Ragione e istinto

Lo confesso: alcune volte, leggendo di crimini particolarmente efferati, ho pensato che l’autore meritasse la pena di morte. Ma si è trattato soltanto del pensiero di un momento, della reazione istintiva a uno di quegli atti per i quali sembrano inadeguati anche gli aggettivi più forti – atroce, orribile, rivoltante. Penso possa capitare a molti. Càpita anche al protagonista di Porte aperte – pubblicato trent’anni fa, nel 1987 –, che si rovinerà la carriera per essersi rifiutato di irrogare la pena di morte a un individuo assolutamente spregevole, autore di tre omicidi.

   Nella parte iniziale del quarto capitolo del breve romanzo, il “piccolo giudice” fantastica della possibilità di possedere un anello magico – reminiscenza di quello del diderotiano Mangogul – che gli consenta di “rendere invisibile l’imputato”. Il motivo è molto semplice: “Quell’uomo gli dava terribile disagio: quasi che, sollecitandolo nell’istinto e a momenti insopportabilmente acuendoglielo, gli impedisse quel colloquio con la ragione cui era abituato. […] Gli era toccato un caso in cui un uomo, anche il più giusto e sereno, il più illuminato di quella che i teologi chiamano la Grazia e quelli senza teologia chiamano la Ragione, deve fare i conti con la parte più oscura di sé, la più nascosta, la più ignobile appunto”.
   Nel caso del “piccolo giudice”, uomo di superiore levatura morale, la ragione prevale sull’istinto. Almeno due fattori, però, potrebbero spingerlo nella direzione opposta: l’abiezione dell’assassino, e il fatto che la pena di morte sembra a tutti – e in fondo anche a lui – pienamente meritata. In più, egli è consapevole che, non irrogandola, metterebbe a rischio la propria carriera. (Il procuratore, dopo avergli consigliato, velatamente ma non troppo, di fare quel che tutti si aspettano, pensa che in ultima analisi sarà il pensiero della carriera a farlo decidere in tal senso: “ ‘… Eh, la carriera!’. Tant’è che spesso ci si sbaglia, nel giudicare i nostri simili come del tutto simili a noi. Ce ne sono di peggio, ma ce ne sono anche di meglio”.)
   Tutta la città – la Palermo del 1937 – si attende che l’assassino sia condannato a morte e fucilato. Perfino la moglie, che mai aveva parlato con il giudice del suo lavoro, stavolta gli chiede: “Lo condannerete?”, implicitamente intendendo che la condanna sarà alla pena capitale. Ma, anche se il “piccolo giudice” non può sapere quanto molti anni dopo avrebbe scritto Salvatore Satta – e che Leonardo Sciascia porrà in epigrafe a Porte aperte – “La realtà è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale”. E quindi si rifiuta di condannare a morte un essere umano, per quanto ripugnante questi possa essere, e meritevole della massima pena: che non può comunque essere la morte. Per il “piccolo giudice” si tratta, prima di tutto, di una vittoria su se stesso: della sua ragione sul suo istinto. Ma è anche la vittoria, sia pure soltanto temporanea e provvisoria, di un uomo, che è anche un giudice, nei confronti di un ordinamento che prevede la pena capitale.
  
Il travaglio morale del protagonista di Porte aperte non può toccare, si tratti o meno di magistrati, i cittadini di un paese in cui la pena di morte sia stata cancellata. Essere cittadini di uno stato che non prevede tale orrore ci evita di far parte di una società assassina: dopotutto un’esecuzione capitale non è altro che un omicidio. E appunto così – ai fini della rilevazione statistica delle cause di morte – è considerata negli Stati Uniti. Tecnicamente, per così dire, è del tutto corretto. Eppure si tratta di una candida, inconsapevole enormità o, in alternativa, di un grottesco lapsus freudiano: da parte di un’intera società, che si autodefinisce assassina. Infatti le persone uccise e i loro assassini, poi giustiziati a seguito di un regolare processo, sono statisticamente posti sullo stesso piano: le une e gli altri vittime di omicidi. Il boia sta quindi, in un paese che prevede la pena capitale, sul gradino più basso di una società assassina: il popolo sovrano, i suoi rappresentanti che redigono e votano le leggi, i giurati, i giudici, i poliziotti, i secondini e, infine, i boia. (O, invertendo l’ordine, il boia sta sopra tutti, su una specie di altare chiamato patibolo, come sosteneva Joseph de Maistre? In Breve storia del romanzo poliziesco, uno dei saggi raccolti in Cruciverba, Leonardo Sciascia definisce la pena di morte “la pena del taglione, crimine che completa l’altro crimine, crimine collettivo che risponde a quello individuale…”.)
  
