Della raccomandazione (ma non solo...)

Su L’Espresso del 21 dicembre 1986 – nella sua rubrica L’Enciclopedia, che all’epoca teneva sul settimanale – Leonardo Sciascia pubblicò una nota dal titolo “Mi manda Manzoni”. Lo spunto per la stesura del testo gli era stato offerto dal congresso “Manzoni e la cultura siciliana”, organizzato – con un ritardo di tre anni sul bicentenario manzoniano – dalle tre università siciliane.
   “Il tema mi sollecita all’estravaganza – scrive Sciascia. – Ormai abituato al diletto (o al vizio che lo si voglia dire, o mania) di cercare e intravedere nella realtà, nei fatti, quei segni, quegli avvertimenti, quelle rispondenze che mi pare la colgano in essenza e le conferiscano ineffabile verità e significato, posso senz’altro dire che entra in tale mia catalogazione e gioco il fatto che tra le 1.816 lettere di Manzoni, pubblicate per cura di Cesare Arieti, delle due che vagamente hanno a che fare con la Sicilia – la prima indirizzata a Palermo a un personaggio autorevole, la seconda a un ministro siciliano – una sia di raccomandazione nei modi tuttora correnti, l’altra di smentita a una raccomandazione”.

 

   La prima lettera, del 14 febbraio 1864, è indirizzata da Manzoni a Luigi Torelli, che nel 1862 era stato prefetto di Palermo e sarebbe tornato ad esserlo nel 1866, per chiedere se fosse possibile trovare una qualche “nicchia”, ossia un posto, per la persona che gli era stata raccomandata e che lui raccomandava. Il beneficiario della raccomandazione è definito un “infelice”: e l’aggettivo sembra appropriato, visto che la sistemazione richiesta è definita una “nicchia”, in altre parole un posto qualsiasi, quindi anche di modesto livello.
  
La seconda lettera, datata 21 aprile 1864, è indirizzata all’allora ministro della Pubblica Istruzione Michele Amari. L’autore della Storia dei Musulmani di Sicilia aveva chiesto al Manzoni conferma dell’autenticità di una lettera con cui un tale aveva cercato di ottenere – da lui, Michele Amari – “un qualche sussidio”. Nel rispondere negativamente, Manzoni scrive che la sua lettera servirà come dimostrazione della sua smentita e come occasione per “rinnovarLe l’espressione d’un’alta e antica stima”.
   Alle due lettere citate da Sciascia nel suo testo se ne può aggiungere – per analogia – una terza: di Luigi Pirandello, datata Roma 5 settembre 1929 e fatta pervenire a un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione, che aveva voce in capitolo in materia di assegnazione di cattedre e di trasferimenti del corpo insegnante. Questo funzionario, che diventò poi uno dei direttori generali del dicastero, per via del suo incarico riceveva molte lettere di raccomandazione, alcune delle quali scritte da personaggi di una certa importanza. Trattandosi di missive che gli venivano inviate – salvo alcune eccezioni – in via riservata e a titolo personale, il futuro direttore generale non le faceva protocollare e mettere agli atti, ma le conservava a casa, probabilmente come curiosità. Una trentina di anni fa, uno dei suoi figli, mio collega e amico, mi fece dono di sei di questi autografi, tra cui quello di Luigi Pirandello.
   Nella sua brevissima lettera, il drammaturgo agrigentino segnala il caso di un giovane docente che, brillante vincitore di un recente concorso, attende l’assegnazione della cattedra. Il suo “giovane valorosissimo amico”, che ha già insegnato in un liceo romano con grande soddisfazione del suo preside, vorrebbe rimanere nella Capitale. Luigi Pirandello sa che nei licei romani sono ancora disponibili alcune cattedre della materia insegnata dal suo amico, e sarebbe grato se una gli fosse assegnata. E scrive: “Non consideri, La prego, questa mia lettera come una delle solite raccomandazioni, alle quali tante volte si è obbligati per puri riguardi sociali. Mi sta veramente a cuore la sorte di questo bravissimo giovane, che farà onore, senza dubbio, alla scuola italiana per la serietà dei suoi intenti e del suo carattere e la solidità della preparazione scientifica, che lo fanno degno delle maggiori responsabilità d’una cattedra a Roma”.
   Le tre lettere sono legate insieme dall’argomento – la raccomandazione – e dall’ambientazione, per così dire, siciliana: delle prime due, scritte dal lombardo Manzoni, una riguarda infatti un posto da assegnare in Sicilia, mentre l’altra è diretta al siciliano Amari; la terza lettera è del siciliano Pirandello. In due lettere, infine, è per così dire coinvolto, nelle persone del ministro e di un alto funzionario, il Ministero della Pubblica Istruzione: ministero che pochi giorni dopo la stesura della lettera di Luigi Pirandello avrebbe cambiato denominazione, diventando – per i rimanenti anni del ventennio fascista – il Ministero dell’Educazione Nazionale.
   Di dov’era il “giovane valorosissimo amico” di Luigi Pirandello? Può darsi fosse romano. Chissà se la raccomandazione del drammaturgo ebbe successo, e il “bravissimo giovane” riuscì a rimanere a Roma. Quanto alla considerazione finale della raccomandazione pirandelliana, lascia un po’ perplessi: perché una cattedra a Roma avrebbe dovuto comportare “maggiori responsabilità” di una cattedra a Milano, Firenze, Napoli, o in qualsiasi altra città italiana? Non so se vi fosse – o vi sia ancora – una graduatoria delle cattedre nei licei italiani. Mi pare di ricordare che, molti anni fa, i primi classificati in taluni concorsi pubblici avessero la possibilità di scegliere la sede di servizio. In ogni caso, ci si fa raccomandare per avere qualcosa che si desidera. E il giovane professore amico di Pirandello desiderava continuare a insegnare a Roma: indipendentemente, è da credere, dalle “maggiori responsabilità d’una cattedra” nella Capitale.
  
