Giuseppe Salvaggiulo

Le mie modeste riflessioni sortiscono disordinatamente da tre fonti coeve: il libro “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia” (curatori Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, Cacucci 2021), che è l’occasione del nostro colloquiare; una lezione di Roberto Andò all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli del 1° dicembre 2021, intitolata “Sciascia, un maestro oltre la letteratura” (https://www.facebook.com/unisob/videos/295223729198768) a cui ho doviziosamente attinto; la citazione in giudizio civile da parte di un magistrato che si protesta diffamato da un articolo di stampa sulla sua attività professionale e invoca il risarcimento di danni esistenziali.
A proposito di quest’ultima fonte, è necessario precisare - sine ira ac studio, a maggior ragione al cospetto di un uditorio così qualificato di colleghi della parte attrice e anche sciascianamente a futura memoria - che il convenuto rivendicando la sua buona fede non mette in discussione quella della controparte. Non potendo entrare nei dettagli del documento citandone i passaggi più interessanti, mi limito a evocarne la weltanschauung in chiave spersonalizzata.
Del merito dei fatti di causa e delle doglianze si occuperà un altro giudice (non è questo, peraltro, un notevole spunto sciasciano?). Importa in questo contesto l’autorappresentazione che il giudice dà di sé, della sua vita, della sua funzione. C’è una profonda differenza, per esempio, tra le querele dei politici e quelle dei giudici. Nelle prime il protagonista è il giornalista presunto diffamatore, in ottica demolitoria della sua professionalità e moralità; nelle seconde il protagonista è il giudice presunto diffamato, in ottica di esaltazione della propria professionalità e moralità.
La cosmogonia è opposta.
***
Parafrasando e ribaltando una famosa frase di Giorgio Gaber, non mi affascina Sciascia in sé, ma Sciascia in me. In noi. In chiunque provi a maneggiarlo, a interpretarlo, a capirlo. Sciascia rotolala come la forma dell’acqua. Sopravvive al mutare dei tempi, dei contesti, dei costumi. A differenza di altri scrittori della sua epoca, persino di maggiore successo anche internazionale, Sciascia si coniuga al presente, non al passato.
Sciascia scrive, non scriveva.
Sciascia è, non era.
Mi ha colpito, ma non sorpreso, nel libro “Diritto verità giustizia” la difficoltà se non il tormento dei giuristi, e in particolare dei giudici, nel maneggiare la materia Sciascia. Ogni riga trasuda tormento. «Cuba duele», dicono gli esuli cubani. Sciascia duole, dovrebbero ammettere i magistrati. Per un giudice scrivere di Sciascia è un trattenere il respiro, come l’atto del fotografare secondo Henri Cartier-Bresson, un maestro molto amato dallo scrittore di Racalmuto.
Questo tormento non mi stupisce per due motivi.
Il primo è letterario, appartiene alla poetica di Sciascia. Il secondo attiene al suo impegno civile e alla proiezione sociale della sua opera.
Il primo motivo è che Sciascia, a dispetto del suo ragionare cartesiano, ordinato, conseguente, logico-deduttivo, non è lo scrittore della razionalità, ma del mistero. Alberto Moravia diceva che Sciascia ha percorso un viaggio della ragione al mistero. Quando un giornalista francese gli chiese quale fosse la parola chiave dei suoi libri, conoscendo l’ammirazione di Sciascia per Denis Diderot, l’enciclopedista, si aspettava una risposta di stampo illuministico.
Invece Sciascia rispose: mistero.
Invece il mestiere del giudice reclama la ragione e rifugge il mistero. Al limite si rifugia nell’anacoluto logico, come in certe motivazioni di sentenze in cui prevale il libero convincimento. Il giudice si aggrappa alla ragione come nutrimento esistenziale, per non morire. Ecco il motivo del tormento. E chiedere a un giudice di leggere con la razionalità il testo di uno scrittore misterico è una forma di sadismo, pari solo a quella di scegliere un giornalista come primo relatore in un convegno di giuristi.
***
Il secondo motivo attiene alla dimensione civile di Sciascia. Il quale è intellettuale per antonomasia, nella definizione che egli stesso ne dà su La Stampa il 25 novembre 77: «Intellettuale è uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgere le conseguenze sociali».
Andò dice che Sciascia è narratore spurio perché attinge da fonti diverse e disomogenee: documenti giudiziari, cronache storiche, tradizione orale. Tanto spurio che il suo miglior romanzo è “L’affaire Moro” (Sellerio, 1978), che romanzo non è e in cui il mistero s’invera nel saggio, addirittura nell’instant book. Del resto a ben vedere il caso Moro è giallo sciasciano per definizione: senza lieto fine e in ogni caso senza soluzione a dispetto, se non irridendo, spiegamenti polizieschi e procedure giudiziarie.
L’investigatore di Sciascia non è il geniale e risolto commissario che stana implacabilmente l’assassino (magari festeggiando con un piatto di pasta ‘ncasciata, a proposito di genius loci). Non è il tipo italiano che furoreggia di questi tempi in libreria e nelle fiction: ispettori e marescialli sceneggiati con lo stampino, amati per i loro tic (a proposito di immaginario collettivo, non è forse sintomo dello spirito dei tempi se l’eroe di questa fluviale narrativa giallistica non è mai un pubblico ministero né tantomeno un giudice?).
