Fausto Pezzato - Un eccesso di scomodità

La morte di Leonardo Sciascia ha gettato nella costernazione, si direbbe, soprattutto i nostri politici. Si leggano i messaggi di cordoglio inviati da deputati, senatori, ministri, segretari ai parenti dello scrittore, per misurare il “vuoto incolmabile” che la sua scomparsa apre nelle segreterie, nei corridoi di Montecitorio e Palazzo Madama. Tutti vogliono infilare almeno un buon aggettivo nell'epigrafe del maestro di Racalmuto, del quale si può finalmente cantare quella “diversità” che lo rendeva, da vivo, così poco maneggevole, vale a dire il suo “impegno civile”, la sua “autonomia di pensiero”. Spettacolo sconcertante, se si pensa che, fatta eccezione per il “corsaro Pasolini”, nessun altro intellettuale nel secondo dopoguerra ha attaccato con tanta lucidità e accanimento la “classe” che ora lo copre di lodi. Di lui si ama ricordare la scomodità, l'intransigenza, l'odio per la menzogna e il disprezzo per i compromessi. Come se queste “qualità” non avessero provato il rigetto del sistema quando Sciascia tentò di far politica nelle istituzioni: prima consigliere comunale a Palermo (indipendente nel Pci), poi nel Parlamento italiano e in quello europeo (come deputato radicale). Come se la sua partecipazione ai lavori della commissione d'inchiesta sul rapimento di Aldo Moro non si fosse conclusa con un pamphlet dello scrittore contro i partiti, rei, a suo dire, di aver sacrificato la vita del leader democristiano a una gretta ragion di Stato.
Forse si vuole seppellire Sciascia nella gloria del siciliano che ebbe il coraggio di combattere la mafia a viso aperto e che, in un eccesso di “scomodità”, sparò a zero contro quanti facevano dell'antimafia una professione. Ma Sciascia vide attraverso la lente del fenomeno mafioso le più insidiose malattie del potere. Vide e denunciò la degenerazione del Palazzo, la corruzione che vi si era annidata, la contiguità col mondo malavitoso. In una intervista rilasciata nell'aprile del 1982, disse: “La politica è sempre sporca, ma mai come in questi anni. Sono angosciato di fronte a tanti, troppi sintomi di incanaglimento della politica...Credo che lo Stato italiano, arrivo a dire persino durante il fascismo, fosse un po' meglio, nei suoi uomini, di quanto sia oggi”. Un'amarezza che sfidava i rischi del qualunquismo. Un'indignazione in cui non c'erano tenerezze per nessuno. Se alla Dc rinfacciò il “parricidio” di Moro (per citare una delle tante polemiche), ai comunisti rimproverò l'uso sistematico della menzogna: “Non c'è persona che non abbia detto su di loro verità poi riconosciute dagli stessi comunisti, che non sia stata attaccata in modo abbietto: Gide, Camus, Silone e tanti altri”.
Pessimista illuminato, dissenziente fisiologico, oppositore per vocazione, oggi si accumulano sul cadavere ancora caldo di Leonardo Sciascia, assieme ai grandi meriti letterari che gli spettano, anche riconoscimenti che potrebbero stravolgere il senso della sua vita e della sua opera. Pur considerando le esigenze della liturgia, il Palazzo dovrebbe contenere le proprie emozioni a resistere alla tentazione di trasformare Sciascia morto in ciò che davvero non fu: uno scrittore di regime.

(da La Nazione, 21 novembre 1989)