Salvatore Butera - Un illuminista contro le mafie

Lievemente claudicante, appoggiato a un piccolo bastone nero dal pomo d'argento, l'eterna sigaretta fra le labbra sottili, il colorito olivastro di siciliano dell'interno: così molti ricorderanno Leonardo Sciascia, spentosi prematuramente ieri a Palermo, a 68 anni.
Da tempo era malato e i suoi amici, le pochissime persone che lo frequentavano, lesinavano pudicamente, come era nel suo stile, le poche notizie su di lui. Questa estate era stato lungamente a Milano, per curarsi, in un piccolo appartamento di via Solferino, presto diventato meta di visite.
La sua vocazione di scrittore era esplosa presto. Maestro elementare nel suo paese, dà con Le parrocchie di Regalpetra (1956) uno dei libri più belli della letteratura meridionalistica; quella, per intenderci, dei Levi, degli Scotellaro, del Giovanni Russo di Baroni e contadini.
Una grande elegia su una Sicilia ancora immota dopo due guerre, percorsa dal dramma della zolfara (l' agrigentino e il nisseno minerari) da cui Sciascia proveniva per nascita.
C' è chi lo ricorda, pendolare, sulle vecchie littorine della linea Palermo-Caltanissetta; solo, silenzioso, un po' imbronciato, intento alla lettura di qualche giallo d' autore, genere da cui prese larga ispirazione. Dopo Gli zii di Sicilia (1958), negli anni 60 emerge il grande Sciascia, quello più noto al pubblico, anche in virtù della trasposizione cinematografica dei due grandi romanzi contro la mafia: Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966).
E' lo Sciascia classico, indagatore, attraverso trame apparentemente poliziesche, dei fili perversi di un fenomeno che non aveva ancora assunto i terribili connotati di oggi, ma di cui già allora il grande scrittore aveva intuito, anche per averlo avvertito sulla pelle, il potere di interdizione dello sviluppo, civile prima ancora che economico.
E, tuttavia, meridionalista in senso stretto Leonardo Sciascia non fu mai; non condividendo, di quella visione, l' industrialismo, che riteneva estraneo allo sviluppo della sua terra, né, forse, un eccesso - allora - di economicismo.
Al pari di molti contemporanei, Sciascia non può definirsi narratore puro. Fu, piuttosto, nobilmente inserito nel filone del romanzo-saggio, tipico della migliore tradizione italiana, a partire da Alessandro Manzoni, di cui fu grande ammiratore. Prevalevano in lui gli elementi di razionalità , e il narrare finiva per essere lo strumento di una riflessione forse filosofica, certamente civile e politica.
Venne così il tempo dello scavare nella storia infinita della Sicilia, divenuta metafora del vivere quotidiano, al pari, del resto, di quanto era accaduto ai grandi che lungamente studiò e su cui indagò: Giovanni Verga e gli amatissimi Pirandello e Brancati, quest'ultimo da lui conosciuto negli anni bui del fascismo, a Caltanissetta.
Appaiono, uno di seguito all'altro, Il Consiglio d'Egitto (1963), Morte dell'inquisitore (1964) e La controversia liparitana (profeticamente dedicata ad Alexander Dubcek) (1969). Quindi il trasferimento a Palermo, il suo crescere come personaggio e come riferimento civile prima che politico; i viaggi in Francia (ove, se possibile, era più noto che in Italia), l' amore per Parigi, per la ricerca di libri antichi, la passione per Stendhal e il suo mondo.
Nacque allora l' impegno politico diretto. Fu dapprima consigliere comunale di Palermo per il partito comunista, poi deputato, eletto fra gli indipendenti nelle liste dello stesso Pci (1976).
Successivamente aderisce al partito radicale e viene eletto parlamentare europeo, carica da cui si dimette nel ' 79. Un triennio circa di attività politica, che lo porta sempre più alla ribalta.
Da qui l' ultimo filone del suo lavoro di scrittore, quello di cui fu il creatore: il giallo politico, il pamphlet politico-letterario. Il suo frutto più maturo è  L'affaire Moro, apparso prima in Francia e poi in Italia, presso Sellerio, una casa editrice cui fu particolarmente vicino fin dai primi inizi. Della vicenda Moro Sciascia fu forse il primo - lui cosi' lontano dallo statista democristiano - a comprendere il dramma, e la verità che vi si nascondeva.
Appartiene allo stesso genere il suo ultimo lavoro, Una storia semplice, che sta per apparire in libreria, scritto negli ultimi mesi di vita fra Milano e Palermo. Il protagonista, un commissario di polizia, per una volta vince. Anche se poi dirà (forse con l'autore): la vera speranza non è la vita ma la morte.
Di questi ultimi anni è anche la polemica intervista sui “professionisti dell'antimafia”, che, al solito, gli attirò in pari misura simpatie e antipatie. Ma l' uomo era questo: coscienza critica complessa di un tempo difficile anche per la sua lucidissima intelligenza, così tipicamente siciliana e insieme europea.
Siciliana nella capacità di scavo e di introspezione, nell'abilità dialettica dell'argomentare; europea nella facilità di contatto con un' Europa assai più vicina di quanto non si creda a una Sicilia ancora intrisa di umori settecenteschi, illuminista e cosmopolita.
Gli stessi umori che, settanta anni fa, quando Sciascia nasceva, indussero Giovanni Gentile (Il tramonto della cultura siciliana, 1917) a definire la Sicilia “un'isola segregata”. Il contributo di Leonardo Sciascia è andato in direzione opposta: la Sicilia come condizione universale, come categoria dello spirito, da cui partire per un viaggio verso l' uomo moderno, che oggi si è tristemente interrotto.

(da Il Sole/24 Ore, 21 novembre 2009)