Leonardo Sciascia e "Americana"

Negli anni ’40 e ‘50 del secolo scorso, molti lettori italiani cominciarono a prendere conoscenza della letteratura degli Stati Uniti, o comunque ad ampliare quella che già ne avevano, grazie all’antologia Americana, opera di Elio Vittorini. Tra loro ci fu certamente Leonardo Sciascia.

  In un’intervista dal titolo “Un sogno fatto in Sicilia. Una giornata con Leonardo Sciascia”, pubblicata su Lotta Continua del 27 ottobre 1978, si legge infatti: “Negli anni della mia formazione c’era l’America, Dos Passos… Con Bernardo, oggi direttore didattico a Milano, eravamo lettori terribili degli americani. Trovammo una cartolina di Bompiani, che chiedeva ai lettori di proporre libri; noi due proponemmo un’antologia di scrittori americani curata da Vittorini, e questa uscì, nel 1941, e noi ne ottenemmo una copia. Ma non so più se sia la copia che ho qui, o quella che ha Bernardo: uno di noi deve averla comprata”.
  
Per lungo tempo, per me Americana è stata qualcosa di mitico: ne avevo letto e sentito parlare, ma non mi era mai capitato di vederne una copia. Sapevo soltanto che si trattava di un’opera importantissima per il ruolo che aveva svolto, di ideale ponte tra la letteratura americana e i lettori italiani, ma non sapevo nemmeno quali fossero gli autori antologizzati.
  
Finalmente, nell’agosto 2012, la casa editrice Bompiani ha ripubblicato Americana, che Vittorini aveva preparato per la stampa nella primavera 1941. In realtà, quella prima edizione “non riuscì gradita alla censura e non venne mai posta in vendita – scrive Vittorini in Diario in pubblico. – La censura indicò nelle note critiche che corredavano la compilazione il motivo del suo divieto. Infatti l’edizione del ’42 e tutte le successive differiscono da quella originale solo in quanto mancano delle mie note di corredo […] Alcune copie superstiti dell’edizione sequestrata di ‘Americana’ […] si trovano in mano di amici: una di Valentino Bompiani, una di Giansiro Ferrata e una di Alessandro Cruciani. Una quarta che ora si trova in mani mie – conclude Vittorini – è appartenuta a Cesare Pavese”. Secondo quanto dichiarò a Lotta Continua nel 1978, Leonardo Sciascia fu fortunato, perché lui e il suo amico Bernardo ricevettero una copia dell’edizione censurata del 1941 direttamente dalla casa editrice.
  
La nuova edizione di Americana – nella collana Tascabili Bompiani – è un volume di quasi millecinquecento pagine e riproduce l’edizione sequestrata del 1941, con i testi di presentazione delle nove sezioni scritti da Vittorini e l’importante apparato iconografico che l’arricchiva. Contiene inoltre, in appendice, la prefazione di Emilio Cecchi all’edizione del 1942, che sostituiva i testi vittoriniani, e due introduzioni, di Carlo Gorlier e Giuseppe Zaccaria, scritte appositamente per questa nuova edizione. Come ho scritto sopra, di Americana conoscevo l’esistenza, ma non il contenuto e le dimensioni. Pensavo fosse un’antologia della letteratura nordamericana del solo Novecento, e ho invece scoperto che, fra i trentatré scrittori antologizzati, vi sono importantissimi autori dell’Ottocento. Si tratta in effetti di un’antologia che copre circa un secolo e mezzo, ed è innegabile il suo merito nell’aver offerto al lettore italiano dei primi anni ’40 la possibilità di gettare uno sguardo sulla letteratura americana nel suo complesso. Non a caso, del resto, la casa editrice ha deciso di riprodurre, in testa alla copertina della nuova edizione, il giudizio di Italo Calvino: “Un libro essenziale nella storia della cultura italiana”.
   Ad Americana dedica molto spazio Umberto Eco, in un saggio dal titolo Il mito americano di tre generazioni antiamericane, incluso in un volume miscellaneo, a cura di Carlo Chiarenza e William L. Vance, pubblicato nel 1993 da Marsilio con il titolo Immaginari a confronto. I rapporti culturali tra Italia e Stati Uniti: la percezione della realtà tra stereotipo e mito, che raccoglie dodici saggi di altrettanti autori, italiani e americani. “Dal punto di vista di oggi – scrive Eco –, la raccolta era abbastanza completa, forse eccessivamente vorace, certamente scompensata: Fitzgerald vi appare sottovalutato, Saroyan sopravalutato, vi figurano autori come John Fante che per l’avvenire non avrebbero più occupato un posto di tale rilievo nelle cronache letterarie. Ma questa antologia non voleva essere una storia della letteratura americana bensì la costruzione di una allegoria, una sorta di Divina Commedia dove paradiso e inferno coincidevano”. Quanto alla forma, Eco afferma che Vittorini “aveva tradotto e avrebbe tradotto i propri autori americani, tutti in ‘vittorinese’, dove una creatività partecipante metteva in secondo piano l’esattezza filologica”. E più avanti: “Lo stesso modo, criticabilissimo, in cui gli americani erano tradotti, produsse un nuovo senso della lingua. Nel 1953 Vittorini dirà che egli non aveva influenzato la gioventù per ciò che aveva tradotto ma per il modo in cui lo aveva tradotto”. (La lunga e approfondita frequentazione degli autori americani aveva spinto Vittorini ad adottarne gli stili: quando lessi Uomini e no, una trentina di anni fa, ebbi l’impressione – forse sbagliando, e comunque pentendomi subito per l’irriverenza – che fosse scritto in uno stile more-Hemingway-than-Hemingway.)
  
