Diego La Matina, Filippo Rubè e l’atto di fede mancato

Qualche giorno fa, leggendo I promessi sposi con i miei studenti, mi sono imbattuta in un passo del XXIX capitolo su cui ho sentito l’esigenza di soffermarmi.

Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni.

 Il testo si riferisce alla vita dell’Innominato dopo la conversione, ufficializzata nell’incontro con il cardinale Federigo Borromeo. Per il suo comportamento l’uomo si guadagna non solo il rispetto dei vecchi nemici, ma riesce ad ottenere perfino che la pubblica giustizia rinunci a perseguire i suoi antichi misfatti.

Mi pare che questo frammento del capolavoro manzoniano ponga una questione molto interessante sulla sovrapposizione dei concetti di perdono cristiano e condono giudiziario, vale a dire la prescrizione dei reati come evento consequenziale alla confessione dei peccati, pratica, quest’ultima, tra le più importanti del cattolicesimo, azione imprescindibile e irrinunciabile di intermediazione dell’autorità ecclesiastica, e quindi di potere. La relazione che intercorre tra il perdono e la prescrizione è una questione secolare, molto italiana e non del tutto superata nella mentalità, che si evidenzia già nella perfetta corrispondenza tra le aree semantiche (termini come colpa, pena, confessione, assoluzione, pentimento sono comuni a entrambi gli aspetti, giuridico e morale) e affonda le radici nell’epoca della Controriforma. Il tribunale dell’Inquisizione ne era l’indiscusso emblema per la sua natura intrinseca, e la confessione, estorta anche con violenza, era lo strumento indispensabile al compimento della giustizia.

Leonardo Sciascia offre un contributo straordinario all’approfondimento di tale tematica con la storia di Diego La Matina in Morte dell’inquisitore.

Il Tribunale dell’Inquisizione condanna al rogo il frate agostiniano di Racalmuto, dopo un teatrale e crudele Atto di Fede (pubblico come un atto giudiziario), tra il 16 e il 17 marzo 1658, ufficialmente per l’assassinio del suo inquisitore, monsignor de Cisneros, ma in realtà per una non meglio identificata eresia, che, secondo Sciascia, si sintetizza nell’aver agitato “il problema della giustizia nel mondo in un tempo sommamente ingiusto”. Nei precedenti processi intentati per altre vicende, il frate aveva scelto di abiurare, ma nell’ultima sua lunga notte, non ci fu verso per i nove (o forse dieci) uomini del Tribunale di ottenere da lui un pentimento, una disperata conversione:

È una delle più atroci e allucinanti scene che l’intolleranza umana abbia mai rappresentato. E come questi nove uomini pieni di dottrina teologica e morale, che si arrovellano intorno al condannato (ma ogni tanto vanno a ristorarsi nell’appartamento dell’alcalde), restano nella storia del disonore umano, Diego La Matina afferma la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà.

Come il Farinata dell’Inferno dantesco, l’eretico Diego la Matina resta fisso sul suo “tenace concetto” e sancisce la vittoria dell’intelligenza e della dignità dell’uomo.

Stessa caparbia opposizione all’ingerenza del potere ecclesiastico si trova nel protagonista di Rubè di Giuseppe Antonio Borgese. Dopo l’annegamento dell’amante Celestina che gli costa un’accusa di omicidio, caduta quasi subito, Filippo Rubè si reca da Padre Mariani per parlargli di ciò che sente dentro, di come avverta fortemente il senso di colpevolezza, nonostante il chiarimento in sede giudiziaria della sua posizione. Il prete gli chiede se lui intenda parlare sotto il sigillo della confessione, Rubé risponde di no e cerca di fargli capire che non è quello il punto. Nel lungo dialogo tra i due, padre Mariani arriva al centro nevralgico della questione:

L’altro ieri, sì, il giorno stesso che siete stato liberato dal carcere; e la data è fausta, un segno precursore della grazia che v’illuminerà. In altri tempi le azioni penali erano sospese nella settimana di Pentecoste, come un’anticipazione terrena del perdono celeste.

Da questo frammento risulta chiara la confusione dei due piani, quello della giustizia e quello del perdono, in una vera e propria interconnessione genetica.

Rubé continua poi a porre domande problematiche di natura teologica e individuale, allora Mariani sbotta infastidito e lo definisce, senza mezzi termini, eretico che soggioga la realtà alle frenesie della ragione.

L’Innominato e Diego La Matina sono stati due uomini del Seicento, le cui storie hanno avuto un epilogo opposto: il primo, criminale, malfattore, ottenuto il perdono cristiano dal cardinale con la confessione, atto di fede attraverso cui si rimette completamente all’auctoritas ecclesiastica, risana anche i suoi problemi con la giustizia laica; l’altro, invece, dopo aver resistito ad atroci torture in un ben diverso Atto di Fede, poiché non cede in alcun modo all’imposizione del perdono, è condannato alla morte corporale e alla dannazione eterna. Le sue ultime parole – “Dio è ingiusto” – suonano come una sentenza di negazione totale della giustizia.

E infine Filippo Rubè. Assolto in istruttoria, sconta una damnatio memoriae nei manuali della letteratura italiana.

Roberta De Luca