Leggere, rileggere, sgomitolare

Ci sono degli scrittori che diventano per noi degli autentici amici, anche se non abbiamo avuto la fortuna di conoscerli personalmente. Lo disse bene il giapponese Kenkō, circa sette secoli fa, nel suo libro Momenti d’ozio, pubblicato in Italia da Adelphi: “Lo svago più gradevole è di starsene seduti da soli sotto la lampada, con un libro aperto davanti, e di fare amicizia con persone di un lontano passato che non abbiamo mai conosciuto…”. Sono quei pochi scrittori che, oltre che amici, diventano per certi lettori anche maestri e consiglieri: ed è ciò che, quasi inevitabilmente, accade con Leonardo Sciascia. Per chiunque lo ami, è quindi normale (ri)leggerne le opere, e la pubblicazione di una nuova edizione di un suo libro è sempre una festa.

   È quel che mi è accaduto in occasione dell’uscita nelle librerie di A futura memoria (se la memoria ha un futuro), nella nuova edizione a cura di Paolo Squillacioti, per i tipi di Adelphi. Avevo letto il libro la prima volta nell’edizione originale Bompiani, pubblicata nel dicembre 1989, subito dopo la morte di Sciascia. E l’ho subito (ri)letto nell’edizione Adelphi, nei giorni successivi alla pubblicazione.
  
Degli articoli raccolti nel volume, quello pubblicato sul Corriere della Sera del 14 ottobre 1983, con il titolo “Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri”, è certamente uno dei più alti e sentiti. Ne ricordavo soprattutto la parte conclusiva, che mi aveva lasciato un’impressione fortissima fin dalla prima lettura, fatta sul quotidiano.
   Rispetto alle precedenti, la nuova lettura dell’articolo sciasciano ha fatto subito riemergere dalla mia memoria altri due testi, letti nel frattempo: il J’accuse di Émile Zola, nell’edizione bilingue pubblicata da La Vita Felice nel 1994, e un libro di racconti di Julian Barnes, intitolato Oltremanica e pubblicato da Einaudi nel 1997.
   È stato infatti automatico accostare la serie degli otto “J’accuse” della parte finale del pamphlet di Zola ai sei “… se è vero che…” che marcano la conclusione dello sciasciano “Semplice discorso sul caso Tortora, sul caso giustizia e sui casi nostri”. Nel caso del libro di Barnes, invece, l’accostamento è scattato grazie al cognome di un personaggio. Il protagonista di uno dei dieci racconti riuniti in Oltremanica si chiama infatti Pierre Chaigne, e un cognome vagamente simile compare nella lunga parte introduttiva, che verte sull’affaire Calas, dell’articolo di Sciascia.
   Nel 1762, a Tolosa, il protestante Jean Calas fu atrocemente giustiziato con l’accusa di aver ucciso il figlio primogenito, per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Sulla vicenda, l’anno successivo Voltaire pubblicò il Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas, che contribuì in misura determinante alla revisione del processo e al riconoscimento dell’innocenza di Jean Calas, riabilitato nel 1765. Grazie a Voltaire, l’innocenza di Calas fu da allora data per scontata. Ma intorno al 1930 – scrive Sciascia nel suo articolo sul Corriere della Sera – l’editore parigino Perrin pubblicò un libro di Marc Chassaigne intitolato L’affaire Calas, nel quale l’autore sosteneva che Voltaire aveva considerato soltanto gli elementi a discolpa di Calas, e che pertanto l’innocenza dello sventurato non fosse cosa sicura. Sciascia, che ebbe in dono il libro di Chassaigne dal diplomatico Jacques de Pressac, traduttore di alcune sue opere, ammetteva che Voltaire potesse essersi sbagliato: “Lo ammetto anzi, il suo errore, come probabile. Ma che importanza ha che si sia sbagliato? Importante è che sulla giusta o errata visione dei fatti sia nato il Trattato della tolleranza”.
  
Chaigne - Chassaigne: una semplice, vaga assonanza, quindi, che però assume una stimolante valenza per via del titolo – “Dragoni” – e dell’argomento del racconto di Barnes: la conversione forzata degli ugonotti al cattolicesimo. Si trattò di una persecuzione che si sviluppò per circa un ventennio e fu coronata nel 1685 con l’abrogazione, da parte di Luigi XIV, dell’editto di Nantes. Con quell’editto, nel 1598 Enrico IV aveva garantito la libertà di culto agli ugonotti, sia pure con diverse limitazioni, e aveva così messo fine alle guerre di religione che per alcuni decenni avevano insanguinato la Francia. (Ed è forse qui il caso di rammentare, sia pure a titolo di semplice curiosità, che la moglie di Michel de Montaigne – testimone di quei conflitti religiosi e amico di Enrico IV – si chiamava Françoise de la Chassaigne.)
   Nei libri di storia per le scuole superiori capita di leggere delle dragonnades, delle quali tuttavia non si forniscono molti particolari. Per fare un solo esempio, nel manuale ad uso dei licei di Armando Saitta, Il cammino umano, che per alcuni decenni ha fatto compagnia agli studenti italiani, la parola non compare, ma si legge che Luigi XIV oppose “alla libertà della coscienza la spada brutale dei propri dragoni”. Nel suo Le siècle del Louis XIV Voltaire è ovviamente meno sintetico, ma non fornisce molti dettagli, pur lasciando intuire un’estrema violenza:

