Il conte Greppi, personaggio di Sciascia tra Stendhal e Hemingway

Il conte Giuseppe Greppi, diplomatico milanese, è il protagonista, insieme a un giovanissimo Ernest Hemingway, di una deliziosa nota di Leonardo Sciascia dal titolo “Quella sera, a cena con Stendhal”, comparsa su L’Espresso del 13 aprile 1986, nell’ambito della rubrica L’Enciclopedia. La nota è ora inclusa – con il titolo cambiato in “Stendhaliana” –, nell’antologia degli scritti di tema appunto stendhaliano, curata dalla vedova dello scrittore, Maria Andronico Sciascia (L’adorabile Stendhal, Adelphi, Milano, 2003).

   Il conte Greppi ebbe una vita lunghissima: nato nel 1819, morì infatti nel 1921. Superare i cento anni – ovviamente a condizione di riuscirci in buone condizioni di salute – è un traguardo eccezionale anche oggi: figurarsi un secolo fa, quando la durata media della vita era molto più breve di quella attuale. E il nobiluomo milanese fu in questo molto fortunato, perché il secolo di vita lo festeggiò in ottime condizioni.
  
Sciascia parte dal contenuto del primo numero, pubblicato a Grenoble nell’agosto 1921, di una rivistina intitolata Stendhaliana, creatura di un dottor Flandrin, appassionato stendhalista. Della plaquette furono stampate trenta copie e una, donata dal dottor Flandrin al barone Albert Blanc, giunse poi nelle mani e nella biblioteca di Leonardo Sciascia. Il “fascicoletto, nitidamente ed elegantemente stampato, conteneva una sola noticina: sulla morte a Madrid, l’11 luglio dell’anno prima, di Eugénie de Montijo, moglie di Luigi-Napoleone Bonaparte ed ex imperatrice dei francesi”.
   L’importanza della notizia, secondo il dottor Flandrin, stava nel fatto che la vedova di Napoleone III era “l’ultima persona che poteva dire ‘ho conosciuto Stendhal, gli ho parlato’ ”. Il barone Blanc, però, sulla sua copia aggiunse una postilla a matita, in cui sosteneva il contrario, ossia che Eugénie de Montijo non era l’ultima persona che poteva affermare di aver conosciuto Stendhal. Alla data della pubblicazione del primo numero di Stendhaliana – agosto 1921 – era infatti ancora vivo il conte Greppi: il quale “nel 1906, in casa della contessa Lovatelli, gli aveva raccontato di aver conosciuto il signor Beyle, console di Francia a Civitavecchia, intorno al 1840, e di aver cenato con lui”. Ma anche il barone Blanc, postillando la Stendhaliana del suo amico Flandrin, incorse in un’inesattezza, rilevata da Leonardo Sciascia. Il barone, infatti, scrisse la sua annotazione senza evidentemente sapere che il conte Greppi era anch’egli morto, l’8 maggio 1921, circa tre mesi prima della pubblicazione della rivistina del dottor Flandrin.
   “Nel 1840 aveva cenato con Stendhal; sicché sembra del tutto conseguente, nel misterioso concatenarsi delle casualità, che si trovi nel 1917 a giocare a bigliardo con Hemingway, lo scrittore più stendhaliano del nostro secolo – scrive Sciascia –. Il conte Greppi, al capitolo XXXV di Addio alle armi. ‘Il conte Greppi aveva novantaquattro anni; era stato giovane ai tempi di Metternich e, adesso, era un vecchio signore dai capelli e dai baffi bianchi, pieno di distinzione. Aveva servito in diplomazia sotto l’Austria e poi con l’Italia, e i ricevimenti che dava per i suoi compleanni facevano data nella società milanese…’ C’è una piccola inesattezza: non novantaquattro, ma novantotto anni aveva allora il conte Greppi.”.
  