Chissà se Sciascia sapeva delle rilevazioni statistiche delle esecuzioni capitali negli Stati Uniti. Lo avesse saputo, forse ne sarebbe stato amaramente, dolorosamente compiaciuto. Perché vi avrebbe trovato la conferma di quanto scrisse in Porte aperte: “… tutto è opinione, di relativo o irrisorio valore; tranne quella che non si può fare arrostire vivo un uomo soltanto perché certe opinioni non condivide. E tranne quella, qui, oggi, anno 1937 (anno 1987), che l’umanità, il diritto, la legge – e insomma lo Stato che filosofia idealistica e dottrina del fascismo dicevano allora etico – rispondere con l’assassinio all’assassinio non debbano”. E ciò senza considerare che, sempre negli Stati Uniti, può accadere che un condannato a morte, prima di essere giustiziato, debba scontare anche una lunghissima pena detentiva, quasi un ergastolo: come è accaduto a due uomini, messi a morte nel 2015 e nel 2016, rispettivamente dopo trentuno e trentasei anni trascorsi in prigione, gran parte dei quali nel braccio della morte. (Supporre che tale luogo sia particolarmente brutto, o comunque afflittivo, sarebbe però un errore. Nel sito del Texas Department of Criminal Justice si legge infatti: “In 1999, the TDCJ moved death row to the Polunsky Unit. The Polunsky Unit houses death row offenders separately in single-person cells, with each cell having a window. Death row offenders are also recreated individually. Offenders on death row receive a regular diet, and have access to reading, writing, and legal materials. Depending upon their custody level, some death row offenders are allowed to have a radio. The women on death row are housed at the Mountain View Unit. Offenders on death row do not have regular TDCJ-ID numbers, but have special death row numbers.” L’estensore dev’essersi ispirato ai siti o ai pieghevoli degli alberghi: mancano soltanto il panorama – anche se la Mountain View Unit riservata alle donne lo lascia intuire – e la lista dei ristoranti. Tanto che quel “death row”, ripetuto ossessivamente, sembra soprattutto un monito rivolto agli ospiti della struttura, per rammentar loro che non vi si trovano in villeggiatura.)
   La strada che dovrebbe portare all’abolizione generalizzata della pena di morte è comunque ancora molto lunga, e presenta tappe che non ci si attenderebbe.
In una sua nota del 9 ottobre 1994, sulla Domenica de Il Sole 24 Ore, Italo Mereu (Merit), tra l’altro membro dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, nel salutare l’abolizione totale della pena di morte in Italia, compresi i casi in precedenza previsti dal codice penale militare di guerra, faceva notare che invece la Chiesa, nel paragrafo 2266 del suo Catechismo, ancora ammetteva la pena di morte, come forma di difesa della società. (La pena di morte fu poi formalmente abolita da Giovanni Paolo II nel 2001, e ora il paragrafo 2266 parla di “correzione del colpevole”: cosa ovviamente impossibile, nel caso in cui il colpevole fosse condannato a morte e – si è tentati di dire – consegnato al braccio secolare per l’esecuzione della sentenza.)
  