“Vers la fin de 1684, et au commencement de 1685, […] les troupes furent envoyées dans toutes les villes et dans tous les châteaux où il avait le plus de protestants; et comme les dragons, assez mal disciplinés dans ce temps-là, furent ceux qui commirent le plus d’excès, on appela cette exécution la dragonnade.
“ […]
“Un évêque, un intendant, un subdélégué, ou un curé, ou quelqu’un d’autorisé, marchait à la tête des soldats. On assemblait les principales familles calvinistes, surtout celles qu’on croyait les plus faciles. Elles renonçaient à leur religion au nom des autres, et les obstinées étaient livrées aux soldats, qui eurent toute licence, excepté celle de tuer…”

   I dragoni avevano quindi ogni licenza, esclusa quella di uccidere, scrive Voltaire, limitandosi ad aggiungere subito dopo: “il y eut pourtant plusieurs personnes si cruellement maltraitées qu’elles en moururent”. La persecuzione dei protestanti continuò anche dopo il regno di Luigi XIV, e quasi fino alla vigilia della Rivoluzione: come si può leggere ne Le origini della Francia contemporanea - L’antico regime, di Hippolyte Taine, in cui sono evidenziati sia l’interessata complicità tra la corona e la Chiesa cattolica, sia il continuato ricorso all’invio dei dragoni.
  