Nel testo originale di A Farewell to Arms e nella traduzione italiana di Fernanda Pivano, che compare nei Meridiani Mondadori, il conte Greppi viene indicato rispettivamente come “Count Greffi” e “il conte Greffi”. Ma che si tratti del conte Giuseppe Greppi non c’è alcun dubbio. In una lettera del 17 novembre 1948 inviata a Fernanda Pivano (e da questa riportata nel suo Hemingway, Rusconi, Milano, 1985) lo scrittore americano infatti raccomanda: “[…] Conserva Greffi. NON ripeto Non Greppi. Non ho il diritto di usare il suo vero nome. Lo amavo molto e lui mi voleva bene e non è chic usare il suo vero nome soltanto perché non ci sono leggi quando uno è morto…”.
  
In una delle più importanti biografie di Hemingway (Carlos Baker, Ernest Hemingway. A life story, Charles Scribner’s Sons 1969 e Penguin Books 1972-1987) si legge: “Late in September (1918, ndr) he went farther afield for a holiday at the Grand Hotel Stresa on Lago Maggiore. His companion was a Minnesota boy named Johnny Miller […]. They were adopted by a large, elderly Italian, the Conte Emanuele (sic) Greppi, an ‘uomo politico’ who wore a black hat, carried a stick, and seemed eager to discuss American politics. It was Ernest’s later boast that the Count had ‘brought him up politically’. They played at billiards in the games room of the hotel, and the Count provided successive bottles of well-iced champagne. Ernest revelled in being adopted by Italian nobility…”.
  
Nel suo articolo, Sciascia indica le principali tappe della lunghissima carriera diplomatica di Giuseppe Greppi, iniziata nel 1842 al servizio dell’impero austro-ungarico, e conclusa nel 1888 come ambasciatore del regno d’Italia a San Pietroburgo (se ne può leggere estesamente nelle voci che il Dizionario Biografico Treccani e Wikipedia dedicano al personaggio). Sciascia accenna a un infortunio di natura professionale ovvero diplomatica – aggettivo da intendere alla lettera – che gli avrebbe troncato la carriera: “non tenne conto, non sappiamo in quale circostanza, che Francia e Russia si erano alleate. Collocato onorevolmente a riposo, si diede alla vita mondana”.
   Un altro diplomatico, il conte Carlo Alberto Pisani-Dossi, conosciuto in letteratura come Carlo Dossi, in alcune delle sue Note
azzurre (edizione integrale Adelphi, Milano, 2010) non risparmia critiche a diversi suoi colleghi; e in una, la n. 5332, sul conte Greppi trancia un giudizio non soltanto impietoso, ma addirittura insultante: “… I rimorsi di un Macbeth burocratico. Parodiando la creazione di Shakespeare, fare un monologo in cui parlo alle ombre dei diplomatici e prefetti cretini, licenziati da Crispi. Evocare il Conte Greppi, cocotte fanée, Corti senza naso, Barbolani, Oldoini ecc. …”. Al di là della gravità dell’episodio che pose fine alla carriera del conte Greppi, tuttavia, il giudizio di Dossi è durissimo e tende a liquidare non solo il diplomatico ma anche l’uomo.
   Prima che nell’articolo del 1986 su L’Espresso, del conte Greppi Leonardo Sciascia aveva comunque già scritto: nel 1981, in un testo intitolato “La povera Rosetta”, che nel 1985 sarebbe confluito con altri sei nelle Cronachette, che costituiscono il volume numero 100 della collana La memoria di Sellerio.
  
“La povera Rosetta” è ambientata nella Milano del 1913 e racconta la tragica storia di una ragazza che morì a seguito di un pestaggio da parte di alcuni poliziotti. Sciascia inizia descrivendo la Milano di quell’anno e di quell’epoca: “La Milano di Stendhal sembra scomparsa, ma c’è ancora: come segreta, come nascosta. Ci sono i compleanni del quasi centenario conte Greppi: un filo di continuità tra la Milano di Stendhal e quella di Hemingway. Tenuto a battesimo da Eugenio Beauharnais negli anni in cui Stendhal si fa milanese, il conte Greppi farà in tempo a giocare al bigliardo con Hemingway, dopo Caporetto, stendhalianamente dialogando sulla vita e sulla morte…”. Segue la citazione del brano di Addio alle armi, con la descrizione del vecchio gentiluomo. Più avanti, il conte Greppi ritorna, tra i frequentatori del teatro San Martino in cui “la povera Rosetta” si era esibita: “… il conte Greppi novantenne (i tacchi alti, cappello a tuba, binocolo; e dietro a lui sempre il domestico col soprabito a braccio, nel caso il conte lo volesse indossare: ma pare non ne sentisse mai il bisogno, nemmeno di pieno inverno)…”. 
  
