Due enigmi sciasciani

Forse non è del tutto azzardato ipotizzare che, per molti lettori, gran parte della vita letteraria di Leonardo Sciascia sia racchiusa tra due enigmi: il titolo del suo romanzo più famoso, e l’epitaffio inciso sulla sua tomba.
   Un lettore che si trovi per la prima volta tra le mani
Il giorno della civetta – il romanzo del 1961 che a Sciascia aveva dato la celebrità, ma non era quello da lui più amato – quasi certamente si chiede quale sia il significato del titolo. E di sicuro non viene aiutato dalla brevissima quanto enigmatica epigrafe: “… come la civetta quando di giorno compare. Shakespeare, Enrico VI”.

   L’interpretazione autentica del titolo la dette lo stesso Leonardo Sciascia, in due occasioni. La prima, in un testo allegato alla lettera del 5 dicembre 1960 indirizzata al poeta sloveno Ciril Zlobec. (Il carteggio Sciascia-Zlobec è stato recuperato da Francesco Izzo, e se ne può leggere nel saggio di Giovanna Lombardo “Siccome eravamo dei ricercatori anche in senso etico e morale”. La letteratura, l’arte e l’amicizia nel carteggio tra Leonardo Sciascia e Ciril Zlobec, pubblicato in Leonardo Sciascia e la Jugoslavia, a cura di Ricciarda Ricorda, Leo S. Olschki Editore, collana “Sciascia scrittore europeo”, Firenze, 2015). Questo è il brano del testo sciasciano:

Tra qualche settimana sarà pubblicato, in edizione Einaudi, un mio nuovo racconto che s’intitola – da una battuta dell’Enrico VI di Shakespeare – Il giorno della civetta. La ragione del titolo è questa: come la civetta è animale notturno, e diventa – dice Shakespeare – ‘oggetto di meraviglia se di giorno compare’, così la mafia va perdendo in Sicilia le sue caratteristiche notturne per comparire alla luce del giorno. Cioè: questo fenomeno delinquenziale che è la mafia, che prima agiva nascostamente, segretamente, ora, grazie a determinate complicità politiche, agisce senza più nascondersi nella vita del popolo siciliano: ed è una grande forza negativa per il rinnovamento e il progresso cui la Sicilia è avviata. Spero che questo racconto serva a chiarire la natura, la struttura e le incidenze del fenomeno mafia: fenomeno di cui tanto si parla, ma con romanzesca approssimazione. Perché la mia ambizione è soprattutto questa: rappresentare la realtà umana, storica, economica e politica della Sicilia.”

   La seconda occasione fu l’intervista che Sciascia concesse a Tom Baldwin quasi un ventennio dopo: il 20 maggio 1979, a Parigi. Nella parte rimasta inedita di tale intervista – della quale Paolo Squillacioti riporta un estratto nelle sue “Note ai testi” del primo volume delle Opere. Narrativa - Teatro - Poesia, da lui curate per Adelphi e pubblicate nel 2012 – si legge quanto detto da Sciascia al suo intervistatore inglese:

Quando uno ha difficoltà a trovare un titolo, può aprire a caso la Bibbia o Shakespeare e lo trova. Io ho fatto l’operazione con Shakespeare ed è venuta fuori questa frase ‘… come la civetta quando il giorno compare’. Ci ho pensato se non andasse benissimo col tema del libro. La civetta è un animale notturno; invece questa specie di società segreta che è la mafia, società diciamo notturna, in Sicilia agisce di giorno. Lo sanno tutti, tutti la conoscono e non suscita nessuna meraviglia.” (E a un’altra domanda dell’intervistatore risponde, n.d.r.) “Sì, i titoli sono sempre importanti; e questo mi pare che dia anche misteriosamente e ambiguamente il senso del libro. La civetta, animale notturno, diventa animale diurno in Sicilia: una metafora”.

   Il primo enigma, quello relativo al significato del titolo de Il giorno della civetta, non è quindi più tale da molti anni. Il secondo enigma, invece, quello che riguarda l’epitaffio che Sciascia scelse di far incidere sulla propria tomba – “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta” – per molti sciasciani, per non dire dei semplici lettori, lo è ancora. Anche un amico di Sciascia come Andrea Camilleri – ma non dei più stretti, quelli che lo chiamavano col diminutivo Nanà – non ha idea di quale fosse il messaggio che Sciascia intendeva trasmettere con la frase di Villiers de l’Isle-Adam. In un’intervista rilasciata a Gaetano Savatteri (“Nanà e Nenè. Uno di Racalmuto, l’altro di Porto Empedocle. Uno ha inventato Regalpetra, l’altro ha creato Vigàta”), e pubblicata su Malgradotuttoweb.it il 24 febbraio 2018, i due parlano tra l’altro dell’epitaffio inciso sulla tomba.
  
