La doppia vita della vedova Nicolosi

Parlare delle “donne di Sciascia” in letteratura può significare anche, a mio avviso, non limitarsi a quelle nate dalla sua penna e rese vive dalla capacità immaginativa dei suoi lettori, ma allargare lo sguardo anche a quelle che hanno avuto in sorte - per così dire - una seconda occasione di vita, grazie alla mediazione di qualche regista che, ispirato dalle opere del nostro autore, le ha reinventate per il grande schermo, personificandole. A volte le peculiarità con cui venivano presentate nei libri sono state pienamente rispettate; a volte sono avvenute significative trasformazioni, magari semplicemente attraverso un’enfatizzazione di alcuni aspetti (d’altra parte, Verga parlava, un po’ sprezzantemente in verità, di un certo «ingrossamento del quadro» nel passaggio al cinema di quanto era nato per le lettere); altre volte ancora sono state sviluppate caratteristiche contenute in nuce nel testo di partenza.

 

Ed è questo ciò che è accaduto alla giovane vedova Nicolosi, de Il giorno della civetta (1961), analizzata in questa rubrica di recente (cfr. “Sciascia, le donne e la scrittura: la vedova Nicolosi”), che, nell’approdo al cinema, ha potenziato la sua bellezza, acquisito un nome (Rosa)[1], uno spessore maggiore (è perfino diventata madre) e una personalità tale da riuscire (quasi) a competere con il capitano Bellodi, almeno quanto a spazi da dividersi sulla scena (è presente per circa un terzo del film). A incarnare quella ragazza senza nome di battesimo, che Sciascia definiva «bellina», grazie ai lineamenti delicati, alla capigliatura castana e agli occhi nerissimi, ma soprattutto a quel «sorriso malizioso» che le vagava sul volto, c’è una Claudia Cardinale nel suo pieno fulgore, che catalizza lo sguardo dello spettatore con la sua bellezza mozzafiato fin dalla prima apparizione, malgrado l’abbigliamento necessariamente modesto e il trucco concentrato soltanto sulla valorizzazione dello sguardo intenso e vellutato.

Diva e musa

Quando Damiani la recluta, nel 1968, per la sua trasposizione filmica del romanzo più noto di Sciascia, la Cardinale è già una star: ha lavorato con Germi ne Un maledetto imbroglio (1959), con Bolognini, affiancando Mastroianni ne Il bell’Antonio (1960), ma anche con Zurlini, nel celebre La ragazza con la valigia (1961), con Fellini in (1963), con Visconti (la sua Angelica al ballo ne Il Gattopardo rimarrà nell’immaginario collettivo di qualche generazione di spettatori), con Comencini ne La ragazza di Bube (ancora 1963), e in tante altre pellicole, che hanno contribuito al consolidamento del suo mito, rendendola la diva degli anni Sessanta più ambita, idolatrata da artisti e intellettuali come Moravia, che scriveva per lei versi inneggianti alla sua bellezza «trionfante di fanciulla maestosa». L’attrice dai tratti marcatamente mediterranei, esplosiva risposta italica (malgrado le origini tunisine) al divismo d’Oltralpe incarnato soprattutto dalla Bardot, ha dunque alle spalle esperienze molteplici anche di riscritture per il cinema di testi letterari famosi e si muove con disinvoltura nei panni della povera Rosa, prestando al personaggio la fierezza del suo sguardo e la sua conturbante avvenenza. La sua presenza nel cast garantisce alla vedova Nicolosi un’importanza nello sviluppo dell’azione che nel romanzo non aveva, ma era solo intuibile: probanti di questo accrescimento significativo sono perfino le locandine del film in cui la Cardinale compare vis à vis con Franco Nero nei panni dell’investigatore settentrionale Bellodi, spesso al centro dell’immagine, se non addirittura in primo piano, con Franco Nero alle sue spalle, di grandezza inferiore.

