Del femminismo cretino e dell’ipocrisia del maschio

Il 19 aprile 1980, a Pesaro, Leonardo Sciascia incontrava gli studenti di varie scuole della città. L’evento rientrava nel ciclo “Il gusto dei contemporanei”, organizzato e realizzato da un gruppo di docenti coordinati dal professor Paolo Teobaldi, ideatore del progetto. Tra i tanti argomenti toccati nella conversazione (trascritta dal professore da una registrazione mai più ritrovata), verso la fine dell’incontro viene introdotto un tema nuovo. Una studentessa chiede allo scrittore di esprimere la sua opinione sul raggiungimento o meno dei diritti civili da parte della donna. In particolare vuol sapere da Sciascia se la donna, nonostante il superamento di questioni come i delitti d’onore e altre cose appartenenti all’Italia meridionale, possa finalmente dirsi soddisfatta delle conquiste ottenute. Sciascia risponde: “Ah, no, non ancora, no. La donna ha ancora da rivendicare tanto, solo che bisogna…”.

La studentessa lo incalza per sapere quanto la donna debba ancora lottare. Lui ribadisce: “Tanto”. Poi aggiunge che il femminismo sta sbagliando linea nel voler condurre una battaglia totalitaria, con punte di cretineria e di intolleranza, e che, sebbene il maschio, soprattutto il maschio italiano, abbia tante colpe, si deve pur giungere ad una convivenza, non ci si può logorare in una guerra perpetua. Inoltre gli sembra di notare segnali di stanchezza nel movimento, che ha già cominciato un “ritorno a casa”. La donna dovrebbe invece “stare a casa” e fare la sua battaglia per la realizzazione di sé, non “tornare a casa”. Più avanti nel dialogo, avendo forse notato il disorientamento degli studenti, chiarisce meglio questa espressione, sostenendo che, con lo “stare in casa della donna”, non intende che lei debba stare in casa e l’uomo fuori, ma che stiano in casa tutti e due, con gli stessi diritti. Alla domanda della studentessa su quale dovrebbe essere la posizione dell’uomo riguardo al movimento femminista, Sciascia risponde che l’uomo spesso gli pare molto ipocrita (neanche egli stesso forse può ritenersi esente da tale comportamento): finge di acconsentire, afferma che è giusto, che va benissimo, ma poi “sotto sotto” fa discorsi di un certo tipo. La ragazza aggiunge che spesso è opinione comune giustificare l’uomo e i suoi atteggiamenti come il prodotto di un’educazione ricevuta, soprattutto da parte della mamma, che oltretutto è anche molto diversa da quella impartita alla figlia femmina, e chiede a Sciascia di chiarire il suo pensiero: se giustifica l’uomo poiché inserito in tale contesto educativo – e perciò incolpevole - o se, secondo lui, l’uomo si rende perfettamente conto della situazione della donna e fa l’ipocrita. Lo scrittore risponde che tutto ciò che esiste è giustificato per il solo fatto che esista, che è spiegabile e motivato, ma ciò non vuol dire che sia giusto; tra il giustificato e il giusto c’è differenza. Sul ruolo “nefasto” della mamma nella società italiana, Sciascia comincia un discorso che purtroppo non possiamo conoscere a causa dell’interruzione del nastro registrato.

Nella sintesi che ho fin qui riportato, mi sembra di cogliere due questioni fondamentali che il ragionamento volutamente contraddittorio e complesso di Sciascia ha lasciato emergere. Da una parte l’irrigidimento di un movimento femminista che manteneva una costante e deleteria battaglia di genere, sfibrante e regressiva per il movimento stesso (salvo poi sferrare di nuovo l’attacco anni dopo, in un revanscismo che oggi si declina tra l’uso di asterischi, per non dare spazio solo al genere maschile – viene riscritta la regola per l’uso e non dall’uso- e l’immancabile “buonasera a tutte e a tutti”); dall’altra, la parità assoluta tra uomo e donna nei diritti civili, così come nelle responsabilità, vale a dire l’ipocrisia del maschio e il “nefasto” ruolo educativo della madre. L’impianto critico è quello della contraddizione sciasciana, inevitabile secondo lo scrittore, poiché insanabile è lo scarto tra la valutazione della realtà e come si vorrebbe che fosse.

Roberta De Luca