Lo splendido, agghiacciante racconto di Julian Barnes intitolato “Dragoni” è la cronaca, apparentemente distaccata ma proprio per questo più sconvolgente, dell’insediamento di tre militari, un ufficiale e due soldati, nella casa del falegname Pierre Chaigne. Oltre a lui, vedovo, la famiglia è composta da una zia, già cattolica ma ora protestante, e dai tre figli, due maschi e una femmina. La famiglia deve fornire il cibo per gli occupanti, e accontentarsi degli avanzi. I militari, che tra loro parlano una lingua sconosciuta, riservano per sé l’unico letto della casa, costringendo la famiglia Chaigne a dormire per terra e, nonostante sia estate, vogliono avere il fuoco sempre acceso. Per farlo, prima bruciano i mobili che non usano personalmente, poi il legname pregiato messo da parte da decenni da Pierre Chaigne per il suo lavoro di falegname. Quando la zia si ammala, i dragoni le cedono il letto ma chiamano il curato, che in sei ore la riconduce nel seno della Chiesa. Raggiunto l’obiettivo, l’anziana donna viene rimessa a dormire per terra e muore nel giro di due giorni. L’obiettivo successivo è il piccolo Daniel, di nove anni, che viene portato in chiesa, convinto ad abiurare, e poi inviato in un collegio gesuita, lontano dalla famiglia e dal villaggio. Trascorrono tre mesi. E un giorno, mentre Pierre Chaigne e il figlio maggiore, il quindicenne Henri, sono fuori in cerca di cibo scortati dai due dragoni, l’ufficiale violenta la tredicenne Marthe. Poi lo farà anche uno dei due soldati. Per far cessare lo scempio, Henri abiura, ma i dragoni continuano ad abusare della sorella. “Di conseguenza, durante la Santa Messa della domenica, Henri Chaigne sputò l’ostia consacrata e il vino che aveva appena ricevuto dal prete. L’atto blasfemo contro il corpo e il sangue del Signore, gli valse un processo del Vescovo e la condanna a morte per mano dei soldati, che lo bruciarono vivo.” Finalmente il capitano dei dragoni, che come i suoi due uomini ha sempre parlato una lingua straniera, manifesta la sua ammirazione per la ragazzetta, che ha sopportato con coraggio le continue violenze, e le dice che vuole risparmiarle altre sofferenze: ma dovrà abiurare. “Quel che accadrà è che tu aspetterai un bambino. E allora noi testimonieremo che tuo padre ha abusato di te in nostra presenza. E tu sarai portata in giudizio insieme a tuo padre e sarai condannata con lui. Sarai arsa sul rogo insieme a tuo padre e alla creatura che è frutto di questa unione incestuosa.” Marthe abiurerà, sarà separata dal padre e portata in una istituzione cattolica, e Pierre Chaigne resterà solo. “La settimana seguente i dragoni lasciarono il paese. Il numero degli eretici era sceso da centosettantasei a otto. Restavano sempre gli ostinati, ma l’esperienza aveva dimostrato che, in condizione di grande svantaggio numerico, il loro impatto era quasi nullo, e che si riducevano a condurre un’esistenza amara e miserrima. I dragoni dovevano procedere verso sud e ricominciare l’opera altrove”. Due sere dopo la partenza dei dragoni, Pierre Chaigne va nel capanno da lavoro a prendere la lampada che ha preparato da tempo e si avvia “nella notte fredda. Il raggio giallo della sua lampada si protendeva tremolante nella foresta, dove gli altri ostinati lo aspettavano per unirsi a lui in preghiera”.
   Marthe Chaigne, dopo aver scoperto che il capitano dei dragoni che l’aveva ripetutamente violentata parlava anche la sua lingua, gli aveva chiesto da dove venisse. E lui aveva risposto: “Da un paese chiamato Irlanda”. “E dov’è?” “Di là dal mare. Vicino all’Inghilterra.” “E l’Inghilterra dov’è?” “Di là dal mare anche quella. Al nord.” “E perché venite da tanto lontano a perseguitarci?” “Perché voi siete eretici. La vostra eresia mette in pericolo la Santa Madre Chiesa. Tutti e dovunque hanno il dovere di difenderla.” La ragazzetta commenta: “Per trenta denari.” Al che il dragone ribatte: “Se non sai nulla dell’Inghilterra, allora non sai chi è Cromwell.” “E chi è?” “Adesso è morto.” “È il vostro re? È lui che vi ha reclutati? Per mandarvi qui a perseguitarci?” “No, al contrario… Sì, forse sì. Si può dire che mi abbia reclutato lui.”
   I dragons étrangers du roi – quelli almeno del racconto di Julian Barnes – erano quindi dei cattolici irlandesi, che sfogavano sui protestanti francesi l’odio che avevano accumulato contro i protestanti inglesi, che li avevano perseguitati per la loro fede cattolica: e sembrerebbe quasi un gioco di parole, se non fosse la sintesi di una doppia tragedia. Fa un certo effetto leggere, in alcuni passi del racconto, che i dragoni giustificavano le loro atrocità dicendo: “Che importa la via, se il Paradiso è la meta?”. Parole che richiamano, sia pur molto vagamente, il “todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina…” degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola. E gli “ostinati” protestanti francesi che si riuniscono nottetempo, nel folto di una foresta, insieme a Pierre Chaigne, a dispetto delle persecuzioni: li si può definire “uomini di tenace concetto”, come lo sciasciano fra Diego La Matina?
   In una lettera scritta da John Adams a Thomas Jefferson, rispettivamente secondo e terzo Presidente degli Stati Uniti – e citata da Gore Vidal in uno dei pamphlet raccolti in Democrazia tradita. Discorso sullo stato dell’Unione 2004 e altri saggi (Fazi Editore, 2004) –, si legge: “Venti volte, nel corso della mia ultima conferenza, sono stato sul punto di scoppiare dicendo: ‘Questo sarebbe il migliore dei mondi possibili se non vi fossero le religioni’ ”. John Adams esagerava? Certo è che la pensava come Voltaire, che a proposito del fanatismo religioso era molto netto: “Écrasez l’infâme”. (Quanto alla possibilità di “ce meilleur des mondes possibles”, tanto cara al suo dottor Pangloss, Voltaire non ne era affatto sicuro.)
   Le divagazioni che precedono sono il frutto di una rilettura – o meglio di una nuova lettura, a distanza di più di un trentennio dalla prima – di un articolo di Leonardo Sciascia. Nel saggio
“Del rileggere”, che si trova in Cruciverba, Sciascia scrive che il rileggere è “un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l’altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi. Ed è perciò che la gioia del rileggere è più intensa e luminosa di quella del leggere”. Anche perché non di rado – per non dire quasi sempre – una rilettura può dare il via ad altra operazione, come accade al protagonista di Porte aperte: “Lasciò la lettura del Giuffredi – si legge nell’ottavo capitolo del romanzo – per cercare altro libro di cui improvvisamente si era ricordato: del Pitrè, sul culto delle anime dei corpi decollati. Amava molto sgomitolare, tra i suoi libri e nei suoi pensieri, il filo di estemporanee curiosità. Da quando aveva cominciato ad avere a che fare coi libri: e perciò i suoi fratelli, che sui libri stavano con più volontà e fatica, lo consideravano un perdigiorno. Ma sapeva di aver tanto guadagnato, in quelle ore o giornate perdute; e comunque ne aveva sempre tratto piacere”.
  
Leggere, rileggere, sgomitolare: che magnifiche cose! Considerati i tanti che pensano che la lettura sia una perdita di tempo, vien da pensare siano cose riservate to the happy few.

Euclide Lo Giudice