Il candore della verità

Le interviste rilasciate da Leonardo Sciascia alle diverse testate durante tutto il corso della sua vita raccontano molto dell’uomo e dello scrittore. Il piacere di leggerle e di scoprire lati inediti e curiosi della sua personalità accompagna il lettore tra una domanda e l’altra, come accade anche per un’intervista al Corriere della Sera illustrato del 5 novembre 1977.

Sciascia ha trascorso tutta l’estate del ’77 nel suo ritiro a la Noce, dedicandosi alla scrittura di un nuovo racconto Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia, e parla di questo al giornalista Roberto Ciuni. Oltre alle informazioni che già conosciamo sul “conte philosophique”, al richiamo di Voltaire e Camus e alla conferma dell’accoglienza che la Francia sempre tributa allo scrittore siciliano, l’intervista riserva delle sorprese. Alla domanda “Chi è Candido? È Sciascia?”, il Nostro risponde che Candido è uno che cerca di semplificare, di arrivare all’osso delle questioni, di dare bianco al bianco e nero al nero, mentre di se stesso dice di essere maledettamente complicato, nonostante in lui ci siano sempre il desiderio e la ricerca continua della semplificazione. Il pirandellismo che lo guida e che lo porta ad occuparsi di casi senza soluzione (vedi anche i suoi gialli, per esempio La scomparsa di Majorana) costituisce il fondo di un’ambiguità che gli impedisce di credere nei fatti, nei documenti e lo induce a complicare le cose. In un’altra intervista a Critica sociale del 13 gennaio 1978, riportata in Valter Vecellio, Saremo perduti senza la verità, si definisce “Uno che cerca di semplificare, secondo verità”. Appare chiaro, in un sillogismo fin troppo evidente, come Candido rappresenti per Sciascia l’incarnazione dello scrittore che lui ha sempre cercato di essere. Il candore contenuto nel suo nome è intelligenza, intuizione, essenzialità, doti necessarie per approdare dal sistema complesso di pensiero all’essenzialità dei fatti. La complicazione, al contrario, è sinonimo di imbecillità, e l’ormai celebre riferimento al berretto di Charles Bovary lo spiega alla perfezione.
Un’altra suggestione. Candido sembra essere il fratello più evoluto e raffinato di Giufà, il personaggio delle storie che appartengono al patrimonio siculo-arabo, il quale, a dispetto del suo ruolo da sciocco del paese, nasconde dentro di sé un demone, quello della “letteralità”. Nella Prefazione alle Storie di Giufà della Sellerio, a cura di Francesca Maria Corrao, lo stesso Sciascia individua questa presenza misteriosa che non permette a Giufà di comprendere il significato metaforico delle parole o dei modi di dire (“Quando esci, tìrati la porta” e lui la scardina portandosela dietro), il che significa non riuscire a concepire un livello diverso dalla verità nuda e cruda. Quella del babbeo Giufà è una vera e propria ribellione alla menzogna, una messa in discussione delle certezze conformistiche e dogmatiche su cui poggia la società.
Candido è il sogno della ragione in un contesto irrazionale come quello della Sicilia, e avrebbe dovuto avere la leggerezza e la velocità proprie del racconto volterriano, che, secondo Sciascia, non possiede, perché l’ambiente siciliano è greve e non gli concede queste caratteristiche. È un’autocritica che noi non ci sentiamo di condividere, dal momento che il romanzo si legge con un sorriso serio e leggero dall’inizio alla fine, per via di quell’aria da scherzo – inteso alla Kundera, quale categoria letteraria che nasce a contatto con il regime – ragione per cui Sciascia, lo dice alla fine dell’intervista, avrebbe voluto come epigrafe il verso di Palazzeschi “E lasciatemi divertire”. Sebbene lo scrittore e l’uomo non si divertano per niente.

Roberta De Luca