La storia non esiste

Nel finale dell’ottavo capitolo della prima parte de Il consiglio d’Egitto, don Giuseppe Vella si rivolge al suo collaboratore Cammilleri, per distoglierlo dal sentimento di rimorso dovuto alla sua complicità nell’impostura di cui è artefice l’abate. È sicuramente una delle pagine più intense del capolavoro di Sciascia. Messa da parte per un attimo la maschera dell’impostore, Vella si abbandona a una riflessione onesta, amara, profonda sulla storia e sul lavoro dello storico:

E allora don Giuseppe pianamente gli spiegava che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste […]».

La storia dunque non esiste. Esiste il resoconto che ne fanno le carte; esiste la narrazione condotta sempre da un certo punto di vista, di solito quello dei forti e dei prepotenti; esiste la trascrizione spesso acritica dei fatti; esiste il falso: elementi, questi, che il più delle volte non considerano le vite delle persone comuni e trascurano chi vive, lotta e soffre senza lasciare alcuna traccia di sé. La storia dell’umanità rappresentata da don Giuseppe Vella è assimilata a un albero a cui sono attaccate generazioni di foglie che poi vanno via, “un autunno appresso all’altro”, fino a quando lo stesso albero non ci sarà più.

La vita di queste foglie non ha lasciato segni, è andata in fumo, in cenere. Esse appaiono come i vinti di Verga nel cammino fatale, incessante, faticoso e febbrile della fiumana del progresso, che è grandioso nell’insieme, visto da lontano, ma che prima o poi schiaccia tutti, anche i vincitori di oggi i quali, fatalmente, saranno i vinti di domani. Quelle foglie, quei vinti coincidono con le “gente meccaniche di piccolo affare”, di cui l’Anonimo dello scartafaccio manzoniano vuole raccontare la vicenda umana. Manzoni recepisce pienamente la lezione degli idéologues francesi – Augustin Thierry, l’amico Claude Fauriel – i quali lo avevano incoraggiato alla meditazione sul ruolo degli oppressi, delle masse anonime, del terzo e del quarto stato; perciò nel suo romanzo decide di occuparsi di quelli che non compaiono nella storiografia tradizionale.

La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?

Don Giuseppe Vella si chiede se ci sarà uno storico con una sensibilità tale da sentire la voce di coloro che sono discesi a marcire nella terra, senza che nessuno mai abbia saputo coglierne i segni, le tracce, gli orizzonti. Lui non crede nella possibilità che questi anonimi della storia diano un senso al loro esistere nel flusso degli eventi. Eppure, come si è visto, qualcuno ha ascoltato. Manzoni, Verga, Sciascia. Scrittori, non storiografi, autori di letteratura, che proprio nella parte di invenzione poetica, oserei dire proprio nella loro “impostura”, hanno raccontato la stratificazione dei fatti, la lotta per la vita, le sfumature impercettibili che possono sfuggire allo storico di professione. I loro romanzi, e sembra un paradosso, si sono sottratti all’imbroglio delle carte, non si sono fermati alle iscrizioni di antiche lapidi e antichi sepolcri, da cui trapelano spesso privilegi e autorità che non hanno fondamento alcuno. Meriterebbe altro che ingente compenso il loro orecchio fino, che ha sentito in profondità “la voce della fame” dei padri e dei figli di nessuno, “il gorgoglio delle loro viscere vuote”.

Roberta De Luca