Il Moro tradito da Sciascia


L’immagine del Presidente DC tratteggiata dallo scrittore siciliano nell “Affaire ha avuto successo, ma contiene molti errori e forzature. Per esempio la sua presunta abilità nel sottrarsi agli interrogatori dei carcerieri.

Nel considerare a trent’anni di distanza L’affaire Moro, si ha l’impressione che Leonardo Sciascia abbia vinto. L’immagine del Presidente democristiano consegnata alla storia e al sentire comune è la sua. Ci parla di un prigioniero condannato a morte da un duplice potere: terrorista e “statolatrico”, ma che tuttavia sa battersi con ostinazione fino alla fine, sollecitando lettera dopo lettera il nostro sdegno umanamente solidale. Per essere chiari: è la sua e non quella di Arbasino che nel contemporaneo dossier dal titolo “In questo stato” raffigurava Moro come uomo non idoneo a ricoprire cariche pubbliche, incapace di immolarsi sull’altare del bene collettivo.

Pesantemente sbeffeggiandolo, anche, tramite il perfido confronto con le due Marie, Santa Maria Goretti, una pastorella, e Maria Antoniettaregina di Francia, altrimenti in grado di fonteggiare il carnefice, con fierezza e senso del sacrificio.

Non per caso le librerie continuano ad ospitare la cronaca di Sciascia, mentre il volumetto di Arbasino ha avuto il dono della ristampa solo in questi giorni da Garzanti.  Dinnanzi alla morte, sia pure di unpotente, la pietà compartecipe vince sempre sul sarcasmo e sul cinismomotteggiatore.  Ma con altrettanta chiarezza va osservato quanto la fortuna editoriale dell’affaire persista sino ad oggi nonostante talune forzature ed invenzioni che ne limitano di molto l’affidabilità documentaria. L’idea per esempio che Moro si sforzasse di comunicare con l’esterno, eludendo la sorveglianza dei brigatisti, tramite crittografie e frasi allusive: idea del resto affacciata giornalisticamente da Calvino pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere. O ancora l’ipotesi connessa che con il termine“famiglia” il sequestrato intendesse riferirsi al partito demoscritiano se non addirittura allo Stato (<lo Stato di cui si preoccupa, lo stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossesione, io credo l’abbia adombrato nella parola “famiglia”>). L’una e l’altra sembra concessioni ad uncerto gusto del romanzesco, al facile gioco della detection. Il ritrovamento di una più ampia versione del Memoriale, nel 1990, presso il covo milanese di via Monte Nevoso, pare d’altronde condannare all’avventatezza quelle porzioni di testo in cui si immagina un Moro in grado di sottrarsi all’interrogatorio. Fuori luogo, o quantomeno troppo romanticamente coloriti, sembrerebbero altresì i ragionamenti intorno alla cosiddetta etica carceraria dei terroristi, disposti a rischiare una vita per consegnare un messaggio ininfluente, o capaci di attardarsi in tono rispettoso ad un apparecchio telefonico sotto controllo. Delle 95 lettere che Moro scrisse dalla prigione, solo un terzo circa vennero recapitate, e molto spesso con la menzogna, ossia rendendo di pubblica conoscenza ciò che lo scrivente aveva inteso in termini di privatezza interlocutoria. Invero, quando il presidente democristiano osserva di essere <sotto un dominio pieno e incontrollato>, fotografa esattamente la situazione. Ciò non inficia affatto l’autenticità e la limpida pena che traspare dalle sue parole, ma le colloca in un contesto di coercizione anche subdola da cui non sarebbe opportuno prescindere. Ma dove più Sciascia ci sorprende – e sia pure con molto senno di poi – quando dalla cronaca si sposta sul terreno delle considerazioni politiche delle previsioni riguardo al futuro immediato. Di tale natura è il giudizio circa l’agire brigatista, che per una sorta di eterogenesi dei fini  mi sembra orientato non già a contestare, bensì a rafforzare l’alleanza di governo tra DC e PCI. In realtà, morto Moro, il compromesso storico ebbe rapidamente fine; già nei giorni successivi alle elezioni politiche, del 1979, la partita era chiusa. E altrettanto infornata ci appare la profezia intorno ad una drastica crisi di credibilità della democrazia cristiana, che a sua volta avrebbe messo a rischio l’equilibrio dell’intero paese. Profezia comprensibile, in un prigioniero prossimo all’esecuzione, che Sciascia si limita a registrare, riproducendo integralmente la lettera del 21 aprile a Benigno Zaccagnini, semmai accompagnandola con una breve nota di partecipazione emotiva: non tutti igiornali sembrano disposti a pubblicarla, <e la pietà, anche se qualcosa sommuove, non prevale>. Un po’ poco, stante il catastrofismo generale e ravvicinato della visione. È un’esperienza per alcuni versi contraddittoria rileggere oggi l’affaire: siamo sì disposti ad annoverarlo tra i massimi esempi di prosa civile novecentesca, ma non sappiamo più dargli fiducia. Ilpunto è che un tarlo, insieme angoscioso e stupefatto, tormenta lo scrittore siciliano nei giorni in cui si accinge alla stesura. Un dubbio, o “allucinazione”, secondo il quale l’intera azione brigatista potrebbe celare una matrice fantastica. Magari ispirandosi con più precisione a romanzi dipochi anni precedenti, Il contesto, Todo modo, di cui egli porta appieno la responsabilità. Nasce da qui il ricorso assiduo al modello borgesiano, e da qui sorge quella ”invincibile impressione” che sequestro e omicidio del Presidente si configurino come “compiuta opera letteraria”. In tal modo ogni ipotesi o divinazione interpretante diventa lecita, anche le più arrischiate e prive di confronto probatorio. Perché se il primato generativo appartiene alla letteratura, spetterà conseguentemente ad un letterato nel pieno delle sue attitudini umanistiche offrirne un resoconto efficace e vero.  Bruno Pischedda, "Il Sole 24 Ore-Domenica", 4 maggio 2008