La vita di queste foglie non ha lasciato segni, è andata in fumo, in cenere. Esse appaiono come i vinti di Verga nel cammino fatale, incessante, faticoso e febbrile della fiumana del progresso, che è grandioso nell’insieme, visto da lontano, ma che prima o poi schiaccia tutti, anche i vincitori di oggi i quali, fatalmente, saranno i vinti di domani. Quelle foglie, quei vinti coincidono con le “gente meccaniche di piccolo affare”, di cui l’Anonimo dello scartafaccio manzoniano vuole raccontare la vicenda umana. Manzoni recepisce pienamente la lezione degli idéologues francesi – Augustin Thierry, l’amico Claude Fauriel – i quali lo avevano incoraggiato alla meditazione sul ruolo degli oppressi, delle masse anonime, del terzo e del quarto stato; perciò nel suo romanzo decide di occuparsi di quelli che non compaiono nella storiografia tradizionale.
La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?
Don Giuseppe Vella si chiede se ci sarà uno storico con una sensibilità tale da sentire la voce di coloro che sono discesi a marcire nella terra, senza che nessuno mai abbia saputo coglierne i segni, le tracce, gli orizzonti. Lui non crede nella possibilità che questi anonimi della storia diano un senso al loro esistere nel flusso degli eventi. Eppure, come si è visto, qualcuno ha ascoltato. Manzoni, Verga, Sciascia. Scrittori, non storiografi, autori di letteratura, che proprio nella parte di invenzione poetica, oserei dire proprio nella loro “impostura”, hanno raccontato la stratificazione dei fatti, la lotta per la vita, le sfumature impercettibili che possono sfuggire allo storico di professione. I loro romanzi, e sembra un paradosso, si sono sottratti all’imbroglio delle carte, non si sono fermati alle iscrizioni di antiche lapidi e antichi sepolcri, da cui trapelano spesso privilegi e autorità che non hanno fondamento alcuno. Meriterebbe altro che ingente compenso il loro orecchio fino, che ha sentito in profondità “la voce della fame” dei padri e dei figli di nessuno, “il gorgoglio delle loro viscere vuote”.
Roberta De Luca