficoltà». Lui aveva il dono del vedere in anticipo. Quando, da giovane, partecipò al concorso magistrale ad Agrigento, indovinò gli argomenti delle prove. Nella vicenda Moro penò molto: seguiva i comunicati con grande partecipazione e capiva che troppe cose non stavano andando come avrebbero dovuto. Criticò molto quella seduta spiritica a cui partecipò anche Prodi, da cui pare fosse venuto fuori il nome di Gradoli. Tanti momenti di quell’indagine effettivamente suscitano tuttora perplessità. Mio padre soffrì profondamente anche dopo la pubblicazione dell’Affaire Moro, il libro in cui aveva espresso la sua tesi controcorrente. Ma Maria Fida Moro venne a trovarlo a Racalmuto: era una persona gentile e spontanea. Mio padre le disse che si identificava in suo padre, nel suo ruolo di nonno, perché anche Moro era stato molto preso dal nipotino e, sebbene come politico apparisse grave in ogni suo comportamento o atteggiamento, come nonno sdilinquiva per il bimbo e con lui si inteneriva.

 

D:        Certo si è trattato di una vicenda tuttora inquietante, che è rimasta impressa indelebilmente nell’animo di noi Italiani. La ripercorre, facendola rivivere, anche il bel libro di Marco Damilano, Un atomo di verità. Il giornalista ha cura di ricordare, tra l’altro, come Sciascia abbia fatto sentire la sua voce dissonante rispetto alla vulgata, in un momento storico di collettivo sgomento. Lo ha letto?

R:        Ho appena finito di leggerlo e mi dispiace di non averlo potuto incontrare per mostrargli lo studio. Ha scritto nel suo libro che il cancello era aperto e che quindi in quella casa c’era sicuramente qualcuno.

 
D:        Tornando alla vicenda Moro, vuole aggiungere altro?
R:        Soltanto che mio padre, saggiamente, ebbe modo di dirmi: «Moro è stato un uomo potente, ma la sua famiglia non ne ha affatto beneficiato». Un uomo perbene.



D:        Per associazione di idee, mi viene da pensare a un altro personaggio dalle vicende difficili, che ebbe però il conforto della solidarietà aperta e – come sempre – coraggiosa di suo padre: Enzo Tortora. Quali sono i suoi ricordi in proposito?
R:        Tortora lo conobbi di persona. A Caltanissetta si svolgeva il cosiddetto “settembre nisseno”, con tante manifestazioni e spettacoli. Tortora era già un conduttore di una certa notorietà (ndr. nel ‘56 si era messo in luce con Primo applauso, con Silvana Pampanini; già dall’anno successivo era passato alla conduzione in RAI di Telematch e di Voci e volti della fortuna, programma abbinato alla Lotteria Italia) e venne in Sicilia. Nel ‘57/‘58 aveva indirizzato una lettera a mio padre. Io desideravo incontrarlo e farmi dare un autografo: lui mi accolse cordialmente e mi dedicò questa frase: «Ad Annamaria Sciascia. Un ammiratore del suo papà».

 

 
D:        Che soddisfazione per lei, ancora tanto giovane, oltre che fan sfegatata di suo padre! È davvero interessante ripercorrere momenti della vita di suo padre attraverso un punto di vista interno alla famiglia, in una prospettiva intimista, che solo una figlia può dare.
             Poi però arrivò il macroscopico errore giudiziario che portò Tortora in carcere, tradottovi in manette, con una platealità dal gusto un po’ perverso del tutto fuori luogo. E suo padre usò la sua penna e il suo carisma per difenderlo e scrisse che non poteva aver commesso i reati che gli imputavano, perché lui lo aveva conosciuto: era una persona perbene.

R:        Proprio così. Eravamo in campagna quando arrivò un telegramma di Enzo Tortora per mio padre: «Non ho mai disonorato la sua stima».



D:        Bastavano poche parole tra gentiluomini. Oggi potrebbe succedere qualcosa di analogo?

R:        Ho l’impressione che oggi gli intellettuali siano meno coraggiosi.



D:        A proposito di intellettuali, è d’obbligo menzionare Pasolini, che – è noto – suo padre conobbe e con il quale ebbe rapporti di stima reciproca.

R:        Per quanto riguarda Pasolini ricordo il pianto a cui mio padre insolitamente si lasciò andare alla notizia della sua morte. Fu una giornata tremenda.

 

Parigi è sempre Parigi

 

D:        Vorrei concludere questa intervista con un racconto speciale: qualcosa che le è capitato in quanto figlia di Sciascia, che non avrebbe vissuto se non lo fosse stata. Non so, un’esperienza bella che ama ricordare.

R:        Be’, mi viene subito in mente Parigi, il nostro soggiorno lungo un mese intero nella capitale francese, a casa dello scrittore e critico Dominique Fernandez. Si erano incontrati varie volte in Sicilia, negli anni ‘64/‘65, e ne era nato un bel legame. Fernandez non aveva soggiornato presso di noi, ma mise ugualmente a disposizione della nostra famiglia le chiavi della sua casa in rue de Bourgogne. Una casa fantastica, così come fu fantastica tutta la nostra permanenza. Madame Fernandez (ndr. La scrittrice Diane Jacquin de Margerie), la padrona di casa, aveva improntato ogni cosa al suo gusto raffinato: c’erano eleganti carrelli portavivande, un’apparecchiatura impeccabile, un arredo originale. Inutile dire che, tornati in Sicilia, mia madre volle acquistare un carrello portavivande mentre noi figlie facemmo tesoro di quel soggiorno formativo, di quella sorta di apprendistato sul campo su come si arredi una casa, su come si debba comportare una perfetta padrona di casa. E la cosa incredibile fu che madame risultò molto presente, sebbene assente. Non la conoscemmo di persona, infatti, ma la casa parlava di lei e tutto si svolse secondo le sue direttive: aveva lasciato scritto ogni dettaglio alla cameriera spagnola, Consuelo, che seppe accontentarci in ogni possibile esigenza. Imparammo a preparare le insalate di riso e a decorarle. Il 14 luglio fu poi una festa indimenticabile: i fuochi pirotecnici furono il degno coronamento di una giornata speciale. Conobbi anche Fusco, che poi tradusse i libri di mio padre e che in quei giorni veniva a prenderci di sera, con la sua prima moglie, per farci girare la città e scoprire anche angoli meno scontati, fuori dai circuiti turistici collaudati. A me sembrava tutto magico…



D:        Grazie, Annamaria, per questa sua preziosa testimonianza. Attraverso le sue parole ho vissuto anch’io qualche esperienza insieme con il suo grande papà e spero che la stessa illusione possano provarla anche i nostri lettori. Ammiro la sua spontaneità, la sua sincerità e la sua dolce forza.

R:        Ho vissuto una vita piena di emozioni accanto ad un padre straordinario, abbagliata dalla sua luce.

 

a cura di Rossana Cavaliere