Quei francesi del "gran settecento"

Tutti gli appassionati di Leonardo Sciascia probabilmente ricorderanno la frase che apre la Nota posta in fondo a Il giorno della civetta: “ ‘Scusate la lunghezza di questa lettera – scriveva un francese (o una francese) del gran settecento – poiché non ho avuto tempo di farla più corta’. ”
   Molte volte mi ero chiesto chi fosse l’autore dal quale Sciascia aveva tratto la citazione. La curiosità non mi aveva però mai fatto pensare a una possibile ricerca, mirata a individuare l’innominato personaggio: per diversi motivi, sui quali è superfluo dilungarsi.

 

   Non avevo però mai dimenticato quella bellissima frase, e nel corso di alcuni anni, tra il 1996 e il 1999, presi nota di tre possibili soluzioni del mistero, nelle quali mi ero più o meno casualmente imbattuto, e che riporto nell’ordine nel quale mi si presentarono. Nessuna delle tre ipotesi, tuttavia, si attaglia esattamente e completamente, per un dato o per un altro, ai tre indizi forniti da Sciascia: lettera, autore/autrice francese e settecento.
  
La prima ipotesi riguarda addirittura un italiano, e non è nemmeno contenuta in una lettera. Si tratta di un testo molto breve e contorto, intitolato “Brevità” e tratto da una Lezione accademica, incluso in una raccolta di Sentenze e detti memorabili dell’abate Ferdinando Galiani, pubblicata dalla Salerno Editrice nel 1991. Vi si legge: “Sicché perdonatemi se quanto resterebbe a dire, a tempo più acconcio io rimando, e se vi prego a scusar la lunghezza anche di quel che io ho detto, ricordandovi che io non ho bastevol tempo avuto da poter esser più breve, e mi taccio”. Non si può escludere che Sciascia conoscesse queste parole di Galiani, lette in una qualche edizione delle opere dell’abate. Ma in tal caso ne avrebbe semplicemente preso spunto, per trasformarle nella sintetica, efficacissima frase che figura nella Nota.
  
Galiani era napoletano, sia pure di adozione, ma è altrettanto vero che a Parigi trascorse – segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli presso la corte francese – i dieci anni più felici della sua vita, tanto da finire per considerarsi parigino (secondo Edmond e Jules de Goncourt, del resto, “Il miglior spirito parigino che la Francia abbia avuto è lo spirito francese degli stranieri: di Galiani, del Principe di Ligne e di Heinrich Heine”). E una volta rientrato a Napoli, per lunghi anni scambiò con Louise d’Epinay, in francese, una fittissima corrispondenza la cui traduzione italiana è stata pubblicata nel 1996 da Sellerio, in due volumi dal titolo Epistolario 1769-1782. In ogni caso, l’abate Galiani fa capolino, sia pure in forma subliminale, in un’altra fondamentale opera sciasciana. Al settimo capitolo della prima parte de Il Consiglio d’Egitto, infatti, a don Saverio Zarbo che lo provoca a proposito delle sue poesie di carattere galante, l’abate e poeta Giovanni Meli replica: “Voi della poesia avete un’idea da commercio dei grani…”. E Dialogues sur le commerce de bléds si intitola appunto una delle opere più importanti del Galiani: pubblicata anonimamente a Parigi, ma con la falsa indicazione di Londra, nel 1770 – anno successivo al rientro di Galiani a Napoli – aveva procurato all’autore una fama europea.
  
La seconda ipotesi riguarda un francese, nato nel settecento ma la cui opera ricade tutta nel secolo successivo. Si tratta, infatti, di Paul-Louis Courier, autore molto amato da Sciascia fin da ragazzo, e da lui citato come un modello ideale nell’introduzione de Le parrocchie di Regalpetra: “Paolo Luigi Courier, vignaiuolo della Turenna e membro della Legion d’onore, sapeva dare colpi di penna che erano come colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna…”. Dunque Courier, in una delle Lettres écrites de France et d’Italie, datata Livorno, 3 settembre 1808 e indirizzata a Monsieur de Sainte-Croix a Parigi, afferma: “Monsieur, ne sachant si je pourrai jamais mettre la derniere main à ma traduction des deux livres de Xenophon sur la cavalerie, je prends le parti, sauf votre meilleur avis, de la publier telle qu’elle est, avec le texte revu sur tous les manuscrits de France et d’Italie, et des notes que j’ai n’ai pas eu le temps de faire plus courtes…”.
  
L’ipotesi può essere plausibile: si tratta di un francese nato nel “gran settecento” e il brano si trova in una lettera. Le parole conclusive, tuttavia, non si riferiscono al testo della lettera, ma alle note di una traduzione di Senofonte che il grecista Courier aveva completato ma non aveva rivisto e limato. Tradotte in italiano – “… non ho avuto il tempo di fare più corte” – le parole di Courier suonano però molto vicine a quelle della Nota di Sciascia: “… non ho avuto tempo di farla più corta’.
  
La terza ipotesi – ma ben più autorevole delle due precedenti – è quella che si trova nel corposo saggio di Tom O’Neill intitolato “Foscolo, Montale e Sciascia alle soglie del Duemila”, pubblicato in Da un paese indicibile, quarto dei Quaderni Leonardo Sciascia (Edizioni La Vita Felice, 1999), in cui a un certo punto si legge: “… Gerard Slowey dell’Università degli Studi di Birmingham, curatore di una recentissima edizione del Giorno della civetta, uscita presso la Manchester University Press alla fine del 1998, osserva, a proposito dell’incipit della Nota in fondo al romanzo […] che non si tratta affatto di uno scrittore o di una scrittrice del settecento, quasi Sciascia stesso non se ne ricordasse, ma di Pascal e nella fattispecie di una citazione dalla sedicesima delle sue Lettres provinciales: ‘Je n’ai fait celle-ci plus longue que parce que je n’ai pas eu le loisir de la faire plus courte’ ”.
  
La frase fa parte di quella che può essere anch’essa definita una nota di chiusura, aggiunta da Pascal in coda alla Seizième lettre écrite aux Révérends Pères Jésuites, che occupa diciannove fitte pagine del volume delle Œuvres complètes pubblicato nella Bibliothèque de la Pléiade (Gallimard 1954, ristampa 1991): “Mes Révérends Pères, mes lettres n’avaient pas accoutumé de se suivre de si près, ni d’être si étendues. Le peu de temps que j’ai eu a été cause de l’un et de l’autre. Je n’ai fait celle-ci plus longue que parce que je n’ai pas eu le loisir de la faire plus courte. […]”.
  
Nel paragrafo precedente, Tom O’Neill aveva scritto che “era appunto dal piacere che [Sciascia] derivava dal testo, dal proprio testo imbottito com’era di testi altrui, che scaturiva quel gioco a rimpiattino, quella specie di hide and seek che egli intrecciava con i suoi lettori. Nascondeva lui, cercavano o dovevano cercare loro perché essi erano o dovevano essere smaliziati quanto lui”.
  
Tornando alla Nota de Il giorno della civetta: e se la soluzione fosse – lasciando da parte l’ipotesi Galiani – nella combinazione Pascal-Courier? In ogni caso, il gioco a rimpiattino può continuare.

Euclide Lo Giudice