Il carosello delle vedove in "A ciascuno il suo"

Nel microcosmo dei personaggi letterari creati da Sciascia, il romanzo A ciascuno il suo, del 1966, si segnala non soltanto per la conturbante protagonista femminile, dalle evidenti qualità e dagli inconfessabili peccati, ma anche per un piccolo campionario di donne, tre delle quali – a partire dalla stessa primadonna Luisa – accomunate da un curioso denominatore: la vedovanza, più o meno “forzata”. Quest’ultima, infatti, rimane vedova in apertura di romanzo, così come Teresa Manno, sua compagna di studi, poiché i rispettivi consorti vengono freddati insieme da implacabili pallottole durante una «felice» battuta di caccia, divenendo da cacciatori inaspettatamente prede,  come per contrappasso.

 

Del marito della terza vedova, invece, non si scoprirà la causa della dipartita: è probabile che sia stata naturale, anche se qualche lettore malevolo potrebbe ipotizzare che una certa accelerazione sua moglie potrebbe avergliela data, a causa di una commistione di difetti, che ne fanno una creatura sgradevole se non a tratti spregevole.

Ed è appunto su costei, la più anziana delle tre, che pare quasi vocata a realizzarsi in una vedovanza “costituzionale”, che ci soffermeremo in questo breve ritratto.

Elementi archetipici

La vedova Laurana è, dunque, colei che diede i natali - e un discreto corredo di tabù – al professore che, improvvisatosi detective per mettere alla prova la sua intelligenza logica (e non certamente per amore di giustizia), troverà una morte prematura a causa della sua sprovvedutezza emotiva e del suo vivere appartato, al di fuori delle dinamiche del paese. Di costei ignoriamo il nome di battesimo, la storia personale e numerosi altri dettagli, eppure ci dà un’impressione di  compiutezza, forse perché in lei riconosciamo non pochi elementi rappresentativi di una categoria nefasta di madri che sacrificano il “figlio maschio” sull’altare del proprio egoismo, spacciandolo per amore senza limiti.

Depositaria di una cultura arcaica, la vedova Laurana appare, dunque, come l’emblema di quelle madri siciliane contro le quali Sciascia si scaglia con veemenza, non esitando a definirle «un elemento di violenza, di disonestà e di abuso di potere nella società meridionale»[1] e a imputare loro significative responsabilità in molte problematiche del Sud. Una madre possessiva, che ritiene di dover “proteggere” il suo unico figlio «dalla malizia del mondo e dei tempi» (p. 41)[2], che per lei è incarnata dalle donne alle quali egli rivolge il suo sguardo, che in verità si traduce solo in un puerile, platonico vagheggiamento. Ed è per combattere questo rischio che ha bocciato con sistematico accanimento ogni esponente dell’altro sesso che Paolo in passato le ha portato a conoscere, tanto da frustrarne completamente gli slanci e spegnerne, ormai perfino preventivamente, «le effimere passioni» (ib). Per lei, non è ancora «in età di fare un passo tanto pericoloso» (ib), sebbene ormai quarantenne, e in un’epoca nella quale gli anni avevano un peso, tessuto di responsabilità.

Effetti insalubri del rapporto madre-figlio

Dal canto suo, il professore inetto nutre un tale timore di affrontare i giudizi trancianti della madre, che preferisce non provarci nemmeno, paventando l’ingresso potenziale di un’altra donna nel loro piccolo mondo, perché ne scombussolerebbe i consolidati, perversi equilibri: anche se ciò lo condanna alla solitudine, egli si mostra incapace di affrancarsi dal giogo materno e di raggiungere un’indipendenza, psicologica nonché logistica (continua a vivere sotto lo stesso tetto). Il lettore perciò non si stupisce di trovarlo pieno di inibizioni sessuali e, almeno prima che si lasci completamente irretire dalla coppia diabolica del romanzo, offrendosi loro come la vittima ideale, un po’ lo compatisce, quando lo vede sdilinquire accanto alla procace vedova Roscio, mentre il pensiero razionale gli si annebbia per la vertigine dei sensi troppo a lungo repressi: è a sua madre che vengono imputate le maggiori responsabilità dello stadio non adeguatamente evoluto, «che potremmo definire edipico»[3], a cui Paolo è condannato.

A tutto tondo

La vedova Laurana, a suo modo matriarca, sia pure di scarsa progenie, non può essere riassunta solo nel ruolo di madre castrante, perché altre caratteristiche contribuiscono al suo esecrabile ritratto.

Non è un caso se «il tropo dell’ironia, sotto [la cui] egida e infuenza»[4] si svolge il romanzo, nei suoi riguardi si tramuti spesso in sferzante sarcasmo: il narratore ha l’ardire di non stemperare nell’indulgenza o nel sorriso il suo giudizio verso questa donna meschina, taccagna, puntigliosa e attenta a eseguire ipocriti rituali di una religiosità solo esteriore. Una donna che, tra l’altro, non può neppure vantare un appeal fisico come Luisa, visto che, per sua stessa ammissione, «bella non [è] stata mai» (p. 115), come sospira, ripensando al passato.

