La patente

Sulla rivista L’Automobile, il 26 aprile del 1983, viene pubblicata una “quasi” intervista a Leonardo Sciascia, allora deputato alla Camera del Parlamento italiano. Si tratta più che altro di una conversazione tra lui e il giornalista Carlo Gregoretti in un giorno di primavera inoltrata, a Roma, durante la pausa dai lavori parlamentari. La trattoria in cui i due si incontrano è accanto al Pantheon. Sciascia è un cliente abituale, poiché “qui fanno bene la pasta”, soprattutto gli spaghetti alle vongole (con l’aggiunta di un po’ di cozze), e servono un gelato al pistacchio che ricorda il sapore della Sicilia e della giovinezza. Lo scrittore racconta che gli piace arrivare in taxi, poiché non ha la patente di guida e le automobili non lo hanno mai attratto più di tanto, nonostante la macchina e la velocità siano state un mito collettivo della sua infanzia.

L’unica patente che si riconosce ironicamente è quella del pessimista, con cui ormai è abituato a convivere, e alla quale si è anche affezionato:

È l’unica patente che ho, quasi mi ci sono affezionato. La verità è che nel mio pessimismo siciliano, il pessimismo di una terra dove il verbo al futuro praticamente non esiste tanta è l’incertezza del domani, io sono un siciliano ottimista. Voglio dire che ci sono in giro tante rovine, eppure in mezzo alle rovine io vedo tante energie che si ricreano, che resistono. Sono uno scrittore che ha il coraggio della paura e il coraggio della fiducia”

Non può sfuggire il sottile riferimento alla novella pirandelliana che narra la vicenda di Chiàrchiaro, intitolata La patente: la patente da iettatore è, per il personaggio di Pirandello, la forma necessaria alla sua sopravvivenza, fuori dalla quale non gli è consentito vivere, è l’ubi consistam in cui gli altri lo collocano, indipendentemente dal suo sentimento della vita e dalla verità vera. Il pessimismo di Sciascia, come quello di Leopardi, come quello di Camus, e di tanti altri, inteso come negatività e rinuncia rispetto al reale, è una costruzione della critica, una nozione che ripetiamo stancamente, spesso senza coglierne il senso, una forma in cui non si vuole scoprire il sentimento del contrario. Quando ci hanno insegnato a scuola che Leopardi ha attraversato le tre fasi del pessimismo (individuale, storico e cosmico) – categorie per fortuna in declino – nessuno forse ci ha fatto sapere che l’autore utilizza solo una volta il termine “pessimismo” nello Zibaldone, e lo fa attribuendogli un’accezione negativa, che non intende per nulla esaltare o valorizzare; non ci hanno fatto ben comprendere l’energia che sprigiona La ginestra, un messaggio di lotta e di fiducia nel consorzio umano che rivive dalla lava del Vesuvio; ci hanno rifilato l’assurdo di Camus, senza farci vedere ne La peste o ne Il mito di Sisifo la capacità infinita dell’uomo di combattere e di resistere; e infine hanno etichettato l’amaro Sciascia, il pessimista Sciascia, come lo scrittore dalla cupa visione del mondo, nel solco della tradizione siciliana, senza alcuna possibilità di redenzione.

Forse invece noi avevamo notato la lucidità critica, l’ironia corrosiva, la forza del ragionamento, l’agonismo della mente, la fiducia nell’uomo e nella sua forza a trasportare il masso verso la cima, l’amore per la vita, la rinuncia alle facili consolazioni e agli autoinganni, l’umorismo feroce, l’approccio problematico, la verità sempre. E la memoria dei fatti umani che egli continuerà a ricordare anche nell’aldilà: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.

Distrattamente, però, hanno chiamato tutto questo, pessimismo.

Roberta De Luca