Sciascia, le donne e la scrittura. Intervista a Dacia Maraini

Il mondo di Sciascia, quello letterario intendo, è popolato soprattutto da figure maschili, mentre quelle femminili non brillano quasi mai per virtù; tutt’altro: magari sono mantidi falsamente religiose, o madri gelose e soffocanti, o figurine sbiadite, poco interessanti, specie se l’osservazione del lettore si è fermata in superficie. Il suo mondo vero era, viceversa, popolato da donne, a partire dalle famose zie, presso le quali era la realtà esterna a essere riversata, con grande beneficio per l’acuto intelletto del ragazzo, che introiettava maestrie affabulatorie, constatando come da un nucleo di eventi si arrivasse a una narrazione più o meno avvincente in base alle qualità e abilità retoriche di chi raccontava.

Tempo fa mi capitò tra le mani una vecchia intervista a un celebre giornalista, Gaetano Afeltra, a lungo firma prestigiosa del Corriere, e mi scattò involontaria un’associazione di idee con Sciascia: alla domanda su come avesse imparato a scrivere così efficacemente la cronaca, costui simpaticamente dipingeva uno dei suoi vivaci quadretti familiari. Spiegava infatti di essere debitore alle donne di famiglia e alle vicine di casa, per lo più casalinghe, che, affacciatesi repentinamente non appena voci alterate provenienti dallo slargo a piano terra avevano destato la loro curiosità, si “trasmettevano informazioni”, con icastica essenzialità, da un balcone all’altro delle abitazioni della parte vecchia di Amalfi, suo incomparabile paese natìo. E così, sia che l’accaduto si svolgesse “in diretta” (l’hic et nunc dei padri latini) nella piazzetta sottostante, sia che le voci alterate riportassero fatti svoltisi altrove, concitatamente raccontati, le donne venivano, spesso in tempo reale, a conoscenza della “cronaca”: «Che è successo?... Chi è stato?... Dov’è stato?... Quando?… E come mai?». La notizia era in un attimo confezionata: concisa, diretta, inequivocabile. Praticamente, in nuce, le regole delle cinque W!
Ebbene, anche il Nostro, dunque, era debitore dell’ars narrandi delle zie e delle loro visitatrici, ma in altre donne esperte di scrittura si è imbattuto, tra le quali collocherei prima di tutte Elvira Sellerio, con cui la passione per i buoni libri divenne a lungo una comunanza di intenti editoriali.
Questa volta, nell’intento di fornire una prima testimonianza di tali incontri con la scrittura e con le donne, nel mondo reale, ho intervistato Dacia Maraini, che ha risposto con disponibilità e il consueto garbo alle mie domande e che vivamente ringrazio.

 

D. Quando e come ha conosciuto Sciascia? Dei vostri incontri conserva ricordi relativi, per esempio, agli argomenti di conversazione, alle sue impressioni sul suo interlocutore o al modo di pensare?

R. Non ricordo esattamente quando. Negli anni ‘60 credo, quando bastava andare da Rosati in piazza del Popolo a Roma per incontrare scrittori e pittori e musicisti e registi. Lì ho conosciuto Calvino, Moravia, Bassani, Visconti, Fellini e tanti altri. Ho avuto modo di conoscerlo meglio quando siamo diventati tutti e due giurati del premio Zafferana e abbiamo cominciato a partecipare alle riunioni per parlare di libri da premiare. Era un uomo di poche parole, che guardava dal basso in alto, chinando la testa e volgendo di lato gli occhi, come se lo sguardo diretto lo infastidisse. Sembrava quasi che spiasse invece di guardare. Ma era uno spiare palese, non nascosto, uno spiare che indicava la voglia di cogliere di sorpresa chi gli stava di fronte e prenderlo in giro. Era ironico e sospettoso, a momenti ingenuo come un bambino, a momenti, invece, saggio come un vecchio gufo dagli occhi che vedono anche di notte. Poteva essere amaro e tagliente, ma mai offensivo o violento.