Nulla di più lontano, antropologicamente e psicologicamente, dall’investigatore sciasciano che, sostiene Andò, è piuttosto un uomo del fallimento.
Un uomo in scacco.
***
Proprio come nell’atto di citazione del giudice che mi ha ispirato e che figura, sia pure necessariamente velato, tra le mie fonti, nei romanzi di Sciascia si delinea un’antropologia del giudice come antropologia del potere. Figura tragica nella più generale ed eternamente irrisolta tragedia del processo, che si staglia – bugiardo egli stesso tra i bugiardi, non potrebbe essere diversamente al di là delle intenzioni - in un coro muto di menzogne. E di misteri.
La giustizia, il processo, non fanno altro che imposturare, per usare un verbo sciascano (“Il Consiglio d’Egitto”, Adelphi, 1963). E una giustizia senza verità non può che essere amministrata come tale da un corpo di funzionari cha spaziano - ma qui semplifico e forse estremizzo fino al grottesco, traviato dalla deformazione professionale - dal cinismo del presidente della Corte suprema Riches che teorizza la decimazione come unico modo di amministrare la giustizia (“Il contesto. Una parodia”, Einaudi, 1971) alla boriosa ottusità del procuratore della Repubblica che in “Una storia semplice” (Adelphi, 1989) interroga come testimone il suo vecchio professore Carmelo Franzò.
«L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…».
«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto».
In quello che sarà il suo ultimo libro, pubblicato nello stesso anno della morte, Sciascia chiosa il dialogo così: «La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio».
***
Una simile antropologia era - è - inesorabilmente destinata a collidere, smontare, demitizzare l’iconografia del giudice eroe che a partire dalla fine degli Anni 70 si ipostatizzava in un paese dilaniato da un sostrato limaccioso di sistemiche e non transeunti emergenze criminali.
Fuori dall’ipocrisia, la polemica sui professionisti dell’antimafia, originata dell’articolo di Sciascia pubblicato sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 (https://media2.corriere.it/corriere/pdf/2016/sciascia_antimafia.pdf) non è un incidente di percorso, ma un inevitabile di cui. Anzi bisognerebbe rendere giustizia al titolista del Corriere, a torto accusato di aver travisato il pensiero di Sciascia, inventando una locuzione assente nell’articolo e così provocando polemiche non sopite a distanza di 35 anni. In realtà autentica fu la sua interpretazione nella sintesi della titolazione. Andò, che fu testimone del pranzo di rappacificazione tra Sciascia e Paolo Borsellino, racconta che tra i due ci fu comprensione, anche affetto ma nell’ambito di una ferita mai risanata.
Lo scrittore può essere ignoto a sé stesso, come Sciascia diceva citando Stéphane Mallarmé. Il giudice no. Il giudice si fida dei fatti, li indaga, li accerta, li ri-costruisce, li mette insieme e ne tra una verità. Per Sciascia nella realtà non ci sono dati oggettivi: solo lo scrittore con la sua indagine di pensiero, con la sua pietas, si può approssimare alla verità.
Dice Andò che Sciascia ha scritto intorno alla giustizia e ha scelto il giallo perché la giustizia è impossibile, il delitto è l’unico argomento reale della letteratura e la letteratura è l’unica forma di verità. Non la giustizia, ma la letteratura raggiunge verità che giudiziariamente non è possibile accertare. E in questo vede un filo con il pasoliniano «Io so» (“Cos'è questo golpe? Io so”, Corriere della Sera, 14 novembre 1974, https://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html), che una decina di anni fa diventò, per una bizzarra se non fuorviante sinapsi, il titolo del libro di un importante magistrato (“Io so”, di Antonio Ingroia, Chiarelettere, 2012).
***
Certo mi chiedo cosa scriverebbe oggi Sciascia. Come declinerebbe, se aggiornerebbe la sua antropologia giudiziaria oggi che quella figura del giudice eroe è ammaccata, talvolta vilipesa, in ogni caso non più sacralizzata. Chissà come interverrebbe nel dibattito civile – perché, c’è un dibattito civile? – sulla giustizia, sul diritto, sulla magistratura, sulla verità.
Mi accontenterei anche di uno Sciascia minore, al posto di certi guitti sedicenti epigoni.
E allora - a proposito di Sciascia non in sé ma in me, in noi – che ne è di noi che scriviamo di giustizia, schiacciati tra la verità giudiziaria e quella sciasciana, che è solo nella letteratura? Anche noi siamo condannati a imposturare, e quindi giustamente dobbiamo essere limitati, controllati, ingabbiati in un normativismo prometeico che si fa scudo di una burocrazia tra il tribunalizio e il poliziottesco a cui affida grammatica e sintassi della narrazione giudiziaria che in definitiva è narrazione civile?
Per me Sciascia è la voce di una coscienza laica. Guardare al contesto, non fermarsi a quella che sembra una storia semplice, coltivare l’italiano come “ragionare”, come dice sgranando gli occhi Gian Maria Volonté interpretando il sarcastico professor Franzò. E non tradire quel poco di fede nella scrittura – un colpo di penna, un colpo di spada – per poter dire, come Sciascia nell’introduzione del suo libro d’esordio (“Le parrocchie di Regalpetra”, Laterza, 1956): «Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione».

- Giuseppe Salvaggiulo