Di sicuro il conte Giuseppe Greppi era un personaggio che non passava inosservato, e non soltanto per la baldanza giovanile che sfoggiava a novant’anni suonati, ma anche per il cinismo e lo spirito, che doveva essere molto pungente e disinibito: come si deduce da due aneddoti, riferiti da Alberto Arbasino in un articolo intitolato “Benvenuti in casa Verri”, pubblicato su la Repubblica del 3 aprile 1998. Una sera, racconta Arbasino, il conte stava preparandosi per andare a un ballo, quando il cameriere lo informò che doveva dargli una brutta notizia. “Te mel diset doman”, ribatté il conte. E il cameriere: “Ma l’è mort el so fradell!”. Con una certa stizza, si immagina, il conte replicò: “Te l’oo ditt, de dimmel doman!”. E a pranzo con alcuni amici in un aristocratico circolo cittadino, dopo il funerale della moglie, davanti a un risotto così sintetizzò la mattinata: “E inscì, fra una robba e l’altra, anca incoeu emm fatt mezzdì”.

Euclide Lo Giudice

Note

   Già Elio Vittorini aveva affermato che “Hemingway ([…] rimane per me lo Stendhal del nostro secolo” (Il Politecnico, n. 33-34 del novembre 1946, riportato nel Diario in pubblico, Bompiani, Milano, 1957-1970, p. 268). Vittorini non poteva che riferirsi alla prima metà del secolo. Quanto alla seconda metà, in un’intervista comparsa su Panorama del 4 ottobre 1992, George Steiner dichiarerà: “Se mi avessero detto in passato che ci sarebbe stato un nuovo Stendhal, non ci avrei creduto. Eppure Leonardo Sciascia, morto quasi tre anni fa, è, secondo me, lo Stendhal dei nostri tempi”.

   Nel risvolto di copertina dell’edizione delle Cronachette nella collana La memoria di Sellerio (n. 100, anno 1985), Sciascia scrisse: “Io desidero soltanto mettere in evidenza il fatto che questa collana, che si è aperta col mio libretto Dalle parti degli infedeli, tocca oggi – fortunosamente e fortunatamente (voglio dire con avventura e fortuna) – il numero cento.” Da allora, in omaggio alla sua memoria, i numeri della collana relativi alle centinaia non vengono attribuiti. Ha fatto eccezione il numero 1000, dal titolo La memoria di Elvira, che raccoglie scritti di vari autori in ricordo di Elvira Sellerio. Ma nel “mille” non compare il “cento”: e infatti, puntualmente, il numero 1100 non è stato attribuito.

   Nelle sue “Note ai testi” del primo tomo del secondo volume delle Opere di Leonardo Sciascia, in corso di pubblicazione nella collana La Nave Argo di Adelphi, Paolo Squillacioti definisce le Cronachette “piccole indagini tra critica e storia”. E “La povera Rosetta” è infatti la ricostruzione, tratta da documenti e resoconti giornalistici, della morte di Elvira Rosa Ottorina Andrezzi, “nota come Rosetta, la Rosetta, Rosetta de Woltery: canzonettista al teatro San Martino” di Milano, avvenuta il 27 agosto 1913 a seguito di un pestaggio da parte di alcuni agenti di polizia verificatosi la notte precedente. A conclusione della vicenda, il quotidiano La Lombardia informava che il questore di Milano “intendeva punire severamente chi, nel caso della Rosetta, avesse mancato; e noi siamo sicuri che sarà provveduto. Ma nessuna campagna contro funzionari e guardie può giovare all’evoluzione della polizia, ma anzi le nuoce, in quanto la maggiore forza degli istituti sta nel sentirsi compresi ed apprezzati”. E Sciascia commenta: “Sante, ancora sante parole”. Vale davvero la pena di (ri)leggerla, la cronachetta sciasciana: anche alla luce di episodi di stretta attualità.