Enzo Forcella - Due facce della medaglia

Sciascia come romanziere, saggista, drammaturgo di fama e levatura internazionali. Ma Sciascia anche come uomo di grandi passioni politiche. Polemista, uomo di parte pronto a intervenire (e quasi sempre controcorrente in maniera da spiazzare gli avversari) su tutti i grandi temi della vita pubblica e insomma, come si diceva un tempo, “intellettuale impegnato”. So bene che Sciascia avrebbe rifiutato una tale qualifica. Non negava, ovviamente, il suo impegno civile. Ma era fermamente convinto che esso non andava confuso con la politica. La politica non gli piaceva. Nei suoi riguardi provava addirittura disgusto. La verità, penso, è che non si possono separare con un taglio netto le due dimensioni e arriva un momento, nella vita, in cui si deve prendere atto che si tratta di due facce della stessa medaglia. Non a caso tutta l'opera del narratore ruota attorno al problema del potere percepito come forza demoniaca, una sorta di grande congiura della storia, ma anche al tempo stesso come insopprimibile componente della natura umana. Credo che lo stesso Sciascia abbia esitato a lungo prima di convincersi che questa era appunto la sua dimensione.
Il mio primo incontro con lui risale alla metà degli anni Cinquanta, nella redazione del Mondo che stava pubblicando a puntate Le parrocchie di Regalpetra, il libro che avrebbe segnato l'inizio della sua carriera letteraria. Sciascia si guadagnava ancora da vivere come maestro elementare. Era difficile intravedere in quel signore timido, schivo, con quel tratto di distaccata eleganza che avrebbe poi conservato per tutta la vita, il maȋtre à penser che avrebbe infiammato le polemiche politico-culturali dell'ultimo decennio assumendo in una certa misura il ruolo di “coscienza critica” che nella prima metà degli anni Settanta aveva svolto Pier Paolo Pasolini. Passeranno, infatti, circa vent'anni prima di ritrovare l'autore de Il contesto e di Todo modo proiettato direttamente sulla scena politica. E' nel '76 quando Sciascia si lascia convincere a partecipare, come indipendente, nelle liste del Partito comunista, alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Palermo. Viene eletto, ovviamente, ma dopo pochi mesi scandalizzato e deluso getta la spugna.
I motivi dello scandalo, come gli viene subito rimproverato, sono abbastanza ingenui. “Mi sembrava – dice – di rivivere quella novella di Pirandello dove si racconta del consiglio comunale di un borgo nella provincia di Caltanissetta dove si discuteva sempre della illuminazione delle strade senza mai decidere di farla”. Come ci si poteva attendere di trovare qualcosa di diverso dall'immobilismo e dalla inconcludenza in un consiglio comunale italiano, e per di più del Mezzogiorno? La delusione, invece, tocca un tematica assai più vasta e sarà poi determinante per la successiva evoluzione politica di Sciascia. Riguarda la politica del Partito comunista che (sono gli anni del “compromesso storico”) dopo avere per trent'anni denunciato il malgoverno della Dc ora si accinge a governare insieme. Il fantasma del potere che ingoia anche coloro che lo contestano, assimilando tutto e tutti in un gioco dal quale nessuno riesce a stare fuori, sembra uscito dalle fantasie del romanziere per incarnarsi nella realtà italiana. “La mia generazione – commenta Sciascia – scivola verso la rassegnazione e sta toccandone il fondo, e un'altra generazione, quella dei più giovani, si sta bruciando in un rifiuto inconcludente. Con tutto il mio pessimismo, con tutto il mio scetticismo, non mi rassegno”.
Infatti non si rassegna. Da questo momento, anzi, comincia la sua grande stagione come personaggio pubblico e  persino “scandaloso”, patrocinatore di cause minoritarie spesso sacrosante ma a volte anche insostenibili. E' lui che, nella fase più acuta dell'offensiva terrorista, appoggia la tesi “né con lo Stato né con le Brigate Rosse” e che, subito dopo l'assassinio di Moro, in un pamphlet che diventa subito famoso, denuncia l'ipocrisia di tutti coloro che, per difendere la linea dell'intransigenza, avevano contestato l'autenticità delle lettere che il presidente della Dc aveva scritto nel corso della sua prigionia. Ed è ancora lui che, come deputato del Parlamento radicale, stende la relazione di minoranza della commissione parlamentare d'inchiesta rimproverando aspramente democristiani e comunisti di non aver accettato la linea della trattativa con i terroristi. Sulla questione delle lettere aveva indubbiamente ragione. Ma sul contrasto tra “intransigenti” e
“trattativisti”, avrebbe dovuto rendersi conto, proprio in nome della sua concezione laica e problematica della vita, che si trattava di una decisione politica e come tale opinabile. Senza contare che, come la storia avrebbe dimostrato, i margini per una possibile trattativa in quei terribili giorni erano stati praticamente nulli. Ma sono anni in cui la passione politica, da una parte e dall'altra, fa premio sulla lucidità delle analisi e Sciascia, come si è detto, nonostante l'immagine distaccata che amava dare di sé, era uomo di forti passioni politiche, oltre che morali. Era uno dei suoi tratti più attraenti, questo non riuscire mai a distinguere il piano politico da quello morale, la “etica delle convinzioni” e quella della “responsabilità”, i sillogismi della ragione dal faticoso e spesso irrazionale procedimento dei fatti. Una buona parte delle polemiche e delle violente ripulse provocate dalle sue prese di posizione è nata proprio da qui.
La polemica più clamorosa è anche la più paradossale. Si accende due anni fa quando, proprio in una delle fasi più difficili della lotta alla mafia, Sciascia denuncia l'esistenza di un “partito dell'antimafia” che “non consente dubbio, dissenso, critica” e avrebbe costituito in Sicilia una sorta di regime. “Proprio come se fossimo al 1927 – rincara lo scrittore – ossia al tempo del prefetto Mori vittorioso in Sicilia e trionfante nella sua camicia nera con medagliere appuntato”. Ma come, lo Sciascia che aveva segnalato tra i primi la trasformazione della mafia in un potere ormai infiltrato, e non soltanto in Sicilia, in tutti i gangli dello Stato, lo Sciascia che ricordava come ormai il mafioso “ha la faccia di un uomo che sta tra la politica e gli affari, o addirittura dentro la politica, anche la grossa politica”, ora si trasformava nell'accusatore degli uomini più impegnati (e più sacrificati) nella lotta contro la delinquenza organizzata? Lo sconcerto provocato da questa incredibile uscita era comprensibile e anche, tutto sommato, ampiamente giustificato. Sciascia, però, non ne fu affatto turbato. Seguiva un ragionamento tutto suo e poi, forse, gli piaceva anche questo sapore di zolfo che le comunicazioni di massa avevano diffuso attorno al suo personaggio.
Forse gli storici scriveranno un giorno che vi è stato un primo e un secondo Sciascia. Lo scrittore appartato degli anni Cinquanta e il maȋtre à penser che con il piglio giacobino e una assoluta libertà di giudizio, assumendosene sempre la responsabilità in prima persona, denuncia tutti i mali della società italiana. Il primo sarà accettato più pacificamente del secondo. Il punto di collegamento tra i due rimarrà comunque quella amara e disincantata meditazione sul potere che Sciascia porta avanti ininterrottamente nella sua opera e nella sua vita.

(da La Repubblica, 21 novembre 1989)