Dei delitti e delle pene, considerato il primo libro contro la tortura e la pena di morte, fu pubblicato anonimo a Livorno, nel 1764. Contrariamente a quanto pensano molti, il libro di Cesare Beccaria non è contrario alla pena di morte in assoluto: il ventottesimo paragrafo, intitolato appunto “Della pena di morte”, prevede infatti due eccezioni al generale ripudio della pena capitale. Se menziono l’opera del Beccaria è tuttavia a causa di una curiosità. Nella lettera che Lord Byron scrisse al suo editore John Murray da Milano, il 15 ottobre 1816, si legge infatti questo passo: “– A proposito, ho appena sentito un aneddoto di Beccaria che pubblicò cose così ammirevoli contro la pena di morte: – poco dopo uscito il suo libro – il suo servo (avendolo letto immagino) gli rubò l’orologio – e il padrone mentre correggeva le bozze di una seconda edizione fece tutto quanto poteva per farlo impiccare come pubblicità”.
   Quando diversi anni fa lessi la lettera – nella Vita attraverso le lettere, Millenni Einaudi 1989, a cura di Masolino d’Amico – fui colpito dall’ultima frase e soprattutto dall’ultima parola – “pubblicità” – che mi parvero quasi incredibili. Volli quindi verificare sul testo originale, che è questo
: “– By the way I have just heard an anecdote of Beccaria who published {such} admirable things against the punishment of death: – as soon as his book was out – his Servant (having read it I presume) stole his watch – and his Master {while} correcting the proofs of a second edition did all he could to have him hanged by way of advertisement.” Anche all’epoca di Lord Byron la parola advertisement aveva il significato che ha oggi, con tutto quel che ne consegue sulla personalità di Cesare Beccaria. Ma l’aneddoto, per vari motivi, sembra soltanto una calunnia ai danni di un uomo non particolarmente simpatico negli ambienti dell’aristocrazia milanese, qual era l’autore del Dei delitti e delle pene. Quando George Gordon Byron scrisse la lettera in questione a John Murray, era arrivato a Milano da due giorni. Era andato in giro per la città – di cui descrive alcuni luoghi all’amico – e aveva incontrato diversa gente, anche alla Scala, che era una sorta di salotto cittadino. A casa del fratello di Ludovico di Breme aveva conosciuto Vincenzo Monti, Silvio Pellico e Henri Beyle, non ancora Stendhal. Fu quindi nel corso di questi incontri che sentì l’aneddoto calunnioso su Beccaria, morto circa vent’anni prima.
   Il problema – per il marchese Beccaria, ma soprattutto per il celebrato autore del Dei delitti e delle pene – nasce però da un’altra lettera: di Ugo Foscolo, indirizzata a Isabella Teotochi Albrizzi il 7 maggio 1807, che si trova nella Autobiografia dalle lettere, Salerno Editrice 1979, a cura di Claudio Varese. Nella missiva, che inizia con il racconto di un furto di circa millequattrocento lire dell’epoca subìto dall’autore dei Sepolcri, si legge: “…per non rinnovare l’esempio del Beccaria il quale, dopo d’avere pubblicato il libro de’ Delitti e delle pene
, fece imprigionare per furto domestico un suo palafreniere – il reo era negativo, e il declamante contro la tortura gridò al tribunale: a che non gli date la corda? Aneddoto raccontatomi dalla sorella, dal fratello e dalla figlia del Beccaria…”. Si deve ammettere che si tratta di qualcosa di più verosimile e circostanziato di quanto raccontato da Lord Byron, anche perché Foscolo cita le fonti.
   Ho riportato questo aneddoto, nelle sue due versioni, per sottolineare come in qualsiasi persona – anche la più colta e ragionevole, come senza dubbio era Cesare Beccaria –, possa far capolino un istinto piuttosto ignobile. Ed è perciò ancor più notevole l’esempio offerto dal “piccolo giudice” dello sciasciano Porte aperte: che per non venir meno ai suoi convincimenti di uomo civile, prima che di magistrato, si rovina la carriera. Ma può continuare a guardare dentro di sé con tranquilla coscienza: in lui la ragione ha prevalso sull’istinto, l’umanità è riuscita a imbrigliare quella parte di animalità che si nasconde in ciascuno di noi.

Euclide Lo Giudice