I traduttori dei testi presentati in Americana sono scrittori e letterati autorevoli, tra cui Ferrata, Linati, Montale, Moravia, Pavese, Piovene e lo stesso Vittorini. Senza dimenticare le problematiche che qualsiasi traduttore deve affrontare – e nel caso di Americana si veda l’introduzione di Claudio Gorlier all’edizione del 2012 – si è tuttavia costretti a notare che le traduzioni di alcuni racconti lasciano alquanto a desiderare, per motivi non soltanto formali o stilistici. Mi limiterò a segnalare alcuni esempi.
  
Di Ernest Hemingway, nell’antologia sono presentati tre racconti: Soldier’s home, The Gambler, the Nun, and the Radio e The Short Happy Life of Francis Macomber. La traduzione del primo è di Carlo Linati, e il titolo diventa Il ritorno del soldato Krebs. La traduzione italiana più diffusa sarà poi quella di Vincenzo Mantovani, che rende il titolo con Il ritorno del soldato. Ma ciò che colpisce non è tanto il titolo scelto da Linati – e successivamente abbreviato da Mantovani –, quanto la traduzione nel suo complesso, che risulta piuttosto imbarazzante. A partire dall’incipit:

Krebs went to the war from a Methodist college in Kansas. There is a picture which shows him among his fraternity brothers, all of them wearing exactly the same height and style collar. He enlisted in the Marines in 1917 and did not return to the United States until the second division returned from the Rhine in the summer of 1919.
There is a picture which shows him on the Rhine with two German girls and another corporal. Krebs and the corporal look too big for their uniforms. The German girls are not beautiful. The Rhine does not show in the picture.
By the time Krebs returned to his home town in Oklahoma the greeting of heroes was over…

Krebs andò alla guerra dopo essere stato in un collegio metodista del Kansas. C’è un disegno che ce lo mostra in mezzo ai suoi compagni di fraternità, tutti col medesimo colletto, alto, diritto. Egli rientrò nelle “Marines” nel 1917 e non fece ritorno agli Stati Uniti che quando la Seconda Divisione ritornò dal Reno, nell’estate del 1919.
C’è un disegno che ce lo mostra sul Reno in mezzo a due ragazze tedesche e a un altro caporale. Le due ragazze tedesche non sono molto belle. Il Reno non lo si vede nel disegno.
A quel tempo che Krebs tornò alla sua città nel Kansas, le grandi accoglienze che si solevano fare ai soldati reduci dalla guerra erano finite…

  

E questo è l’ultimo paragrafo:

So his mother prayed for him and then they stood up and Krebs kissed his mother and went out of the house. He had tried so to keep his life from being complicated. Still, none of it had touched him. He had felt sorry for his mother and she had made him lie. He would go to Kansas City and get a job and she would feel all right about it. There would be one more scene maybe before he got away. He would not go down to his father’s office. He would miss that one. He wanted his life to go smoothly. It had just gotten going that way. Well, that was all over now, anyway. He would go over to the schoolyard and watch Helen play indoor baseball.