L’epifania

Quando la Cardinale compare sulla scena, non è nel grigiore della sala d’attesa di una stazione dei carabinieri, ma in piena luce, mentre sta camminando lungo la strada dov’è stato consumato il delitto di Colasberna, nei pressi di casa sua. Viene verso la macchina da presa, quando si imbatte nella jeep del capitano Bellodi, in perlustrazione con alcuni dei suoi sottoposti: trova subito una scusa per giustificare la sua presenza in quel luogo (l’intento di raccogliere erbe selvatiche commestibili) e parla in un dialetto comprensibile senza difficoltà, intervallando parole in italiano, anche se va precisato che la sua voce roca è ancora sostituita da quella calda della sua doppiatrice storica, la bravissima Rita Savagnone. D’istinto prova a cambiare direzione, a causa della diffidenza connaturata verso le forze dell’ordine e ancor più verso il forestiero che proviene dal Nord, ma poi si lascia convincere a salire sulla jeep e a farsi riportare a casa. I primi piani che Damiani le riserva mostrano quel broncio perenne che, se si schiude al sorriso, illumina il volto grazie alla chiostra di denti bianchissimi sulla pelle ambrata. Il gioco di sguardi con l’affascinante Franco Nero, dai tratti ingentiliti da una chioma insolitamente bionda, comincia subito e, insieme con il tema musicale di sottofondo che accompagnerà ogni apparizione della donna – una melodia intrisa di note nostalgico-romantiche – sembra preludere a una storia d’amore, che invece non si svolgerà. D’altronde, già nel romanzo tra i due non scattava nessun profondo coinvolgimento emotivo: la prima volta in cui i due avrebbero dovuto incontrarsi, il momento era stato differito da Bellodi, troppo preso dalle indagini, e, quando poi i due si erano trovati finalmente a parlare uno di fronte all’altra, solo nell’animo della giovane vedova era scattata un’attrazione verso l’altro, ma non per la fisicità dell’uomo quanto per la sua maniera melodiosa di parlare. Sciascia infatti scriveva che la ragazza in realtà poco capiva dei riferimenti letterari e filologici che Bellodi andava sciorinando, ma si sentiva ammaliare dalla sua maniera suadente di esprimersi e dalle “esse” prolungate e come sospese della sua pronuncia emiliana, cosicché «le parole del capitano musicalmente stormivano» al suo orecchio.

Omnia vincit… pudor

Com’era accaduto nel romanzo, dunque, la promessa erotica dei significanti cinematografici, che agiscono sinergicamente nella costruzione del messaggio (la musica e l’immagine), sarà disattesa: troppo agli antipodi appaiono Rosa e il capitano perché ciò possa realisticamente verificarsi. Non dimentichiamo inoltre che il film è del lontano 1968 e che la rivoluzione dei costumi non è ancora dilagata, mentre l’attenzione alle tematiche di genere sta lievitando: una storia tra i due sarebbe stata comunque contrassegnata da una prevaricazione, anche involontaria, del capitano, uomo colto e di potere, sulla donna ignorante, povera, vedova e per di più (nel film) anche madre di una bambina. Né forse sarebbe stata apprezzata l’avventura di una notte: svilita la donna-madre, il cui consorte è venuto – violentemente – a mancare da pochissimo; svilito il capitano, succube dei sensi e delegittimato nel suo ruolo di garante di una giustizia super partes.

Probabilmente un film dei nostri giorni avrebbe messo a frutto l’input offerto dal testo, quando il capitano aveva chiesto alla vedova notizie sul consorte scomparso e lei, dopo aver narrato con un pizzico di sussiego le tante premure di Paolo, innamorato e perfino «affatturato» dalla sua grazia, a una precisa domanda sulla sua corrispondenza affettiva («E gli voleva bene?»), si era lasciata sfuggire un rivelatore: «Certo: eravamo sposati». Praticamente aveva ammesso un sentimento verso suo marito non già naturale e sincero, bensì “obbligato” dal vincolo matrimoniale o piuttosto dalla morale corrente che imponeva alla donna sposata dei doveri perfino del cuore. E quindi un amore passionale per il capitano, spontaneo e autentico, sebbene illecito, avrebbe potuto essere sviluppato agevolmente, appagando una parte del pubblico, che si aspettava quanto meno un bacio tra le due star, così spesso vicine nelle inquadrature.

