Leonardo Sciascia - Un romanzo "fascista" di Brancati

Presentazione

Questa conferenza di Sciascia su L’amico del vincitore (Milano, Ceschina, 1932) di Vitaliano Brancati ebbe luogo il 19 dicembre 1983 nel salone del Palazzo Busacca a Scicli (RG). Fu la seconda in un ciclo di tre organizzato in quell’autunno dal Movimento culturale “Vitaliano Brancati”, insieme al Giornale di Scicli e col patrocinio del Comune di Scicli (le altre due conferenze furono di due professori dell’Università di Catania, Rita Verdirame e Mario Paolo Sipala).

La conferenza è particolarmente interessante, in parte perché in essa Sciascia ci offre un’analisi del ‘consenso’ fascista in un senso più concreto di quello che in altra sede egli qualificava vagamente come “l’eterno fascismo italiano”, ma anche e soprattutto perché conferma l’importanza che Sciascia attribuisce alla figura di Brancati “moralista e satirico”, il quale, come si sa, fu nel 1937 insegnante presso l’Istituto Magistrale “IX maggio” di Caltanissetta frequentato dallo stesso Sciascia. In un’intervista pubblicata su La Fiera Letteraria nel 1974, alla domanda se avesse sofferto quella crisi ideale che negli anni cinquanta ha travagliato molti intellettuali di sinistra” e se il racconto “La morte di Stalin” (Gli zii di Sicilia, 1958) fosse frutto di quella crisi, Sciascia risponde:

Sì e no. Indirettamente. Di riflesso. Stavo più sulla linea di Brancati che su quella di Vittorini. Il primo libretto che ho pubblicato, Favole della dittatura, aveva due epigrafi: una di Longanesi e una di Orwell, una che si riferiva al fascismo e una che si riferiva allo stalinismo. La morte di Stalin è la crisi di un comunista militante, non adombra la mia.

L’affinità con Brancati è evidente nelle Favole della dittatura. La scelta delle epigrafi a cui fa riferimento Sciascia (da La fattoria degli animali –1945 – e da Parliamo dell’elefante – 1947) rispecchia il suo rifiuto delle dittature che siano di destra o di sinistra, del tutto simile alla scelta di Brancati negli anni fra la fine della seconda guerra mondiale e la sua morte nel 1954. All’interno delle Favole della dittatura, nelle sue osservazioni sulla natura delle dittature, Sciascia rende omaggio a Brancati, nella descrizione della stupidità, del servilismo  e del conformismo che, secondo l’autore di Don Giovanni in Sicilia, sarebbero tipici delle società sotto la dittatura. In un articolo del 1979, Sciascia cerca di spiegare la riluttanza della gente ad abbandonare le dittature, istituzionali o ideologiche che siano e, in un riferimento diretto a Brancati, l’attribuisce al modo in cui il totalitarismo toglie all’individuo il peso del pensiero e perciò rende difficile il ritorno a una democrazia fondata sull’esercizio della ragione.  “La morte di Stalin”, poi, in cui Sciascia pone l’enfasi sull’irrazionalità della fede del protagonista in Stalin, è forse il più brancatiano dei suoi scritti: infatti la ripetizione grottesca della parola “ragione” e dei suoi derivati (una trentina di occorrenze in altrettante pagine) è senza dubbio un omaggio a Brancati (e a De Roberto) e serve a sottolineare in tono farsesco il fatto che i “ragionamenti” di Calogero Schirò non sono che una forma di argomentazione mirata alla scoperta della “buona ragione”, la spiegazione desiderata di ogni avvenimento. Che Sciascia compia una simile operazione nel suo commento al romanzo “fascista” di Brancati è un’ipotesi da valutarsi.
Nel 1984 il testo della conferenza di Sciascia fu pubblicato sul primo numero di una rivista sciclitana, Profondo sud, con una nota introduttiva di Giuseppe Nifosì. Viene qui riproposto con il permesso dei responsabili di Profondo sud – e di questo ringraziamo il dott. Giuseppe Miceli di Scicli che ha fatto da tramite – con la correzione di alcuni refusi che però non vengono segnalati.

