I calabroni non possono volare, eppure volano

Sul Tempo illustrato del 31 gennaio 1970, Sciascia fa il resoconto giornalistico di una manifestazione di protesta dei terremotati di Gibellina, a due anni di distanza dal sisma che il 15 gennaio 1968 aveva devastato la valle del Belice, distruggendo completamente sei paesi e provocando 340 morti immediati e il doppio nei giorni successivi, per la lentezza dei soccorsi. Alla fiaccolata sulle rovine spettrali del paese “visione allucinante, di un orrore che arrivava alla bellezza”, Sciascia partecipò in prima persona, e dopo due settimane racconta l’evento con una partecipazione emotiva così sentita e, nello stesso tempo, con una lucidità così asciutta, che l’articolo “I dimenticati di Gibellina” risulta bellissimo e attuale ancora a 47 anni di distanza (i terremoti del resto si susseguono e con essi si ripetono le dinamiche del “dopo”).

Sciascia comincia con un paragone storico, rievocando il terremoto di un altro 15 gennaio (che coincidenza terribile), quello del 1693, in cui erano morte 59.700 persone ed era andata distrutta gran parte della Sicilia orientale: la rovina più grande che la Sicilia abbia subito nei secoli. Su tale distruzione era intervenuto il vicario del Viceré, il duca di Camastra, che, recandosi a Catania e prendendo visione e consapevolezza della catastrofe, “con un rigore temperato dalla pietà”, aveva cominciato l’opera di ricostruzione, restituendo a quella parte dell’isola un volto ancora più bello di prima. Il ricordo di tale evento ritornerà anche in Nero su nero. Nel 1971 Sciascia incontra l’ingegnere “democratico e socialista” che presiedeva ai lavori di ricostruzione del post terremoto, il quale, proprio in riferimento all’articolo del Tempo di cui stiamo parlando, ironizza sui tempi del duca di Camastra (“Ma sa che ci sono voluti quarant’anni, per ricostruire interamente quei paesi?), senza tener conto che si era nel Seicento, con “ordegni”, per dirla con le parole del popolano Pascarella, antichi e inadeguati. Ma, pur nella sua incompetenza tecnica, spiega Sciascia, il duca aveva pieni poteri e una visione del bello e dell’armonia che permisero alla Sicilia barocca di rifiorire in tutto il suo splendore. Per il terremoto del Belice del ’68, purtroppo, questo non era avvenuto: si era pensato a montare tende, a costruire costosissime baracche di materiali pessimi, roventi d’estate e gelidi d’inverno, con la “vera e profonda volontà e vocazione di non fare niente”. La politica, in pieno Novecento, prodiga delle solite promesse mai mantenute, aveva superato in immobilismo e inefficienza il governo dei Viceré. Per lo Stato italiano, quei paesi, una volta ricostruiti, sarebbero rimasti spopolati a causa dell’emigrazione, che in forma drammatica aveva colpito la Sicilia fin dall’Unità, ed era già costata un esodo di 5 milioni di persone: quindi, perché affannarsi tanto nella ricostruzione? Ma questo non poteva, non doveva essere il criterio da seguire e Sciascia lo ribadisce con forza. I calabroni, per la scienza, non potrebbero volare, eppure volano; i Siciliani non potrebbero essere vivi, eppure vivono; anzi, vogliono vivere. E per vivere bisogna ricostruire le case, le piazze, gli edifici, indipendentemente da ciò che il destino o la provvidenza determinerà nel futuro di quel popolo.

Insieme a Sciascia, sulle rovine di Gibellina, si ritrovarono quella notte Guttuso, Carlo Levi, Treccani, Damiano Damiani, Zavattini e docenti universitari di materie scientifiche e umanistiche. Dunque c’è stato un tempo in questo Paese, nel quale gli intellettuali (tra i più importanti) erano a fianco dei dimenticati, degli ultimi, di quelli che erano sopravvissuti due anni prima e che ancora, nonostante tutto, nella disperazione di aver perso tutto – “roba” e persone – recuperarono le forze per esercitare il loro diritto ad esistere.