Un secolo e mezzo è trascorso dalle due lettere del Manzoni, quasi un secolo da quella di Pirandello, e la raccomandazione non sembra essere ancora scomparsa dal paesaggio sociale italiano. Conversando con l’amico che mi fece dono degli autografi, ipotizzai – scherzando ma non troppo – l’esistenza della figura del ‘raccomandato per legittima difesa’. La illustrai con questa considerazione: in una società in cui molte persone, né meritevoli né stimabili, grazie ad appoggi politici o sindacali si facevano strada a scapito di altri effettivamente meritevoli, questi ultimi avevano tutto il diritto di procurarsi a loro volta una raccomandazione, al fine di limitare i danni che sicuramente, prima o poi, avrebbero subìto. (Da allora, le cose sembrano tuttavia essere cambiate, almeno parzialmente. Moltissimi giovani, meritevoli ma sprovvisti di appoggi o raccomandazioni, hanno infatti trovato il modo di farsi comunque strada nel mondo: non in Italia, ma proprio nel mondo. Con l’emigrazione.)
   In mancanza di raccomandazioni, un giovane intraprendente può anche decidere di auto-raccomandarsi. Come nel caso esposto nella lettera che segue, scritta da un sedicenne e pubblicata sulla prima pagina della Domenica de
Il Sole 24 Ore del 27 novembre 2005.

“Pavia, 12.Agosto. 1895
“Molto Illustrissimo Sig. Professore!
“Il signor ing. Vitali di ritorno da Torino mi riferì, che ebbe la preziosa occasione di conferire colla S.V. Ill. e che precisamente in tale momento Ella mi fece l’onore di ricordarmi.
“Tanta bontà da parte di V.S. Ill. mi fa ardito per pregarla di volermi rilasciare una piccola raccomandazione privata da presentare al signor professore Weber di Zurigo, che ambirei di visitare prima che sia aperto il corso presso quel politecnico a ciò vedere di appianare le difficoltà stante la mia giovinezza per frequentare il succitato corso. Ringraziandola anticipatamente colla più alta considerazione
“di V.S. Ill.
“Devotissimo…”

   La lettera era indirizzata al professor Galileo Ferraris, del Museo industriale di Torino, che avrebbe dovuto raccomandare al collega Heinrich Weber del Politecnico di Zurigo il giovane firmatario della missiva: il quale aveva due anni meno di quelli previsti per l’ammissione al Politecnico zurighese. Lo scrivente non era italiano, e ciò spiega lo stile esitante della sua lettera. In più, il giovane “Alberto Einstein / Presso Ing. Einstein / Garrone e Comp. / Pavia” – così infatti si firmava – era all’epoca del tutto sconosciuto.
  
Non si sa se il professor Ferraris gli abbia rilasciato la “piccola raccomandazione” richiesta. In ogni caso, il futuro premio Nobel si presentò all’esame di ammissione a Zurigo. Ebbe risultati molto positivi in matematica e fisica, ma non in lingue moderne, zoologia e botanica. Venne ascoltato con pazienza e comprensione, ma non riuscì ad essere ammesso. Avrebbe comunque avuto il tempo di rifarsi, e senza raccomandazioni.
   Tornando a Sciascia, la conclusione del suo articolo
“Mi manda Manzoni” esula comunque dal tema della raccomandazione, e si allarga a “una considerazione, per così dire, accademica, da congresso manzoniano”. Citando, senza smentirlo, il luogo comune di una Sicilia refrattaria al romanticismo, Sciascia scrive che “la corrente romantica che approssimativamente possiamo dire manzoniana certamente vi ebbe corso suscitando due grandi storici che la storia sanno raccontare, i cui libri – per dirla banalmente – si leggono come romanzi: Michele Amari e Isidoro La Lumia”. E conclude: “E come Manzoni era nel romanzo avvertitissimo storico, a questi due storici arride un gusto del narrare, quella seduzione del cuore, quella qualità visionaria che Vittorini esattamente riconobbe nella ‘Storia dei musulmani di Sicilia’ dell’Amari”.
  
Da questa affermazione, si è portati a pensare che la descrizione delle meschinità all’origine delle due lettere manzoniane sia stata anche un’occasione per ricordare due grandi siciliani, che furono grandi storici e grandi scrittori. Del Racconto popolare del Vespro siciliano dell’Amari, pubblicato nel 1982 con il numero 43 nella collana La memoria di Sellerio, Sciascia scrisse il risvolto di copertina. Ed è il caso di ricordare che Michele Amari occupò, meritatamente e autorevolmente, la cattedra di arabo istituita a Palermo sul finire del XVIII secolo per l’abate Giuseppe Vella, uno dei due protagonisti de Il Consiglio d’Egitto: che l’arabo invece non lo conosceva. Quanto a Isidoro La Lumia, sono sicuro di aver letto, in un testo sciasciano che purtroppo non ricordo, un aneddoto che illustrava la fermezza di carattere dello storico: lusingato dal governo borbonico con qualche promessa, minacciò di andarsene volontariamente in esilio, se le lusinghe non fossero cessate.

Euclide Lo Giudice