Mark Chu

Un romanzo "fascista" di Brancati

di Leonardo Sciascia

In questi giorni che lentamente e attentamente, una sera appresso all’altra, e ogni sera quattro o cinque capitoletti, dopo più di quarant’anni mi sono riletto L’amico del vincitore di Vitaliano Brancati, mettendo in ordine vecchie riviste, una ne ho ritrovata doviziosamente stampata che s’intitolava Civiltà e che veniva pubblicata come “rivista della esposizione universale di Roma” che si sarebbe dovuta tenere nel 1942. Si sa che l’esposizione, che nei disegni del regime doveva essere l’apoteosi della civiltà italiana e fascista, non si ebbe: e di tutto quel che si era operato a prepararla restò a Roma il quartiere dell’EUR e nelle biblioteche una decina di numeri di questa rivista che ebbe un comitato di direzione presieduto da Federzoni e di cui facevano parte Emilio Cecchi, Cipriano Efisio Oppo e Valentino Bompiani,  che ne era anche editore. E proprio sul numero dieci, che forse è stato l’ultimo, mi sono, riordinandola, soffermato: attratto da un saggio sui Mutamenti nel paesaggio italiano  che mi è parso riscuotesse interesse attuale, dal momento che la Comunità Economica Europea ci impone di eliminare dal paesaggio italiano quell’elemento al paesaggio essenziale che è l’olivo.
    Il saggio è di un filologo tra i più validi e famosi che l’Università italiana abbia annoverato. E l’ho letto con grande piacere, e qualcosa apprendendovi. Ma proprio alle ultimissime righe, ecco che dalla visione del paesaggio italiano mi sono ritrovato a pensare al libro di Brancati che andavo rileggendo, al romanzo “fascista” di Brancati.
Le riporto, le ultime righe del saggio – e con l’avvertenza che il numero della rivista che lo contiene porta la data del 21 luglio 1942 - XX: “Nell’Italia meridionale, per esempio in certe parti di Puglia, i contadini mangiano ancora pan d’orzo (e quello di frumento è dato soltanto a chi è malato mortalmente). La guerra ci ha riportato quanto all’alimentazione a età più povere: fino a quando? Fino alla vittoria”.
    Nel luglio del 1942, ventesimo anno di un regime che non sarebbe arrivato al ventunesimo, non c’era italiano di semplice buon senso che ancora credesse nella vittoria, anche quelli che, per le folgoranti battaglie vinte dai tedeschi, ci avevano dapprima creduto. Dopo l’attacco alla Russia e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, si erano ormai convinti che le battaglie che ancora si potevano vincere avrebbero prolungato ma non mutato l’esito finale: di sicura sconfitta per il nazi-fascismo. E come mai l’illustre filologo continuava a dichiarare la sua ferma fede nella vittoria? Evidentemente – e lo relegheremmo nella più madornale imbecillità a credere nel suo credere – nemmeno lui ci credeva: ma anche se il suo discorso riguardava il paesaggio italiano, appunto perché non ci credeva si considerava in obbligo di chiudere gratuitamente, derogando dal tema storico-filologico che nel saggio aveva affrontato con sicura dottrina e notevole capacità di sintesi con quell’affermazione.
    Su questo piccolo esempio, quasi casualmente estratto dalle migliaia che la carta stampata del ventennio fascista ci offre, si può fondare questa misura di giudizio: che le tirannie, le dittature, i regimi autoritari ricevono più forza da coloro che non ci credono che da coloro che ci credono. Chi ci crede proprio perché ci crede non solo non ha bisogno di dichiarare costantemente e gratuitamente che ci crede, ma ha sempre aperta la possibilità di ricredersi. È chi non ci crede che, ovviamente, non ha ragione di ricredersi e, per malafede, si trova ad abbondare, anche sfiorando il ridicolo o cascandoci, in dichiarazioni di fede.
    C’è una poesia di Trilussa, probabilmente scritta quando già cominciavano le “adunate oceaniche” sotto il balcone di palazzo Venezia, che s’intitola “Però…” e che, curiosamente, dà della dittatura le stesse immagini che Brancati ne darà in un discorso tenuto a Parigi nel 1952:  in un paese di cui il poeta dice di non ricordare il nome, dove non esistevano partiti e i cittadini erano “ammaestrati tutti d’un parere” ogni sera il sovrano si affacciava al balcone e “come parlasse a una persona sola” alla folla domandava se si fosse tutti d’accordo.
    Un “sì” che durava mezz’ora ne era la risposta; ma una sera “un ometto scantonò / e, appena detto ‘Sì’ disse ‘Però…’”. La folla gli si inferocì contro, ma l’ometto riuscì a spiegare che quel “però” gli era uscito dopo il “sì” soltanto perché un suo vicino gli aveva pestato un piede:

