Il "botta e risposta" tra Vecellio e Pischedda su "Il Sole 24 Ore"

Sciascia difese Moro 

L’intervista – e il titolo, per una volta, corrisponde al contenuto – è dell’agosto 1978, al quotidiano “La Sicilia”. Leonardo Sciascia si rifaceva a una battuta contenuta nel suo “Il Contesto”: “Tutti i nodi vengono al pettine”, dice uno. L’altro risponde: “Quando c’è il pettine”. Il caso Moro, diceva Sciascia, “è un grande, terribile nodo venuto al pettine. Il problema è che questo nostro paese riesca a trovare il pettine. Per conto mio, direi di averlo: un piccolo pettine, un pettine tascabile. Anche se il nodo è troppo grosso, troppo diabolicamente complicato, sto tentando di scioglierlo: la menzogna genera menzogna, l’Italia è un paese senza verità: bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato. Se non riusciamo ad arrivare alla verità sul caso Moro siamo davvero perduti”.  

Sommessamente, direi che questo è il punto cruciale che si affronta con “L’Affaire Moro”, il pamphlet che Sciascia scrisse nel 1978, nel pieno delle polemiche, e che tante altre polemiche ha sollevato (pretestuose, col senno di poi; ma per capirlo bastava il senno di allora). All’epoca, quando “L’Affaire Moro” venne scritto risultava inaccettabile considerare autentiche le lettere che Moro scrisse durante i 55 giorni del suo sequestro. Era tutto un affannarsi a sostenere che era plagiato, drogato, sua era la mano che le vergava, ma “altra” la volontà di chi le dettava; un  gruppo di “amici” certificò solennemente che quel Moro “non era lui”. Sciascia, col suo “pettine tascabile”, scandagliò quelle lettere, riconoscendone l’autenticità; sostenne che il Moro delle lettere non era diverso dal Moro di sempre: “Se si scorre la vita di Moro negli scritti e nelle azioni, viene fuori invece che continuava a essere se stesso nel modo più lineare ed assoluto. Dire che nella ‘prigione del popolo’ avesse mutato pensiero è una menzogna: malvagia, delittuosa menzogna”.Per aver denunciato, svelato, questa menzogna, Sciascia venne linciato. Il direttore di un importante quotidiano giunse a condannare il libro senza neppure averlo letto, basandosi su un’intervista – peraltro travisata - ad un settimanale, intervista peraltro anticipata correttamente dallo stesso giornale, lo stesso giorno in cui l’attacco usciva. Segno che quel direttore neppure il suo giornale, leggeva. Da quelle polemiche Sciascia ricava un senso di amara allegrezza. Raccontava di D’Alembert  che dopo essersi procurato l’odio dei gesuiti aveva irritato i calvinisti svizzeri:“Un vertice di felicità, essere odiato dai due opposti fanatismi. Ecco, a momenti io mi sento preso da questa specie di allegria: criticato da destra e da sinistra. Segno che non servo né la destra né la sinistra”.Sorriderebbe, probabilmente, alle osservazioni di Bruno Pischedda (“Sole 24 Ore” 4 maggio) che attingendo ad un generoso senno di poi critica l’ instant book di trent’anni fa  sul piano dell’ affidabilità documentaria  per poi egli stesso restarne vittima. Per esempio,rimprovera Sciascia di cedere “ ad un certo gusto del romanzesco” allorchè questi leggeva nel termine moroteo “famiglia” non solo il nucleo parentale ma ,in senso lato, la DC o lo Stato. Eppure un saggio uscito in questi giorni (Miguel Gotor “Aldo Moro. Lettere dalla prigionia”) conferma - appoggiandosi proprio all’analisi delle lettere- l’uso estensivo della parola “famiglia” applicato da Moro al partito o alla corrente. Ma neppure Gotor, resiste a sua volta  alla tentazione di liberarsi dell’Affaire Moro ,additando il “limite interpretativo di un’opera di indubbio valore letterario”,rubricata come inciampo interpretativo per la comprensione dell’epistolario. Giunge persino ad accusare Sciascia di sottile pseudo rigore filologico che lo avrebbe portato a blandire la violenza brigatista, “alla ricerca spasmodica di un ruolo di intellettuale civile  che potesse occupare lo spazio pubblico lasciato vuoto da Pier Paolo Pasolini, di cui però gli mancava- avrebbe detto Moro- il fervore”. Sciascia  avrebbe probabilmente sorriso anche di fronte alle polemiche di qualche anno fa, quando si arrivò a sostenere che “Il giorno della civetta” è un romanzo che canta le lodi della mafia. Sorriso amaro, beninteso; e direbbe di sentirsi come il pesce volante: divorato dagli uccelli quando è in aria, dagli altri pesci, quando è in acqua. Sono polemiche, queste dell’oggi che – si voglia o no – eludono, esorcizzano la questione vera: quella della menzogna che avvolge questo paese, della non verità che ancora oggi grava sulla vicenda Moro; ma che fosse lui, quando scriveva dal “covo” brigatista in cui era segregato, questo, almeno, oggi l’ammettono anche coloro che con forza lo negavano, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga per primo. Quel “piccolo pettine” che è “L’Affaire Moro” è servito. Eccome, se è servito…     

 Valter Vecellio (*)

 

 (*)Valter Vecellio, giornalista e vice-caporedattore  del TG2, è stato presidente degli Amici di Leonardo Sciascia dal 2000 al 2004.  Nel 2001 ha curato gli atti del convegno “L’Affaire Moro,testo e contesto di un mistero italiano” (La Vita Felice,Milano). Nel 2003 ha raccolto in “Saremo perduti senza la verità” una quantità di scritti sparsi,interviste,dichiarazioni e interventi parlamentari di Leonardo Sciascia. Dal 2008 dirige la newsletter telematica A futura memoria, www.amicisciascia.it. dove è possibile tra l’altro partecipare ad un forum sull’Affaire Moro

 

No, fu una forzatura

Sciascia parlava di "Stato", non di DC o sue correnti: voleva convincerci che Moro usando il termine "Famiglia" intendesse l'Italia. E, come detto, non è che una delle forzature presenti nell'Affaire. Un testo di grande efficacia letteraria, d'accordo, ma talora ingannevole sotto il profilo documentario. La stessa intervista rilasciata a "La Sicilia" contiene una sorta di divinazione circa il capo Br responsabile del sequestro: un vecchio, già partigiano, ora militante marginale di un partito di sinistra, e convinto di una prossima esplosione rivoluzionaria nel Sud del Paese. Nessuno di questi tratti sembra indicare Mario Moretti, eppure Sciascia li riteneva "probanti" e "coerenti" con i dati raccolti in quanto "uomo di immaginazione". Ciò non sminuisce affatto l'importanza del pamphlet: in quei giorni Sciascia insieme a pochissimi altri (Fortini per esempio), sostenne l'autenticità delle lettere dalla prigione, e contemporaneamente la dignità del prigioniero. Nondimeno, il "piccolo pettine" di cui si dichiara in possesso mi pare oggi un po' presuntuoso, e alquanto privo di rebbi, così che troppa roba - ipotesi, strategie bislacche, millantate "deduzioni" - ci poteva passare attraverso. Non so cosa vi sia da ridere: l'obiezione è serissima, e coinvolge l'homme de lettres in quanto supremo portatore di verità.

Bruno Pischedda

Domenica  25 maggio 2008 - "Il Sole 24 Ore"