E la madre si mise a pregare per lui. Poi si levarono e Krebs baciò la madre e uscì di casa.
Egli aveva cercato così di impedire alla sua vita di diventare complicata, e in parte c’era riuscito. Addolorato per sua madre, essa lo aveva costretto a mentire. Adesso egli andrebbe a Kansas City e si troverebbe un posto ed ella sarebbe contenta e soddisfatta. All’ufficio di suo padre non sarebbe andato. Adesso desiderava che la sua vita scorresse via, liscia. Bene, questa faccenda in qualche modo era risolta. Andrebbe nel cortile della scuola a veder Elena a giocare al baseball.

  

   Linati sembra ignorare l’invenzione della fotografia, che i college non sono collegi ma istituzioni universitarie, che le fraternity sono società studentesche universitarie, e che nel corpo dei Marines ci si arruola o si viene arruolati. La città d’origine del protagonista, in cui lui torna dopo la fine della guerra, si trova in Oklahoma e non nel Kansas. E quanto ai nomi, chissà perché Linati decise di italianizzare il nome di Helen, sorella del protagonista Harold Krebs, nonostante in tutto il racconto i nomi siano mantenuti nella loro forma originale, salvo la First National Bank italianizzata in Prima Banca Nazionale.
  
Gli altri due racconti di Hemingway sono tradotti da Vittorini, e in essi la fantasia traduttoria dello scrittore – che sono tentato di definire il Vittorini’s touch – rifulge già nei titoli. The Short Happy Life of Francis Macomber diventa Vita felice di Francis Macomber, per poco, mentre The Gambler, the Nun, and the Radio si trasforma in Monaca e messicani, la radio. In questo secondo racconto si può leggere questo passo:

In that hospital a radio did not work very well until it was dusk. They said it was because there was so much ore in the ground or something about the mountains, but anyway it did not work well at all until it began to get dark outside; but all night it worked beautifully and when one station stopped you could go farther west and pick up another. The last one that you could get was Seattle, Washington, and due to the difference in time, when they signed off at four o’clock in the morning it was five o’clock in the morning in the hospital; and at six o’clock you could get the morning revellers in Minneapolis. That was on account of the difference in time, too, and Mr. Frazer used to like to think of the morning revellers arriving at the studio and picture how they would look getting off a street-car before daylight in the morning carrying their instruments. Maybe that was wrong and they kept their instruments at the place they revelled, but he always pictured them with their instruments. He had never been in Minneapolis and believed he probably would never go there, but he knew what it looked like that early in the morning.

Nell’ospedale la radio non funzionava bene se non dopo l’imbrunire. Dicevano che fosse per via delle montagne intorno piene di minerale, ma certo non funzionava bene se non quando cominciava a far buio. Tutta la notte, poi, era meravigliosa, e come una stazione terminava di trasmettere si poteva andare più a occidente e prenderne un’altra. L’ultima che si potesse prendere era Seattle, sull’Atlantico, e a causa della differenza nell’ora si poteva avere alle cinque del mattino quello che laggiù era segnato per le quattro. Alle sei, causa la differenza nell’ora, si potevano prendere i Morning Revelers di Minneapolis, e Frazer si immaginava i Revelers che arrivavano allo studio, se li raffigurava mentre scendevano dal tram, portando i loro strumenti, nelle prime luci dell’alba. Forse gli strumenti li tenevano nello studio, ma lui se li raffigurava sempre con gli strumenti sotto il braccio. Mai era stato a Minneapolis e pensava che non vi sarebbe mai andato, ma credeva di sapere come fosse, le piazze, le strade, all’ora che i Revelers suonavano.

  

   Seattle si trova nello stato di Washington, sulla costa del Pacifico, e revellers – con due elle – sono persone che fanno baldoria, nella fattispecie musicisti, e non il nome di un gruppo musicale. Vittorini evidentemente ignorava che in America si usa far seguire ai nomi delle città il nome o la sigla dello stato di cui fanno parte – Boston, Massachusetts; Chicago, Illinois; San Francisco, California o, appunto, Seattle, Washington. Leggendo Washington pensò si trattasse di Washington D.C., ossia la capitale federale, che si trova nella parte orientale del paese, non molto lontano dall’Atlantico. A parte questo dettaglio, in ogni caso, qualcosa nella traduzione non quadrava, e avrebbe dovuto mettere in allarme il traduttore: se la ricerca di nuove stazioni radio si spostava verso ovest, non era possibile che l’ultima stazione che si potesse prendere fosse situata all’estremo est.
  
