Enzo Siciliano - Le storie della condizione umana

Non lo dimenticheremo facilmente il narratore, il maestro di A ciascuno il suo, de Il giorno della civetta, de Il contesto, di Todo modo e de Il cavaliere e la morte. Leonardo Sciascia con i suoi magri romanzi (“Ho impiegato un anno per farlo più corto” scrisse de Il giorno della civetta), ha dato moltissimo al romanzo italiano della seconda metà del secolo.
Romanzi: certo, romanzi pure se Sciascia amava con eleganza definirli “parodie” e gidianamente “soties”. Col successo che l'ha circondato, egli seppe mantenersi sempre purissimo, purissimo come un esordiente, disse di lui Pasolini.
Cosa ha raccontato Sciascia nei suoi romanzi? Sempre un'identica storia, un' ipostasi della condizione umana: il conflitto magico fra l'individuo e le forze nere del potere, le forze che attentano alla distruzione dell'uomo, nel mondo qual è oggi, forze anonime, asettiche, forzosamente indefinibili.
Sciascia inviava un suo personaggio nel cuore oscuro delle cose: lasciava che penetrasse in esso con coraggio, e la decifrazione del male avveniva per sobillazione razionale, ma anche per una calda, intensa pietà.
La Sicilia: una costellazione di istituti giuridici, di privilegi, di immunità che, altrove scomparsi da decenni, sopravvivono ben radicati nel comportamento e nelle idee dei siciliani. La mafia, la “sicilitudine” esistono per la mitologica forza di un tale precipitato antropologico, e perché complesse forze finanziarie e politiche hanno saputo sfruttarlo e radicarvisi.
Di questa realtà, Leonardo Sciascia, dopo Verga, dopo Pirandello, dopo Brancati, dopo Tomasi di Lampedusa, è stato l'interprete più acuto, più sensibile, più spassionato: ne è stato l'interlocutore ferito, umiliato, anche stranamente, inconfessatamente  correo. Vediamo in quale modo.
Sciascia è anzitutto un narratore, e come tale è posseduto da stupore nei confronti della materia che lo ispira – la Sicilia, la “sicilitudine”. Si è letto che egli fosse un moralista. Ma il moralista non secerne dubbi, non si mescola ai peccati che condanna, non li rappresenterebbe mai in quella sostanza personalissima, ambigua e trasparente che è il linguaggio. Li denuncerebbe. Il moralista manca d'ombra, grande o piccola che sia. Lo stupore di chi narra, e di Sciascia in specie, è di chi non si sottrae alla cattura della pietà e dell'ironia, del dolore e del sorriso.
Sorriso, dolore, ironia, pietà, furono i sussidiari attraverso i quali lo scrittore inviava il proprio personaggio tipo, un nome per tutti, il capitano dei carabinieri de Il giorno della civetta, verso la nebulosa siciliana, quella nebulosa ormai irrimediabilmente ammalata, in stato di metastasi, per capire la quale la ragione ha bisogno di un “in più”. Per Sciascia, questo “in più” era l'immaginazione letteraria: intendo la coscienza acuta di essa, una coscienza tutta novecentesca, diciamo borgesiana, che a maestri quali Verga, Pirandello, Brancati e Tomasi toccava come intuizione e non come palese strumento conoscitivo.
Sciascia narratore è un narratore realista che non aderisce per istinto al proprio destino, ma vi si riconduce per riflesso, dilatando il complicato istituto del romanzo verso quanto Pirandello, come in un sogno, nella prefazione ai Sei personaggi, aveva divinato essere la congiunzione fra lo scrittore e le proprie creature.
Per Sciascia, a partire dagli anni Settanta, con Il contesto, con Todo modo, cresce e si estende quella consapevolezza che portava i suoi temi a mutarsi sempre più in un' ipostasi filosofica che, nel confronto con il vero, dovevano plasmarsi di sensibilità, di fantasia, diventare, da assiomi, punti di fuga verso una individuazione concreta, diventare cioè letteratura nel senso più alto della parola.
Di qui il dato compromissorio con la propria materia: la pietà che incenerisce ogni moralismo; quella pietà che la rappresentazione letteraria non può negare mai a nulla, poiché essa guarda all'uomo, nella interezza che ha, dando per scontato che egli sia, chiunque sia, un'entità complessa, degna del perdono della parola.
Questa pietà era anche attraversata da un guizzo di sarcasmo. I racconti di Sciascia, siglati spesso dentro il respiro del memoriale, del referto notarile, in una lingua altamente selettiva, possedevano un accento balenante: storia e fantasia si confondevano in essi, andavano a sommarsi nella chiarezza, nella plasticità, nella leggerezza del dettato.
In quella chiarezza, plasticità e leggerezza ecco apparire in filigrana una nera risata. Era il riso di Sciascia, un riso senza riso, quel riso in eclissi che ha fatto grande un comico come Buster Keaton. E' anche il riso che anima un'intensa passione civile, una passione che non molla – dove si coglieva l'alito della tolleranza, la passione per la giustizia – La pietà, appunto.

(dal Corriere della Sera, 21 novembre 1989)