Non si può negare che i due protagonisti di Damiani sembrassero fatti uno per l’altra, ed è per questo che appare quasi “coraggiosa” la scelta del regista e del suo co-sceneggiatore di rinunciare a facili cedimenti: «Il capitano osserva quella donna, la scruta, ma non c’è nessun facile interesse maschile» –scrive Ugo Pirro nel trattamento de Il giorno della civetta –. E più tardi: «Il capitano sospira, guarda quella donna con rabbia e con pena» [2]. A conferma dello sguardo distaccato con cui Franco Nero-Bellodi giudica la vedova ci sono almeno un paio di battute nel film, a proposito del proprio non farsi «incantare» da quella che potrebbe essere «una bugiarda o una gran furba», mandata addirittura da don Mariano per confonderlo. Nessun accenno dunque ad attrazione sessuale, benché poi il narratore filmico provi a ingannare lo spettatore, quando, entrata Rosa in casa di Bellodi per un necessario bisogno di chiarimento, in una sequenza aggiunta alla trama sciasciana, fa intravedere la camera matrimoniale.

No, la sensualità strabordante della Cardinale-Rosa sarà declinata diversamente e non deve agire sul capitano, la cui immagine – quasi – irreprensibile non dev’essere offuscata. Nel film infatti lo spettatore sentirà gli apprezzamenti anche pesanti degli uomini su di lei, su cui grava l’ombra di un tradimento coniugale artatamente costruito per depistare le indagini, e perfino del super-boss mafioso, don Mariano, che la giudica «bedda fimmina, bedda di tutto: di fianchi, di petto», con una sorta di sezionamento del corpo che tradisce pulsioni proibite.

Particolarmente eloquente, a mio avviso, l’inquadratura di spalle dell’attrice, seduta alla toeletta della sua camera, dinanzi a uno specchio vecchio e malandato, che riflette a chiazze: ha appena dovuto fronteggiare un tentativo di stupro da parte del malavitoso Pizzuco, intenzionato a infangare la sua reputazione, ha resistito e vinto, ma ora guarda dolente la sua immagine stanca, triste, consapevole di quanto la bellezza – la sua bellezza – possa essere dannazione.

L’evoluzione del personaggio

Damiani dunque sceglie un personaggio minore ma ricco di potenzialità per farne una protagonista a tutti gli effetti. E se è ragionevolmente ipotizzabile che lo scopo principale dev’essere stato quello di garantire alla diva un ruolo adeguato alla sua fama e conseguentemente moltiplicare la presenza del pubblico nelle sale, calamitato dalla sua presenza, è pur vero che la Cardinale incarnerà a meraviglia questa donna del popolo, in bilico tra i due mondi rappresentati dalla legge del capitano e dalla mafia di don Mariano, altalenante tra un vago anelito di giustizia e la paura atavica del più forte. C’è una scena, infatti, nel film (ancora una volta un’addizione operata dall’adattamento), in cui Rosa sembra pronta a sfidare la mafia, in un impeto di coraggio e dignità, che eleva di potenza i segnali di volontà di emancipazione che Sciascia aveva disseminato nel testo, quando l’aveva mostrata meno arrendevole di quanto il lettore si aspettasse ad accettare la schiacciante subalternità femminile così diffusa all’epoca e pronta a rivendicare quanto meno il suo diritto a dare o meno il consenso alle nozze.

Si tratta della sequenza ambientata sull’ampia terrazza di una trattoria, alla cui tavolata sono seduti molti mafiosi. A Rosa che arriva, invitata, viene porto un piatto, che tiene sulle gambe, in quanto resta in disparte: il regista infatti intende sottolineare sia la naturale soggezione della giovane che la sua estraneità al contesto. Le inquadrature in primo e primissimo piano dei mafiosi, ripresi con lenti alteranti (presumibilmente un uso ad hoc del grandangolo), ne presentano i volti deformati e grotteschi, a simboleggiare la mostruosità della piovra e dei suoi adepti. Alcuni di questi cercano di fare pressioni su Rosa affinché ritratti la confessione strappatale dal maresciallo sull’uomo incontrato da suo marito prima di scomparire (Zecchinetta), chiaramente in cambio del loro sostegno economico e sociale, ma lei si rifiuta e si allontana, dopo aver risposto con una significativa metafora: «Questa pietanza è troppo salata!». Lo spettatore si illude che sia l’inizio di una ribellione al sistema, che Rosa stia per diventare una moderna eroina che combatte contro il sopruso e le storture di quell’anti-Stato che è la mafia, magari al fianco di Bellodi, anch’egli eroe senza macchia e senza paura, venuto da lontano per estirpare la pianta del male in una Sicilia riarsa dal sole, tormentata, ma soprattutto infettata dal miasma della criminalità organizzata.

