Sciascia, le donne e la scrittura: la vedova Nicolosi

 

La descrizione esteriore

Il primo personaggio femminile dell’universo letterario sciasciano di cui tratterò in questa rubrica è quello della giovane vedova Nicolosi, che il lettore incontra già nelle prime pagine de Il giorno della civetta (1961):

una figura minore, di cui non viene rivelato nemmeno il nome di battesimo, eppure, a un’attenta rilettura, non priva di spunti interessanti, sebbene nel corso del romanzo compaia solo nei pochi momenti in cui è funzionale allo svolgimento delle indagini del capitano Bellodi. È la moglie di un potatore venuto da fuori (un paesino non lontano dal luogo in cui avviene il primo delitto, su cui si incardina la vicenda), il quale – come il lettore scoprirà a breve, ma già subodora dai primi indizi che il narratore gli elargisce – è stato tolto di mezzo perché sa troppo: sfortunatamente si è, infatti, trovato per caso, alle sei e mezzo del mattino, lungo via Cavour, dove abitava, a incrociare – e riconoscere – l’assassino in fuga dopo l’esecuzione di Colasberna, l’imprenditore edile che si era rifiutato di sottostare alla “guardianìa” imposta dalla cosca mafiosa.
A tre giorni dalla scomparsa del Nicolosi, la sua giovane sposa si reca dai carabinieri a chiedere aiuto allo scettico maresciallo, denunciando l’inspiegabile comportamento del marito, che, sebbene fedele e innamorato, non sta facendo ritorno a casa sua né le ha fatto pervenire sue notizie. È a questo punto, mentre attende di essere ascoltata, che ci viene presentata dal narratore, generalmente avaro di dettagli, con una descrizione fisica in cui le viene riservato perfino un lusinghiero aggettivo: «Era bellina, la vedova: castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso». Non una bellezza prorompente e sensuale, dunque, come quella di Luisa Roscio, la vedova di A ciascuno il suo che tante vittime mieterà (e non è solo una metafora) nel successivo poliziesco di mafia, bensì una bellezza non appariscente ma manzonianamente “modesta” (il diminutivo è illuminante), che va ricercata nella finezza dei lineamenti, in quel colore degli occhi, profondamente nero come un abisso in cui perdersi, sul modello di tante figure femminili letterarie, specialmente verghiane.
Una bellezza, pertanto, così delicata che perfino il capitano Bellodi, allenato per mestiere ad avvalersi dello sguardo per investigare e conoscere, non nota al primo incontro, ma che non sfuggirà al regista Damiani, che, nella sua trasposizione cinematografica, assegnerà il ruolo a una Claudia Cardinale nel suo massimo fulgore, forse anche per quelle celebri fossette che eleveranno di potenza il guizzo leggero lampeggiante nel sorriso del personaggio: quel pizzico di malizia, che Sciascia le conferisce, infatti, la affranca dal cliché di anonima brava ragazza di paese e la rende meno scontata e più intrigante.
E il cinema le renderà giustizia.

 

Il contesto

Siamo nella sala d’attesa della stazione dei carabinieri di S. (il vezzo mutuato da I promessi sposi di non svelare i luoghi) e, per condurre accurate indagini sul caso Colasberna, vi è appena arrivato il capitano che viene dal Nord, quel Bellodi che si troverà a dividere la scena col boss deuteragonista, don Mariano: entrambi “uomini” degni di questo nome, secondo il reciproco giudizio etichettante (e ogni lettore ricorda bene quanto si pentirà l’integerrimo uomo di legge di esserselo lasciato sfuggire).
Seduti un po’ distante dalla giovane donna, brucianti di vergogna per il fatto di trovarsi dai carabinieri, ci sono i due fratelli Colasberna e gli altri soci della Santa Fara, convocati anch’essi dal maresciallo: conoscono di vista la ragazza, ma hanno, come succede nei piccoli centri, svariate informazioni anagrafiche su di lei, in quanto sanno con chi è sposata, da quanto tempo, conoscono la provenienza del consorte e hanno perfino un’idea approssimativa della sua “condizione patrimoniale”, visto che il marito potatore è considerato quasi benestante, sia pure rispetto alla povertà circostante. Sbagliano solo l’ipotesi del suo trovarsi là, perché presumono si tratti di un qualche litigio coniugale, visto il suo stato di agitazione: la ragazza muove in modo compulsivo le mani, così da far «venire il nervoso» ed è seduta sul bordo della sedia, come per spiccare un salto e fuggire via da un momento all’altro.
La giovane donna compare, dunque, in uno specifico contesto declinato al maschile, sebbene ci sia da rimarcare che tutto il romanzo, in verità, è imperniato, oltre che sui due più importanti già citati, su una pletora di personaggi maschili, molti dei quali senza volto e senza nome, identificabili tuttavia almeno nel ruolo svolto nella società e nella vicenda, durante le sequenze costruite con tecniche mutuate dal montaggio cinematografico: è anche per questo che le rare apparizioni della graziosa vedova – trait d’union, suo malgrado, tra i due delitti iniziali della vicenda – suscitano maggiore curiosità.

