Pier Francesco Listri - Un gioco arcano e dolente

Con Sciascia scompare un raro contraddittorio esempio della pianta uomo in Italia: poeta moralista e poi – soprattutto – pessimista dotato di intima speranza. Non erano le sue contraddizioni (che sulla pagina però splendono di nitido, arcano splendore): fu siciliano fino al midollo, ma della sua terra odiava quasi tutto per spirito di giustizia. Aspirava alla chiarezza adamantina di una società illuministicamente sana, ma sempre si inviluppò (e ne trasse gioielli narrativi) nell'intrigo, nell'inganno, nel delitto. Fu fustigatore implacabile (o meglio denunciatore) di ogni magagna nazionale ( di cui seppe come pochi scendere alle radici, nei cunicoli oscuri della storia italiana) eppure coltivò, come artista, l'intima certezza che ogni segreto resta tale e che al fondo di ogni oscura vicenda proprio l'oscurità è destinata a vincere. Qui – in questo vedere gli uomini anche come pedine di un gioco arcano e dolente – sta la sua astratta e furente sicilianità che lo legava al grande filone verghiano e soprattutto pirandelliano. Sciascia fu insieme una sentinella civile dell'Italia e un poeta pietoso e insieme inflessibile delle sue antiche tare, delle sue ancestrali magagne.
E' facile, per geografia letteraria, inserire questo meridionale senza meridionalismi, nella tradizione colta italiana. Ma oltre Pirandello, per trovargli dei padri, bisogna forse scavalcare i tempi e approdare alla clarté francese (di quegli scrittori tanto si nutrì) e soprattutto all'illuminismo. Ma, solitario e originale senza volerlo, Sciascia era un illuminista amaro, un uomo dei lumi animato di quella fortissima passionalità che si leggeva sul suo volto terreo, intransigente e sconsolato.
Come pochi difese sempre le ragioni dell'arte – nei suoi libri così brevi, tesi, essenziali, chiari – dagli impicci vani della mondanità e delle mode. Eppure non c'è pagina che non alluda, in qualche modo – spesso per segrete, eleganti metafore – alla vita civile d'Italia di questi anni. Come poeta lo affascinava quanto è segreto, oscuro, mancante di un anello nella catena; ma quell'oscuro poi diveniva il tormento del cittadino che vi leggeva quasi una condanna della giustizia, della burocrazia, delle istituzioni italiane appestate da tare secolari. Voleva un Paese diverso e per questo fu impegnato nella politica, lui così restìo tanto ai falsi onori quanto alle pantomime del politichese. Fu comunista, poi radicale, alla fine – ci parve – combatteva da solo per mancanza di soldati alla sua altezza., E nella vita civile lo guidava una limpida utopia che si trasformava talora in oscura intransigenza.
Il poeta, invece, cresciuto su Poe e su Chesterton, sui moralisti francesi, sugli autori della Encyclopédie e sui classici di casa, sapeva come nessuno carcerare il mistero nella chiarezza definitiva di una prosa perfino spoglia. Fin quando, nella tensione morale, non acquistava una sua irripetibile scarna solennità. Forse, nel panorama letterario nazionale, un'altra sola figura gli stava a fronte, ma come speculare e rovesciata: quel Calvino che, come lui, leggero e astratto, tentava di serrare in poche pagine terse il mistero e il sogno. [...]
Scrittore limpido e dai molti segreti, Sciascia nella tradizione curiale delle nostre belle lettere, segna come un graffio e una smentita: si conservò, insomma, anche poeticamente sempre all'opposizione. Ora anche lui, prematuramente, se n'è andato. Ieri Bilenchi, oggi Sciascia. Quale bilancia segreta misura tanta perdita in questa Italia tronfia di statistiche sul prodotto lordo?

(da La Nazione, 21 novembre 1989)