La storia tuttavia non proseguirà in questa direzione, perché il capitano ha, novello Enea, una missione di giustizia da compiere e Rosa è una donna sola, incolta e povera, che una strategia perversa di calcolata diffamazione rende ancora più vulnerabile, e oltretutto deve provvedere a una bambina che non ha più un padre, ucciso per la sola colpa di aver per caso assistito a un omicidio. E così lo slancio d’orgoglio della giovane si scontrerà subito con la dura realtà.

Distanze siderali

Ricorderanno i nostri lettori che, durante il colloquio tra il capitano e la Nicolosi, Sciascia dipinge una striscia di luce, che filtra dall’esterno e viene a battere proprio tra i due, separandoli: viene a creare cioè una distanza irreale, chiaramente allusiva all’oggettivo divario tra l’uomo del Nord, ben istruito e votato all’affermazione della legge, e la popolana del profondo Sud, soggiogata da una società legata a stereotipi, malgrado il velato anelito di libertà. Nel film ci sarà invece una scena, a mio avviso intensa e perfettamente chiarificatrice dell’irrealizzabilità del sogno di riscatto di Rosa, in cui i due si confronteranno. Rosa, infatti, si reca a casa di Bellodi per rivelargli finalmente il ruolo del mafioso Pizzuco nella trama criminale in cui è rimasto vittima suo marito, ma si rifiuta categoricamente di ripetere in tribunale tale testimonianza. Bellodi, dopo aver tentato di convincerla per solidarietà verso di lui che combatte una battaglia solitaria per una terra a cui è lei ad appartenere e aver invano sollecitato il suo senso civico, si spazientisce e inveisce contro di lei e tutti i siciliani che accusa di omertà, rinunciando alla sua abituale gentilezza e pacatezza di modi. Quando la provocherà chiedendole se anche lei lo reputa «un presuntuoso» (come lo aveva definito Zecchinetta), Rosa esploderà in uno sdegnoso «e che ne so io? Chi vi conosce!», carico non tanto di risentimento, quanto di dolente rammarico, suggello di quel divario che oggettivamente li separa. Il momento di maggiore intimità con Rosa (in casa sua, di sera) si trasforma così in un’occasione perduta di conoscenza: Bellodi non ha provato a capire le ragioni di Rosa e della sua rinuncia a lottare, ma nemmeno di quella coltre di silenzio che avvolge la gente di Sicilia, annichilita da secolari sopraffazioni e generale indifferenza; la giovane dal canto suo realizza una volta per tutte l’incomunicabilità tra i loro due mondi e si allontana mesta, ormai consapevole del proprio ingiusto destino.

E quando, subito dopo, il capitano uscirà sul terrazzo di casa sua, scorrendo con lo sguardo la piazza semideserta, la sua totale solitudine sarà accompagnata dal medesimo motivo musicale che ha accarezzato ogni apparizione di Rosa sullo schermo: questa volta, però, le note sensuali sembrano aver lasciato il posto a una malinconia struggente.

Il film non racconterà il futuro di Rosa, purtroppo intuibile, ma a me preme evidenziare come la creaturina senza nome del bel romanzo di Sciascia, che scosse e scuote tuttora le coscienze, abbia ispirato la figura di una donna piena di dignità, che ha provato a lottare, sebbene perdente a priori, una donna per cui il pubblico palpita ancora, malgrado la distanza temporale dalla sua apparizione sul grande schermo.

Rossana Cavaliere

[1] Il nome, evocativo di un fiore, è spiegato nel trattamento: a don Mariano che le chiede chi sia, Rosa risponde: «Rosa Nicolosi, quella che chiamano Sciurillo», cioè “piccolo fiore” in siciliano. U Pirro, D. Damiani, Il trattamento de Il giorno della civetta, in S. Landi (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., p. 73.

[2] U. Pirro, D. Damiani, Il trattamento de Il giorno della civetta, cit., p. 69 e p. 71