La tua mente che è corpo

Ci sono pagine ne Il consiglio d’Egitto sulle quali non ci si può non soffermare a lungo. I capitoli finali del romanzo sono tra i più belli e alti di tutta la letteratura italiana. Il giacobino Francesco Paolo Di Blasi si trova in stato di arresto, viene torturato da un tribunale che tenta di estorcergli nomi, tempi e modi della congiura repubblicana sventata dal potere baronale. I pensieri che attraversano la sua mente durante le atroci sofferenze a cui i tratti di corda, la veglia e il fuoco lo sottopongono, prima del colpo definitivo del boia, delineano un nodo cruciale del diritto occidentale, affrontano la questione che ha visto nei secoli schiacciare la libertà dell’uomo fino a ridurlo in schiavitù, che ha tentato di annullare il libero pensiero, annichilendo la ragione e devastando il corpo fino alla sua eliminazione:

 Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu ora non resistessi…

Di Blasi ha già elaborato da tempo a livello concettuale ciò che si trova a dover sopportare oltre ogni limite umano. Ma ancora, proprio mentre il suo corpo vive questa esperienza, l’uomo si guarda dall’esterno, e le diverse parti che lo compongono cominciano a vivere di vita propria: quasi alla maniera teatrale cavalcantiana (ma lì si parlava dell’amore che distrugge) dialogano nell’io scisso dalla violenza. E qui si pone con forza una suggestione interpretativa; sembra quasi che si intraveda tra le righe la figura di Averroè, filosofo, matematico e medico arabo, razionalista, non a caso eretico che si oppose ai teologi integralisti, e che fu nel Medioevo il tramite fra Aristotele e l’Occidente, tra culture e filosofie diverse; sembra quasi che in questo punto Sciascia svisceri il frutto di tale mediazione, che poi è la stessa che percorre tutto Il consiglio d’Egitto, a sottolineare il grandissimo apporto genetico della cultura araba alla Sicilia, e non solo.

L’anima, sede delle sensazioni, dell’immaginazione e del desiderio, costituisce lo specifico individuale che si potenzia nel cuore e che, mentre l’uomo è torturato atrocemente, vive sbigottita un’assoluta e profonda solitudine:

Il dolore fisico, la mutilazione o la minorazione del corpo, danno alla solitudine una qualità assoluta, recidono anche quegli esili fili che nel più profondo dolore dell’anima pure riusciamo a mantenere tra noi e gli altri... Hai detto dell’anima... Davvero puoi ancora pensare all’anima, se la tortura ti ha dimostrato che il tuo corpo è tutto? Il tuo corpo ha resistito, non la tua anima; la tua mente che è corpo.

La mente invece è intelletto, ragione, e coincide, in questi momenti drammatici, con il corpo; poiché il corpo resiste, anch’essa resiste con lui. L’anima sensitiva è vinta, ma la mente, riflesso della ragione universale, comun denominatore della civiltà, tiene, non perde il controllo razionale e realizza la dignità dell’uomo. Da questa dignità scaturiscono i sentimenti di pietà e rimorso per coloro che lo avevano accusato davanti ai giudici. Egli aveva tenuto, il suo corpo/mente aveva tenuto e non riesce a non provare pietà per questi compagni indegni, caricandosi perfino della loro colpa, della loro viltà, della loro coscienza umiliata. Per Di Blasi, come per il ragazzo Sciascia, “Cominciava la vicenda della pietà. Un terribile sentimento, la pietà. Un uomo deve amare ed odiare: mai avere pietà” (Le parrocchie di Regalpetra).

Resistendo con il corpo e con la mente, Di Blasi evita la degradazione dell’umanità, riesce a non corrompere la sua immensa grandezza, mantiene integra “l’immagine di Dio che è nell’uomo”.

Roberta De Luca