quer “però” che m’è uscito in buona fede
più che un pensiero che ciavevo in testa
era un dolore che sentivo ar piede.


Ed è ancora da notare una curiosa rispondenza: quando il filosofo americano Dewey fa l’elogio del sistema democratico, contro coloro cui repugna che gli ignoranti possano decidere della sorte di un paese, appunto chiama in causa il piede: “per quanto possa essere ignorante un uomo, sa se la scarpa gli viene stretta al piede”.
    Ma nel 1932 in cui Brancati pubblicava L’amico del vincitore, in quella che Rousseau chiama la volontà generale, di cui il fascismo si sentiva ed era investito, sparutissimi e quasi invisibili erano i “però”, come dice Trilussa, “acciaccat[i]”; e ancora di meno quelli che venivano dai pensieri, dal pensiero. Il fascismo era tante cose, e in tante cose appagava gli italiani. Le cinquecento lire di stipendio del medio impiegato statale, dell’insegnante, mai erano state tante come allora; la sicurezza pubblica appariva, e in parte era, tale da suscitare poi il nostalgico luogo comune che “si dormiva con le porte aperte”; nei consessi internazionali l’Italia fascista si assideva con un prestigio mai fino allora goduto – e bisogna aggiungere che un eguale prestigio il fascismo godeva tra gli intellettuali di tutto il mondo, escluso forse il solo Hemingway: che può darsi non sia un grande scrittore, ma gli dobbiamo il riconoscimento che nel giudicare il fascismo, fin dal momento in cui l’ha visto nascere, non si è sbagliato.
    Ma a parte queste, e tante altre cose, di cui gli italiani si appagavano, bisogna considerare tutto quel che nel fascismo confluiva di peculiarmente italiano: storia, costume, idee, letteratura, sentimenti, risentimenti, illusioni. Anche tra loro contrastanti: ma appunto nel rappezzarli, nel farli stare assieme, si otteneva l’immagine di un vasto consenso da cui derivare un potere praticamente illimitato. Cattolicesimo, conservatorismo, anarchismo; idea repubblicana congelata in quella, di ascendenza crispina, che la monarchia univa quel che la repubblica avrebbe diviso; antiparlamentarismo, sindacalismo, giolittismo (Salvemini dirà che la differenza tra Mussolini e Giolitti era nella quantità e non nella qualità); combattentismo e risentimento per “la vittoria mutilata” con residui di irredentismo nei riguardi della Corsica, di Malta, di Nizza, antiregionalismo e, al tempo stesso, celebrazioni regionalistiche dei grandi italiani; dannunzianesimo, futurismo, difesa della tradizione e dell’ordine nelle arti e nelle lettere patrie, strapaese, stracittà, novecentismo; virulento antiborghesismo di parole e rassicurante borghesismo di fatti; apologia della intolleranza manganellatrice ed esaltazione del carabiniere (e a cavallo per giunta): ecco alla rinfusa, tutto quel che fascismo accoglieva senza preoccupazione alcuna di renderlo a coerenza. E appunto questa incoerenza, non trovando riflesso di opinione e di critica, cadendo anzi nell’indifferenza e nel conformismo dei più diventava forza: sicché i soli elementi che approssimativamente possiamo chiamare di opposizione venivano da chi nel fascismo credeva, e appunto perché ci credeva. Era il non crederci, la riserva mentale del non crederci, che permetteva non solo di accettarlo, ma di incondizionatamente farne esaltazione. Come un andare, insomma, alla messa di mezzogiorno: a che tutti vedessero.
    Si capisce che le tante cose che il fascismo era o di cui dava apparenza che fosse, chi nel fascismo credeva o voleva credere non solo non poteva accettarle tutte, ma il non accettarle tutte era condizione necessaria per crederci. E si dirà che in fondo la decisiva scelta interna stava tra reazione e rivoluzione: ma non così semplice ne è oggi la valutazione storica. Tra il dire rivoluzione e il fare reazione, c’erano nel movimento fascista tante posizioni intermedie, tante sfumature, tanti “qui pro quo” per cui il dire a momenti influiva sul fare e il fare trovava a volte gli inceppamenti del dire.