 

Carattere e comportamento

Questo primo contatto, tuttavia, risulta rapido, fuggevole, in quanto il capitano ha fretta di tornare alla sua base operativa e perciò la fa sbrigativamente congedare. Il loro incontro è solo differito, però, in quanto la giovane donna tornerà alla stazione dei carabinieri di S. dopo cinque giorni dalla scomparsa del marito, quando già le indagini fervono e il biondo detective ha potuto escludere che il potatore Paolo Nicolosi sia un pregiudicato, abbia carichi pendenti con la giustizia o condanne, e sempre più si è convinto che la sua sola colpa sia l’aver visto qualcosa, o meglio qualcuno, che non avrebbe dovuto vedere. Il capitano non mette in conto tra le sue ipotesi investigative che la moglie possa avere un ruolo nella vicenda, non si avvale cioè della «grande risorsa», così egregiamente simboleggiata da «cumpari Turiddu», dell’omicidio passionale, sul quale Sciascia ironizza, delegando allo scopo il narratore del romanzo a esprimere il suo caustico pensiero.
La ragazza «non [è] timida» e già questo suona un po’ anomalo, sia per la giovane età che per il fatto di essere da sola in un consesso di uomini, e appare piuttosto intelligente: si destreggia abbastanza bene nel rispondere alle domande, ma è riluttante a dare informazioni che teme compromettenti. Racconta della «delicatezza» che il marito aveva nei suoi riguardi nel cercare di non far rumore per non svegliarla, quando si recava al lavoro assai presto, e di quella che aveva avuto proprio la mattina della scomparsa, quando era tornato indietro a prendere le sigarette e, mortificato per aver involontariamente «fatto cadere il piccolo Sacrocuore d’argento», le aveva chiesto se erano stati i due colpi esplosi nelle vicinanze a svegliarla o il rumore dell’oggetto.
Il secondo fatto anomalo è che parla del consorte al passato: il suo sesto senso, acuito dall’essere donna, siciliana e in una situazione di preallarme, le fa presagire che un uomo così premuroso non sarebbe rimasto lontano da casa senza avvisare per così tanti giorni, se fosse stato in piena coscienza.
Se la cava anche con la lingua: parla sì in dialetto, ma non è stretto, bensì «comprensibile… e qualche volta [riesce] a trovare la parola italiana, o con una frase in dialetto [spiega] il termine dialettale».
Quando Bellodi parla, con la sua maniera suadente e la sua pronuncia dolce da emiliano, sciorinando riferimenti letterari e filologici, non capisce molto (e nemmeno il maresciallo in verità), ma si sente sedotta dal fascino della lingua, perché «certe cose che la mente non intende, il cuore le intende; e nel loro cuore di siciliani le parole del capitano musicalmente stormivano».
La giovane inoltre si muove con certa grazia, che non può derivarle dall’educazione ricevuta, ma che è evidentemente una dote innata: quando arriva il caffè offerto dal capitano «la donna lo pre[nde] a piccoli sorsi, con una certa eleganza, per essere la moglie di un potatore».
Malgrado le positive premesse, tuttavia, la vedova tradisce la sua scarsa fiducia nello Stato e negli inquirenti, perché, trincerandosi dietro la dimenticanza, non vuole proferire il nome, anzi il soprannome («la ‘ngiuria») che il marito le ha rivelato, quando lei, essendosi ormai svegliata e seduta in mezzo al letto, gli aveva chiesto cosa fosse accaduto e lui aveva appunto pronunciato il soprannome dell’uomo che aveva visto passare di corsa lungo la via Cavour. Il capitano la incalza a suo modo, cercando di circuirla con le parole, con la gentilezza dei modi, dopo tuttavia aver avuto l’istinto di alzarsi e protendersi sulla scrivania verso di lei, spaventandola così tanto da far sì che «uno sgomento improvviso [sconvolgesse] i lineamenti di lei, [facendola] per un momento brutta», con una contrazione passeggera. Ma ancora non cede, più tetragona, quindi, di Parrinieddu, il confidente dei carabinieri, che, viceversa, messo sotto l’insolito torchio del garbo di Bellodi, si era lasciato andare a «cantare come un’allodola», proprio perché ammaliato dai modi del capitano, che ne aveva sgretolato le resistenze con l’arma micidiale della gentilezza.
La ragazza capitolerà, invece, di fronte alla minaccia fisica del maresciallo, che, stanco delle strategie inefficaci del suo superiore, decide di risolvere a modo suo e «violentemente» si protende verso di lei con lo sguardo cattivo che appena trapela dagli «occhi che tra le palpebre parevano diventati due acquose fessure». E così accade che la ragazza «precipitosamente, come se il nome le fosse venuto con un singulto improvviso, [rivela]: Zicchinetta». Questa confessione, sebbene preziosa per le indagini, provocherà un profondo scoramento nel povero capitano che si rende conto che la giovane ha rivelato il nome «solo nel momento in cui il maresciallo era diventato, agli occhi della donna, spaventosa minaccia di inquisizione, di arbitrio», proprio quell’arbitrio che lui vorrebbe combattere.