Giansiro Ferrata da parte sua traduce The Beast in the Jungle di Henry James con La tigre nella giungla. Trattandosi di una bestia – una fiera, una belva – del tutto metaforica, la decisione di trasformarla in un animale ben determinato stravolge non solo la lettera, ma soprattutto il senso del titolo della novella. Leggendo il testo, ci si rende conto che anche la tigre della traduzione italiana è una pura metafora, ma ciò non giustifica il cambio, che risulta del tutto gratuito e fuorviante.
  
La traduzione di Piero Gadda Conti del racconto di William Faulkner A Rose for Emily è molto fedele, fin dal titolo banalmente letterale – Una rosa per Emily – se paragonato ai voli di fantasia di Vittorini, Linati e Ferrata. Si può notare una sola imprecisione: nella denominazione dei soldati delle due parti coinvolte nella guerra civile, in Italia comunemente detta “di secessione”. Nella parte iniziale del racconto, Gadda Conti traduce “the ranked and anonymous graves of Union and Confederate soldiers who fell at the battle of Jefferson” con “le file di tombe anonime dei soldati unionisti e federali caduti nella battaglia di Jefferson”. In uno dei paragrafi finali, i ”federali” diventano poi “confederali”: quasi una soluzione intermedia tra federali e confederati. È appena il caso di aggiungere che i soldati unionisti erano quelli che in Italia si usa definire ‘nordisti’, mentre i confederati erano i ‘sudisti’.
   Se mi sono soffermato sul racconto di Faulkner, tuttavia, è soprattutto perché Leonardo Sciascia, che probabilmente lo aveva letto in Americana, vi fa esplicito riferimento non soltanto nel titolo ma anche in chiusura del suo saggio del 1969 intitolato Una rosa per Matteo Lo Vecchio, poi incluso nella raccolta La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia: “… E mentre guardiamo la casa che forse fu la sua (di Matteo Lo Vecchio, ndr) ricordiamo lo straziante racconto di Faulkner che s’intitola Una rosa per Emily: di Miss Emily che per anni dorme accanto al cadavere dell’uomo amato. Una rosa per Matteo Lo Vecchio: per questo cadavere che esattamente da un secolo e mezzo dorme, in fondo al pozzo secco, accanto al cadavere dello Stato”. Matteo Lo Vecchio fu tra i protagonisti di quella che è passata alla storia come la “controversia liparitana”, che si sviluppò tra il 1711 e il 1719, e che il saggio ricorda a distanza di due secoli e mezzo – e non dopo un secolo e mezzo, come per un’evidente distrazione scrisse Sciascia. E sempre Matteo Lo Vecchio è al centro del quarto e ultimo atto del dramma sciasciano Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., scritto anch’esso nel 1969, per ricordare quel lontano episodio della storia siciliana alla luce dell’invasione della Cecoslovacchia, avvenuta nell’agosto dell’anno precedente: mezzo secolo fa. Entrambe, la Sicilia e la Cecoslovacchia, vittime della cosiddetta “dottrina della sovranità limitata”: di un paese cattolico nei confronti della Chiesa, di un paese del blocco comunista nei confronti dell’Unione Sovietica.
   Il racconto di Faulkner, che tanto colpì Sciascia, vale davvero la pena di esser letto. Miss Emily Grierson è l’ultima rappresentante di una aristocratica famiglia del Sud degli Stati Uniti che sopravvive, circondata dal rispetto dei suoi concittadini, al declino delle fortune familiari. Fatte le opportune distinzioni, mi ha fatto pensare alle tre figlie del Gattopardo, e agli anni della loro vecchiaia descritti nell’ultima parte del romanzo. L’amore deluso di Concetta per Tancredi – “delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario” – è però un sentimento molto diverso da quello di Miss Emily per Homer Barron: che lei infatti preferisce avere per sempre vicino a sé, anche se morto.
   Con il trascorrere del tempo, Leonardo Sciascia modificò il suo giudizio su Elio Vittorini. Nell’intervista a Lotta Continua dell’ottobre 1978, dopo aver parlato di vari scrittori da lui amati e rispondendo a una domanda sugli scrittori siciliani, afferma: “C’è Verga, è grande ma non lo amo, è reazionario. L’anno in cui scrive I Malavoglia emigrano dalla Sicilia cinquantamila persone e Verga sta a dire che è una maledizione lasciare il proprio paese. […] Amo di più De Roberto: I viceré è un grande libro”. E subito prosegue: “Ho amato anche Vittorini, ma ora mi cadono le braccia, ora non ci trovo grandi differenze con Saroyan, è tradotto, non riletto”.

Euclide Lo Giudice