Una frase che, ancora una volta, solleva molti dubbi e interrogativi, pervasa da una leggera ironia – dice Savatteri –. Secondo te qual è il significato di quest’ultima frase e perché Sciascia potrebbe averla scelta come epitaffio?”
“Come tutti sappiamo – risponde Camilleri –, Leonardo inizialmente voleva che sulla sua tomba venisse scritto: visse e si contraddisse (quasi sicuramente Camilleri ricorda male: semmai Sciascia avrebbe voluto “contraddisse e si contraddisse”, n.d.r.). Poi cambiò parere. Ammetto che la frase scelta alla fine che mi pare sia di Villiers de l’Isle-Adam possa essere di dubbia interpretazione. E forse, una volta tanto Leonardo ha voluto lasciarci nel dubbio. Credo che negli ultimi tempi lo sguardo di Leonardo si fosse molto ampliato sul mondo, l’ironia risulta quindi chiarissima.”
  
Anche in questo caso, Leonardo Sciascia aveva fornito l’interpretazione autentica della sua scelta: in un’intervista rilasciata a Carlo Gregoretti e pubblicata sulla rivista L’Automobile del 26 aprile 1983, con il titolo “La mia auto è un sogno da bambino”. L’intervista si chiude con le parole che seguono:

Ho parlato troppo di me, della mia terra, di Racalmuto. E quando questo mi capita, di solito mi viene in mente la frase di uno scrittore francese che amo: ‘Ce ne ricorderemo, di questo pianeta’ ”. Abbassa la voce, come se ormai stesse parlando a sé stesso: “Vorrei averla sulla mia tomba questa frase: sono stato un uomo che ha ricordato anche le cose che gli altri hanno voluto dimenticare. E che continuerò a ricordare, cioè ad essere scrittore, anche nell’al di là…”

   Ecco: è questo – a meno che non emergano altre dichiarazioni di Leonardo Sciascia in proposito – il vero significato dell’altrimenti enigmatico epitaffio che si legge sulla lastra di marmo bianco nel cimitero di Racalmuto.

*

   L’intervista pubblicata da L’Automobile è particolarmente importante per la conoscenza di alcuni aspetti dell’uomo Sciascia. Si apre infatti con la sua dichiarazione di non aver “mai avuto, nemmeno da ragazzo, la tentazione di imparare a guidare, di possedere quel certificato di maturità che per i giovanissimi è la patente di guida”, e si chiude con la manifestazione del suo desiderio di avere la frase di Villiers de l’Isle-Adam incisa sulla propria tomba. Ma non basta: tra queste due affermazioni se ne inserisce un’altra, non meno importante. Ed è quella di possedere soltanto un altro genere di patente, quella del pessimista, che molti gli attribuiscono:

È l’unica patente che ho, quasi mi ci sono affezionato. La verità è che nel mio pessimismo siciliano, il pessimismo di una terra dove il verbo al futuro praticamente non esiste tanta è l’incertezza del domani, io sono un siciliano ottimista. Voglio dire che ci sono in giro tante rovine, eppure in mezzo alle rovine io vedo tante energie che si ricreano, che resistono. Sono uno scrittore che ha il coraggio della paura e il coraggio della fiducia”.

   Di quest’unica patente che Sciascia ammetteva di avere ha scritto brillantemente Roberta De Luca, nell’articolo appunto intitolato “La patente”, pubblicato su questo sito.
   L’intervista comparsa su
L’Automobile, così ricca di notizie e confessioni, quasi sicuramente sarebbe rimasta nascosta e dimenticata nell’archivio della rivista, se Luigi Carassai – dal 2015 Presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia – non l’avesse trovata chissà dove e come. Maceratese, di professione consulente del lavoro, Luigi Carassai è un appassionato bibliofilo e conoscitore dell’opera sciasciana, e può essere considerato un vero e proprio cacciatore di testi dispersi dello scrittore di Racalmuto. Con il fratello Lorenzo, ne va in cerca in librerie antiquarie, mercatini, bancarelle, e anche su internet. Gli siamo tutti grati per questo, e per la liberalità con cui mette a disposizione degli Amici i frutti delle sue ricerche.

Euclide Lo Giudice