 

La novità del personaggio

C’è una striscia di luce che penetra dall’esterno e viene a battere proprio tra il capitano e la giovane a separarli simbolicamente con una distanza irreale, vissuta dalla giovane come un incubo concreto. Il maresciallo si allontana per raccogliere informazioni sul presunto assassino di Colasberna, ora che è riuscito a estorcerle il nome, e i due rimangono soli. Il capitano, sebbene deluso, riprende il suo abituale modus operandi: parla dolcemente e le chiede come fosse suo marito, come e dove si fossero conosciuti e chi potesse avercela con lui. Anche lui parla al passato. La donna, ancora in uno stato di malcelata apprensione, risponde che era un buon uomo, benvoluto da tutti e che la loro vita scorreva tranquilla. Si erano conosciuti, o, meglio, Paolo l’aveva notata a un matrimonio di un parente e subito si era innamorato di lei e l’aveva scelta come sposa: tempo pochi giorni e il parente, rientrato dal viaggio di nozze, era stato mandato come ambasciatore presso suo padre, perché la chiedesse in moglie.
Dal racconto che fa di sé, del suo fidanzamento e del matrimonio emerge dunque una serie di indizi, affidati all’inferenza del lettore: la vedova Nicolosi non è una figura perfettamente ricalcata sullo stereotipo della ragazza siciliana del secolo scorso, remissiva e acquiescente, perché non è priva di qualche vaga volontà di emancipazione, che la sceneggiatura di Pirro e di Damiani eleverà di potenza. Sebbene suo padre le avesse fatto chiaramente intendere il suo proposito di maritarla a questo «buon giovane [che] ha un mestiere d’oro», lei rivendica il suo diritto a dare o meno il consenso alle nozze, che la legheranno per sempre a un uomo di cui non può immaginare neppure il volto: vuole incontrare il futuro consorte, vedere «che faccia ha, che voglio prima conoscerlo». Si persuade poi a sposarlo perché è lusingata dai suoi sguardi protratti «come fosse in incantamento», intuendo il potere che la sua bellezza esercita su di lui («affatturato» lo definisce il parente pronubo).
Eppure colpisce la contraddizione successiva, che sembra suggerire la risposta che dà alla domanda del capitano riguardo ai suoi sentimenti verso il marito: «– E gli voleva bene? – Certo: eravamo sposati». In quanto moglie, avverte l’obbligo di amare il marito, indipendentemente dai suoi meriti o dai propri reali sentimenti, così come aveva scritto Giuseppe Pitrè nel suo testo La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano, in cui si legge che la madre ha sì una sorta di delega da parte del marito per il governo della casa e della prole, ma a questi deve obbedienza e amore, «anche quando non lo meriti».
Dunque, anche la giovane vedova Nicolosi, che pure sembrava meno arrendevole nell’accettazione del ruolo di subalternità verso l’uomo (padre, marito, fratello), ha interiorizzato il vecchio modello femminile ancora vigente, le consuetudini e la morale dominante e la sua dichiarazione ne è il suggello, come se dal vincolo nuziale discendesse automaticamente l’amore, o piuttosto come se non fosse lecito neppure concepire che così non fosse.
O forse ammetterlo.

Rossana Cavaliere