    Ora, di tutte le cose che nel fascismo confluivano senza conflittualità, senza stridore, ammortizzate dall’indifferenza quasi generale, dal conformismo, dal trasformismo, dall’assenza di spirito critico – e il tutto paternamente protetto da uno storicismo per cui tutto quel che avveniva era impensabile non avvenisse e vano sarebbe stato l’opporvisi – di tutte queste cose il giovane Brancati se ne era in effetti ritagliata una sola: il dannunzianesimo.
    Ma, curiosamente, un dannunzianesimo che tendeva a liberarsi dalla parola dannunziana per assumere forse quella mussoliniana, e comunque una parola più nuda ed immediata, una parola nonché suscitatrice dell’azione che fosse l’azione stessa. In realtà, questo traghettare dal dannunzianesimo al mussolinismo, era in lui un’operazione assolutamente letteraria, ma è da credere gli comportasse l’illusione dell’antiletteratura. In termini di letteratura – e di storia letteraria – era di fatto una conversione dal dannunzianesimo al rondismo di cui gli era vicino l’esempio di un Nino Savarese, ma gli configurava invece, dentro l’esaltante temperie combattentistica, come un passaggio dal culto dannunziano al culto mussoliniano. E questo passaggio crediamo lo si possa cogliere nel dramma Piave, pubblicato lo stesso anno in cui usciva L’amico del vincitore, scritto – stando alle date apposte dall’autore – tra il settembre del ’29 e il luglio del ’30.
    Sia il dramma che il romanzo si ispirano, con smaccata evidenza, a Mussolini, al mussolinismo; ma il romanzo così stranamente che sarebbe bastato qualche taglio e qualche spinta a rovesciarlo, a renderlo del Brancati che abbiamo conosciuto dopo: a farlo, insomma, romanzo satirico, e di satira del mussolinismo appunto.
    Brancati era nato a Pachino nel 1907. Nello stesso luogo e lo stesso anno pare sia nato Pietro Dellini protagonista del romanzo. Nasce in una famiglia piccolo-borghese che lo vota all’intelligenza e lo destina alla gloria letteraria. In verità le sue sensibilerie, paure e angosce sarebbero quelle di ogni altro bambino, se la famiglia non gliele coltivasse come premonizioni del genio. I primissimi anni li passa a Maretta: “un paese della Sicilia, sereno, guardante due mari”, facilmente riconoscibile come Pachino. La famiglia si trasferisce poi a Moduca, altrettanto facilmente riconoscibile come Modica (e bisogna dire che bellissimi tratti la descrivono). A Moduca passa l’infanzia e l’adolescenza: è tra i ragazzi con cui fa gruppo, ma sempre appartandosene nella presunzione di essere diverso e destinato a grandi cose, ce n’è uno che particolarmente lo attrae al tempo stesso che lo disprezza. Si chiama, questo ragazzo protervo e violento, bocciato a scuola e destinato ad essere promosso dalla vita, Giovanni Corda. Ed è Mussolini. La storia di Giovanni Corda nella storia d’Italia è nel romanzo, indefettibilmente, quella di Mussolini. Soltanto che il partito fondato da Corda si chiama «bontarista» (da bontà, ma con la lontana eco di bonapartista?) e che la dittatura di Corda succede a quella, del tutto inefficiente, di un generale: il generale Corridoni. E forse Brancati voleva dire che in Italia c’è sempre una dittatura e che è preferibile averne una vera, d’efficienza.