D. Quali libri aveva già letto di Sciascia e quali l’avevano colpita e perché?

R. Avevo letto Le parrocchie di Regalpetra, Il giorno della civetta, Gli zii di Sicilia, Il Consiglio d’Egitto. Lo ammiravo come scrittore. Mi piaceva il suo stile asciutto e chiaro, scanzonato senza mai essere qualunquista o cinico, mi piaceva il suo impegno civile. Lo consideravo un maestro.

D. Quale aspetto della sua scrittura le era piaciuto in particolare e come lo descriverebbe? Quale qualità potrebbe costituire, a suo avviso, un suo tratto distintivo?

R. Uno scrittore della ragionevolezza, direi, innamorato della storia e dei misteri del destino umano. Era detto un illuminista, anche se di umore nero. E questa era una contraddizione, perché gli illuministi credevano nel futuro e lui pareva non avere illusioni.

D. Negli indirizzi di studio suggeriti dai programmi ministeriali (anche quelli attuali), si nota come ancora alcuni scrittori (o scrittrici) del Novecento non compaiano o figurino solo di sfuggita, come se fossero stati messi in disparte dalla cultura ufficiale. Per quanto riguarda Leonardo Sciascia, emerge ancora di più una contraddizione evidente con il rinnovato fiorire di studi che si incentrano sulla sua opera e sul suo pensiero. Come interpreta tale silenzio, a fronte, invece, dello sdoganamento di autori come Pasolini o del recupero di autori come Meneghello? Come ovviare?

R. Credo che il suo pessimismo lo renda ostico a chi crede in una letteratura consolatoria e didascalica. Pasolini era profetico, delirante, non credeva nella ragione, ma aveva un potere di fascinazione che incantava i giovani e ancora li incanta. Sciascia era laico fino in fondo, e credeva fortemente nella ragione e nella storia: due qualità non molto amate dagli italiani.  

D. Quali ricordi ha del trentennio ‘60/’89, in modo particolare dal punto di vista del fervore culturale e, nello specifico, del contributo dato a questo da Sciascia?

R. Abbiamo spesso discusso, anche pubblicamente, del “matriarcato siciliano”. Quello che lui definiva tale. Come un governo occulto e potente delle donne siciliane. Io non ero e non sono ancora d’accordo. So che le donne siciliane sono ardimentose e determinate, ma il loro è ancora in gran parte un potere assoggettato, che si esplica dentro le case, dentro le famiglie. Un potere secondario, implicito. Mentre il potere vero è primario ed esplicito.

D. Sciascia era diventato un uomo pubblico, che aveva il coraggio delle sue opinioni, anche qualora fossero state controcorrente (il caso Moro, il caso Tortora, la vicenda delle torture ai brigatisti, ad esempio). Ritiene corretto questo giudizio? Qual è il suo pensiero al riguardo?

R. Sì, lui teneva molto alla sua autonomia di pensiero. E aveva ragione. A volte si divertiva ad andare controcorrente, e non gli importava di passare per uno che si contraddice. L’hanno perfino accusato di essere un reazionario. Ma non lo era affatto. Era uno che dubitava di tutte le ideologie, uno che conosceva le astuzie del male. Vedeva nero, come ho già detto, e a volte le sue nerezze profetiche si avveravano.

D. Come interpreta la dibattuta epigrafe che lo scrittore scelse per sé (Ce ne ricorderemo di questo pianeta di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, che sostituì la precedente idea Contraddisse e si contraddisse)?

R. Credo che la seconda frase sia più giusta per lui. Gli piaceva contraddire e naturalmente si contraddiceva. Ma lo faceva con una acuta intelligenza dimostrativa, come per documentare che tutto è possibile e reversibile.

D. Riconosce qualche aspetto comune della sua personalità con quella di Sciascia?

R. Abbiamo in comune l’amore per la storia, la voglia di approfondirla per capire meglio chi siamo e dove andiamo. Io come lui, considero la storia un processo di consapevolezza, una fonte di esperienza cognitiva. Inseguire la storia, per lui e per me, è un modo di sprofondare nelle forze arcane del tempo, ma anche l’unico modo di mettere un poco di ordine nel caos dell’universo.

Rossana Cavaliere