La natura imita l'arte. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse.

I motivi passionali, posti come causa prima di alcuni delitti nelle indagini dei gialli sciasciani e utilizzati a vantaggio dell’una o dell’altra parte, si configurano in un contesto fortemente influenzato dall’arte del melodramma, genere italiano per antonomasia e vanto nazionale che non conosce declino. Ne Il giorno della civetta, Sciascia afferma che i tavoli d’autopsia della Sicilia sono popolati da tanti Turiddu Macca, dopo che sulle scene dei teatri d’opera aveva fatto irruzione il potente grido “Hanno ammazzato cumpari Turiddu”.

 

Cavalleria rusticana di Mascagni, storia di corna e di morti ammazzati, dal momento della sua prima messa in scena, segna irreversibilmente l’immaginario collettivo siciliano, tanto da depistare in modo determinante le indagini dei delitti di mafia. Perché la natura imita l’arte. Così si legge nel romanzo del 1961:

 

Da quando, nell’improvviso silenzio del golfo dell’orchestra, il grido ‘hanno ammazzato cumpari Turiddu’ aveva per la prima volta abbrividito il filo della schiena agli appassionati del teatro d’opera, nelle statistiche criminali relative alla Sicilia e nelle combinazioni del giuoco del lotto, tra corna e morti ammazzati si è istituito un più frequente rapporto. L’omicidio passionale si scopre subito: ed entra dunque nell’indice attivo della polizia; l’omicidio passionale si paga poco: ed entra perciò nell’indice attivo della mafia. La natura imita l’arte: ammazzato sulle scene liriche dalla musica di Mascagni e dal coltello di compare Alfio, Turiddu Macca cominciò a popolare le mappe turistiche della Sicilia e i tavoli d’autopsia.

E questo vale non solo per l’omicidio Colasberna, ma anche per il delitto Manno/Roscio in A ciascuno il suo, in cui il movente viene immediatamente ricercato nelle relazioni disinvolte del farmacista con le giovani clienti della sua farmacia.

Di come la natura imiti l’arte, abbiamo una dimostrazione indimenticabile nel canto V dell’Inferno di Dante: l’amore tra Paolo e Francesca nasce dall’insegnamento moralmente condannabile e deleterio del libro galeotto, di quella storia d’amore carnale e adultero, come tante che popolavano la letteratura cortese, da cui lo stesso Dante sente il bisogno di prendere le distanze definitivamente. L’intervento metaletterario del Sommo costringe il lettore a uscire dalla narrazione e a discutere di letteratura. Il poeta invia un messaggio subliminale per dire quanto sia potente il ruolo dell’arte nel determinare e corrompere il comportamento degli uomini e a quali conseguenze estreme possa condurre: “Quel giorno più non vi leggemmo avante”.

Certo ci troviamo in un contesto diverso da quello moderno e il fine morale e salvifico della “pietà” dantesca è peculiare e non sovrapponibile alla sensibilità di Sciascia, tuttavia anche nelle parole di quest’ultimo si profila una riflessione di analoga acutezza: l’arte che non preveda un distacco critico e lucido inghiotte lo spettatore, lusingando il suo lato emotivo e avviluppandolo in un costante errore di valutazione.

In fondo anche Manzoni aveva avuto la stessa idea in merito alla tragedia. Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, lo scrittore accusa la fedeltà alle unità aristoteliche di luogo e di tempo di produrre un’identificazione dello spettatore nel dramma, inibendo la riflessione critica. Prendiamo anche l’esempio di Pirandello, il quale non concepisce l’arte senza l’intervento corrosivo della riflessione che, da sola, provoca il passaggio all’umorismo.

Nel melodramma di Mascagni, di cui Sciascia attacca più il libretto che la musica indiscutibilmente bella (il grido fatale si ascolta nel silenzio dell’orchestra), lo spettatore perde del tutto quel senso d’ironia che pure appartiene al testo verghiano, e che il titolo ossimorico manifesta.

Ma senza l’ironia, lucida chiave di lettura e distaccato strumento d’analisi, viene meno quel valore conoscitivo dell’arte, indispensabile all’esercizio critico della ragione.

Roberta De Luca