Osserviamola, per esempio, quando sposta «la sedia quasi avesse fino a quel momento commesso una sconvenienza» (p. 51), perché si è accorta che dietro di lei c’è «una bella immagine del Cuore di Gesù», in casa di Luisa, dove si era recata, accompagnata dal figlio, per la canonica visita di lutto. Oppure seguiamola  nell’esercizio di uno «spirito di carità» (p. 49), che in realtà non le appartiene, quando dovrebbe consolare la vedova Manno, in una circostanza parallela alla precedente. La signora Laurana trova Teresa affranta per l’uccisione del marito, ma, soprattutto, offesa dalle maldicenze sulle presunte relazioni adulterine del defunto, che corrono di bocca in bocca a mortificarne l’amor proprio, e pensa bene di minimizzare, definendo le dicerie «chiacchiere che nessuno che abbia spirito di carità e buon senso potrebbe raccogliere» (ib). Parole che potrebbero suonare di conforto, se non si notasse l’assoluta mancanza di convinzione nell’adozione di frasi di repertorio, recitate senza partecipazione, e se non fossero annegate nella maliziosa insinuazione successiva: «Ma non è che la buonanima di suo marito le avesse mai dato sospetto...?» (ib), che dà il colpo di grazia alla povera Teresa. Ha ragione il narratore a commentare che «nemmeno lei era dotata di spirito di carità»(ib), anche se lo sbandiera a tutto spiano, svuotandolo di significato.

Oppure ancora ricordiamola appoggiata al braccio del figlio, mentre cammina tra i viali del cimitero, dopo aver reso omaggio alla tomba del defunto dottor Roscio e, alla vista di Luisa, inimitabile interprete di un inconsolabile dolore, avanza «la previsione che a risposarsi non avrebbe tardato molto» (p. 115). Ha le idee chiare sul futuro di Luisa, tanto da designare con certezza – e con dati situati – al ruolo di futuro consorte «suo cugino, l’avvocato Rosello» (p.116), perché questo matrimonio avrebbe consentito «riunificare la roba» (p.117). Così, mentre Paolo si irrita al pensiero di tale evenienza e si turba ai riferimenti alla lontana relazione tra i due, «la vecchia» (p.116), forte di una tradizione che rappresenta e «fermandosi a scrutarlo in faccia», con fare inquisitorio, sciorina il detto sulle “tre c” più inclini a favorire tresche: «cugini, cognati e compari» (ib). Subito dopo, mentre il figlio annaspa alla ricerca di appigli argomentativi atti a smontare la sua mentalità costruita sulla perenne opportunità del compromesso, lo annienta con un nuovo ricorso alla parola “carità”: per lei questo riunire i patrimoni attraverso il matrimonio di Luisa con il cugino Rosello ha tutti i crismi dell’«opera di carità», perché «chiede carità anche la roba» (p. 117). Al professore non resta che sommessamente indignarsi, senza nemmeno avere il coraggio di pronunciare la frase che pensa: «Cristo, che religione» (ib).

Tocca al narratore onnisciente commentare: «E del resto sua madre questa religione della roba quotidianamente la testimoniava non ammettendo che si buttasse via il pane raffermo, il cibo che restava nel piatto, la frutta che cominciava ad andare a male. – Mi viene pena – diceva [...]. E per questa carità che aveva per i resti della mensa, quasi che implorassero grazia di diventar feci, una volta o l’altra c’era pericolo che ci restasse secca» (pp. 117-118).

Con questa espressione idiomatica si chiude la descrizione della vedova Laurana, nella quale il registro ironico si raddoppia, in quanto si esercita sia sul personaggio che sul tema verghiano della “religione della roba”, richiamato a chiare lettere e messo alla berlina tramite una figura materna ben distante da quella costruita dall’immaginario collettivo e che induce piuttosto a una revisione critica dell’idea pregiudizialmente benevola verso la quale saremmo tutti portati a optare. 

La vedova al cinema

Com’è noto, il romanzo A ciascuno il suo di Sciascia ebbe, nel 1967, una interessante trasposizione cinematografica ad opera di un grande regista: Elio Petri. Quest’ultimo ebbe l’intuizione di partire dagli schemi binari di cui si era avvalso lo scrittore sia nell’universo diegetico del romanzo (due gli assassini, due le copie de «L’Osservatore Romano», due i prelati, due le giovani vedove dei due primi delitti) che nelle strutture linguistiche (verbali, nominali, aggettivali)[5] e di potenziarlo, moltiplicarlo, al fine di rendere più immediato il paradosso di alcune scene e imprimervi la sua marca ironica. E così, se Sciascia aveva suggerito di rintracciare la prima causa delle inibizioni – e fibrillazioni – del professor Laurana in una madre soffocante, Petri ne duplica la figura, aggiungendo una nonna che, seppure quasi sempre silenziosa, seduta e poco operativa, costituisce pur sempre una presenza giudicante, che disapprova l’operato e l’essere stesso del nipote, accrescendone le insicurezze. Si aggira a sorvegliarlo anche in camera sua, ad ammonirlo, nel ruolo ben riuscito di sua madre, una delle prime dive italiane, quella Laura Nucci scoperta da Blasetti, della cui amicizia con il capitano della Gestapo Priebke si favoleggiava ai tempi dell’occupazione tedesca. 

L’atmosfera della casa diventa così, per il professore e per lo spettatore, irrimediabilmente asfissiante. 

(In foto l'attrice Laura Nucci)                                                                                                                                                                                                                                                           Rossana Cavaliere

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

[1] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista a cura di  M. Padovani , Mondadori, Milano, 1979, pp. 14-15.

[2] L. Sciascia, A ciascuno il suo, Torino, Einaudi, 1976 (I edizione 1966). A questa edizione si farà sempre riferimento nel corso dell’articolo.

[3] P. Stacchio, Ipotesi di lavoro su A ciascuno il suo e Leonardo Sciascia, Firenze, Libra edizioni, 1992, p.95.

[4] A. Scuderi, Lo stile dell’ironia – Leonardo Sciascia e la tradizione del romanzo, Lecce, Milella, 2003, p. 16.

[5]  Per esempio, «si condanna e compiange», «ozio e malizia», l’«antico e nobile diporto», i «clienti devoti e robusti»: L. Sciascia, A ciascuno il suo, cit., rispettivamente p. 9, p. 6, p. 10 e p. 16.