Il piccolo Ulisse e la dinamica degli affetti

Il mare colore del vino, il racconto che dà il titolo all’intera raccolta del 1973, narra il viaggio in treno tra Roma e Agrigento di un giovane ingegnere del Nord. Durante il tragitto via terra-mare-terra, l’ingegner Bianchi incontra nello scompartimento del treno una curiosa famiglia siciliana, i Micciché, composta da madre, padre e due bambini, uno dei quali particolarmente vivace e brillante. Insieme a loro c’è anche una conoscente, una giovane insegnante, che non lascia indifferente l’ingegnere.

Per ammissione dello stesso Sciascia, il viaggio è una metafora dell’esistenza, un “cronotopo” in cui si riproducono tutti gli elementi della vita:

«Il fatto è» pensava l’ingegnere «che un viaggio è come una rappresentazione dell’esistenza, per sintesi, per contrazione di spazio e tempo; un po’ come il teatro, insomma: e vi si ricreano intensamente, con un fondo di finzione inavvertito, tutti gli elementi, le ragioni e i rapporti della nostra vita».

 

Il titolo scelto dall’autore per questo racconto, e per l’intero libro, ricalca un epiteto formulare dell’epica greca, riferito al mare e utilizzato in particolare nell’Odissea, che non a caso è il primo grande esempio di letteratura odeporica. Quando si congeda da Calipso, che lo trattiene ormai da sette anni nell’isola di Ogigia, Ulisse, dopo aver rifiutato addirittura il dono dell’immortalità con il quale la ninfa aveva cercato di farlo restare, pronuncia queste parole:

«E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,

saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel petto:

sventure ne ho tante patite e tante sofferte

tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa».

La descrizione del viaggio, che Ulisse ci propone, porta con sé un’idea di patimento, di sofferenza, di dolore, che è connaturata all’esistenza stessa; esso si configura, dunque, come un microcosmo della vita, con travagli e conquiste. Nell’affascinante storia delle parole, l’identificazione tra il viaggio, la vita e la sofferenza è ben evidente nel termine inglese travel, che ha la stessa etimologia dell’italiano travaglio: entrambi derivano dal latino tripalium, antico strumento di tortura.

Il viaggio tra terre e mare di Ulisse, si sa, ha costituito un modello per tutta la letteratura successiva, un riferimento ineludibile per i racconti di avventure che comportano scoperte, incontri, patimenti, insidie e, soprattutto, imprevisti.

Nel racconto di Sciascia, il legame tra il mondo greco e la Sicilia affiora di nuovo nel momento in cui lo scrittore affronta una questione pedagogico-culturale, attraverso la quale si stabilisce un confronto tra il metodo educativo mediterraneo e quello svizzero.

«Ad ogni cosa tiriamo fuori la Grecia.» «Ma sì, è un fatto: in Svizzera in ogni bambino tu vedi lo svizzero che diventerà, in Grecia l’individuo, l’uomo... Ed anche in Sicilia, immagino: questi due bambini...» «Sono luoghi in cui non c’è l’educazione: non ci sono regole, tecniche abitudini educative; ci sono gli affetti: e credono, i greci, i siciliani, che non ci sia problema nella vita che l’affetto non possa risolvere.» «Risolvono così anche la morte».

Sull’asse greco-siculo si sviluppa una dinamica degli affetti che mette al centro l’uomo, l’individuo; la società svizzera si basa, invece, sul prototipo tecnologico dell’Homo Faber. Nel romanzo di Max Frisch, l’esistenza del protagonista si sfalda sotto i colpi di eventi imprevisti, perché egli forse non possiede un’intelligenza emotiva che gli consenta di gestire gli accidenti del destino, quando questi giungono improvvisi e non calcolati. Viene in mente a riguardo l’ultima strofa della splendida poesia di Montale, Prima del viaggio: «E ora che ne sarà/ del mio viaggio?/ Troppo accuratamente l’ho studiato/ senza saperne nulla. Un imprevisto/ è la sola speranza. Ma mi dicono/ che è una stoltezza dirselo».

Sciascia pone il cuore filosofico del suo pensiero nell’uomo – un essere per nulla programmabile – e lo affida alla fantasia e all’intelligenza di un bambino, Nené, perché i bambini rappresentano la continuità di un’intera civiltà, e a loro spetta stare al centro dell’esistenza. Una società che li distacca da sé, che li pone come problema, rinuncia a una cultura dell’uomo.

Nené è il piccolo Ulisse de Il mare colore del vino. È il polytropos, il fandi fictor. I suoi discorsi con gli adulti sono un capolavoro di retorica, toccano tutta la gamma degli stili e dei toni, e conducono ad un’analisi profonda della realtà:

«È convinto che la povertà sia mancanza di materassi e di piatti, è ossessionato dall’idea che i poveri dormano per terra e mangino la minestra nelle scatole di latta che buttiamo via...» «Dormono davanti la chiesa» disse Nené «e mangiano nelle buatte del pomodoro: l’ho visto io. E muoiono» «No che non muoiono» disse il padre. «Muoiono» disse Nenè con un tono che non ammetteva replica. E aggiunse «Ma io mi faccio povero: e i poveri non muoiono più».

La speranza di un imprevisto nasce nella mente di un bambino: dal piccolo Ulisse giunge l’utopia di un viaggio meno doloroso e più giusto.

 Roberta De Luca