“… se è vero che…”: Leonardo Sciascia e il caso Tortora

La lettera aperta che Émile Zola indirizzò al Presidente della Repubblica Félix Faure sul caso Dreyfus fu pubblicata – sotto il titolo redazionale “J’Accuse…!” – sull’intera prima pagina de L’Aurore del 13 gennaio 1898. Dopo aver riepilogato i dettagli dell’affaire, lo scrittore chiudeva la sua lettera-pamphlet con una serie di otto capoversi, che iniziavano con “J’accuse…” e appunto accusavano alti ufficiali, periti, giornali e tribunali militari di avere partecipato, a vario titolo, a una vergognosa ingiustizia, condannando un innocente e assolvendo un colpevole.
   Poco meno di un secolo dopo, il 14 ottobre 1983, sulla terza pagina del Corriere della Sera comparve un articolo di Leonardo Sciascia dal titolo “Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri”. Come sottolineato da Paolo Squillacioti, che ha curato la recentissima e meritoria riedizione per Adelphi della raccolta A futura memoria (se la memoria ha un futuro), di cui l’articolo fa parte, il titolo – a differenza del famoso-famigerato “I professionisti dell’antimafia” – è dell’Autore.

 

   Ciò che accomuna gli articoli di Zola e di Sciascia, oltre ovviamente all’indignazione, è il finale. Ai “J’accuse” di Zola fa per così dire da contraltare, nell’articolo di Sciascia, una serie di domande rivolte alla magistratura campana: “La magistratura campana può protestare quanto vuole (…) se non ammette che quella che definisce ‘un’iniziativa giudiziaria contro la malavita organizzata’ è stata, a dir poco, frettolosa e caratterizzata da un’allarmante percentuale d’errori. Invece che rivolgersi alla stampa con qualcosa di simile al ‘ragazzino, lasciami lavorare’, dovrebbe almeno rispondere, se non a tutti gli italiani al Consiglio Superiore della Magistratura (e ci sarebbe poi la fuga di notizie), se è vero che…”. Queste quattro parole – “se è vero che” – saranno ripetute altre cinque volte, in apertura di una serie di interrogativi riguardanti fatti relativi all’inchiesta in cui era finito Enzo Tortora.
   A differenza dei “J’accuse” di Zola, che aprono otto capoversi, costringendo il lettore a fare una pausa tra l’uno e l’altro, i “se è vero che” di Sciascia sono posti all’inizio delle sei domande, divise tra loro soltanto da punti e virgole. Il risultato è un crescendo incalzante. Esaurite le domande, che mettono in risalto i punti deboli dell’inchiesta in generale, e di quella a carico di Enzo Tortora in particolare, l’articolo si chiude con due frasi lapidarie: “Sono domande che attengono alla ‘professionalità’. E lasciamo da canto quelle che riguardano la coscienza”.
   Tre anni dopo il “Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri”– nel frattempo Enzo Tortora era stato condannato in primo grado a dieci anni di reclusione – Leonardo Sciascia torna a far sentire la sua voce. Nell’articolo intitolato “Chiaro, l’ha rovinato la politica”, pubblicato su Panorama del 7 settembre 1986, Sciascia commenta “la requisitoria del Pubblico Ministero Armando Olivares (bel nome del viceregno spagnolo) al processo d’appello contro la Nuova Camorra Organizzata…”. La requisitoria, almeno per quanto riguarda Tortora, è – per usare un eufemismo – piuttosto confusa, e si conclude con la richiesta di una condanna a sei anni di reclusione.
   All’indignazione che pervadeva l’articolo del 14 ottobre 1983, stavolta si aggiunge l’ironia, per la quale ogni lettore può scegliere l’aggettivo che gli sembra più appropriato. “La leggo, la requisitoria del Pubblico Ministero  – scrive Sciascia –, nella ‘sbobinatura’ che della registrazione ha fatto il Partito Radicale: e magari ci sarà qualche errore di trascrizione, qualche parola mal sentita o saltata; ma non è per queste zeppe che la lettura riesce faticosissima, la più faticosa in cui mi sia imbattuto in più che mezzo secolo di esercizio”. (E viene da pensare a un aneddoto raccontato da Indro Montanelli e relativo a Mario Missiroli: il quale, direttore del Messaggero, dice al critico cinematografico del giornale, che gli ha appena sottoposto un suo articolo, di non riuscire a capirlo. E aggiunge: “Ho letto Kant, e l’ho capito. Ho letto Schopenhauer e l’ho capito. Ho letto la Fenomenologia dello spirito, e l’ho capita. Ma la sua critica cinematografica non la capisco… Il torto è mio, non se n’offenda”.) Dopo aver riportato un lungo brano della requisitoria, Sciascia cerca quindi di chiarire, a beneficio dei lettori, “Quel che il dottor Olivares (la cui prosa mi sono permesso di depurare di qualche ripetizione e di aiutare con qualche segno di interpunzione)” intendeva dire: traendolo da quel che prima ha definito non “un discorso che abbia premessa, svolgimento e conclusione”, ma “un franare incontenibile di parole, di ‘materiali di riporto’ da cui con estrema difficoltà si può disseppellire qualche coccio, ma disparato e d’impossibile assemblaggio”.
   Chissà se, leggendo l’articolo di Sciascia, il dottor Olivares si offese. Certo la sua requisitoria, oltre a Sciascia, non convinse nemmeno la corte giudicante. Il 15 settembre, infatti, Enzo Tortora fu assolto con formula piena, e la sentenza fu successivamente confermata dalla Corte di Cassazione. E non fu certo per caso che Enzo Tortora volle che, nell’urna contenente le sue ceneri, fosse chiusa anche una copia della manzoniana Storia della Colonna Infame, in unedizione recante una Nota di Leonardo Sciascia.

 Euclide Lo Giudice