    Ora, immaginiamo per un momento Mussolini lettore di questo romanzo di Brancati. Forse non lo avrebbe fulminato di sequestro, ma certo lo avrebbe letto con grande irritazione. Innanzi tutto non avrebbe gradito l’omaggio che lo scrittore intendeva fargli col naturalizzarlo siciliano: e si può senz’altro considerarlo, nelle intenzioni, un omaggio, poiché Brancati aveva scritto qualche anno prima un articolo sull’intelligenza dei siciliani concludendo che erano i più intelligenti d’Europa: e credo non mutò mai d’opinione. Ma agli occhi di Mussolini il farlo siciliano doveva apparire o un volerlo diverso o un crederlo diverso: cose ugualmente irritanti. Né avrebbe gradito, Mussolini, quel conferimento di sana barbarie, di sana volgarità, di sana incultura al suo alter ego: qualità che davvero allora Brancati si compiangeva di non avere e, nonché al dittatore, invidiava a ogni suo coetaneo che ne avesse. E Mussolini aspirava invece a dare di sé immagine di uomo sensibile, raffinato, colto; e comunque della cultura aveva soggezione, e mal nascondeva il complesso d’inferiorità di cui era affetto.( Il disprezzo per la cultura, che poi abbiamo visto affiorare nel “culturame” di un ministro della restaurata democrazia, in Italia ha, purtroppo, radici cattoliche). Mussolini non la disprezzava: la temeva e voleva esserne partecipe.
    E oltre a questi, motivo d’irritazione per Mussolini credo sarebbe stata l’onomastica del romanzo: quella mutazione del Corridoni sindacalista, morto sul Carso e considerato del fascismo un precursore, nell’imbelle generale la cui dittatura precede quella di Corda;  e ancora di più lo avrebbe irritato il nome Corda dato al personaggio che lo rappresentava con assoluta evidenza: nome che irresistibilmente richiamava il proverbiale parlar di corda in casa dell’impiccato.
    E lasciando da parte Mussolini e l’ipotesi che non lesse il libro e che nemmeno Bocchini, allora capo della polizia e di solito bene informato in fatto di letteratura, gliene parlò, oggi possiamo chiederci – come allora Mussolini e Bocchini se lo sarebbero chiesto – se davvero quel nome Brancati l’abbia trovato senza sia pure inavvertita malizia. E da questo dubbio si può aprire tutto un discorso. E non che si voglia e si possa dubitare dell’intenzione del ventitreenne Brancati di voler fare un romanzo fascista, un grande romanzo fascista; ma possiamo e dobbiamo dubitare, di fronte al risultato, del suo essere fascista. Questo libro di 532 pagine, se lo si scruta senza il pregiudizio che lo stesso autore ripudiandolo qualche anno dopo ci offre, dice della volontà di essere fascista e dell’impossibilità ad esserlo da parte di uno scrittore di forte vocazione moralistica e satirica. È un libro caotico: e la confusione viene soprattutto dal fatto che l’autore si è posto – proiettandosi e confessandosi nel personaggio di Pietro Dellini – in una condizione di volontaria inferiorità, di disprezzo verso se stesso, di fallimento e quasi di suicidio rispetto all’antagonista Giovanni Corda, il vincitore. Ma non si può essere nemici di se stessi né in questo modo né fino a questo punto – e cioè scrivendo un libro. Da vinti, e accettando le ragioni e la giustizia della sconfitta, non si può scrivere un libro. Brancati lo scrive – senza rendersene conto – affinché quel Pietro Dellini che credeva di essere vinto nelle sue velleità letterarie e incapace di essere veramente “amico del vincitore”, a ventitrè anni, l’età stessa che egli aveva scrivendo il libro, vi muoia. È in effetti il suicidio del Brancati che credeva di esser fascista, che voleva esserlo.
    Il silenzio che vi succede prepara il Brancati che potremmo dire “mutato in se stesso”, il Brancati moralista e satirico che del fascismo – e di ogni fascismo – ha saputo darci la più precisa e feroce rappresentazione. Il Brancati che ci è maestro.