Stefano Malatesta - Un uomo contro

Leonardo Sciascia era timido, anche con gli amici. Parlava poco, diceva di non essere tagliato per conversare e per la comunicazione in genere: eppure, dopo Moravia e Pasolini e più di Calvino, è stato uno dei nostri scrittori maggiori che più è intervenuto nelle cose italiane.
Ascoltava molto, tra l'attento e l'ironico, attratto in particolare da storie che lo potessero confortare nelle sue disillusioni e nel suo scetticismo, diventato negli anni assoluto e onnicomprensivo. Credo fosse per questa ragione che aveva preso a frequentare personaggi molto lontani da lui, per mentalità, costumi, morale.
Lo ricordo a Roma, in un ristorante, seduto davanti ad un ex giornalista, ex senatore, spesso brillante e divertente. L'ex giornalista raccontava storie di malaffare del sottobosco montecitoriano – ossia la politica italiana, quella vera, non quella del programma del governo – dimostrando una conoscenza precisa e intima, dall'interno. Erano vicende molto bieche e il tono divertito e cinico del narratore le rendeva ancora più deprimenti. Ma Leonardo era completamente affascinato, perché trovava conferma, in queste storie, delle sue teorie più nere sull'Italia. Prima sulla Sicilia, e poi sull'Italia, come si fosse  svolta con gli anni una sorta di sicilianizzazione della penisola, che non lasciava scampo.
Sciascia detestava la Sicilia nella stessa misura in cui l'amava, perché non rispondeva al tipo di amore che le avrebbe voluto portare. Come molti siciliani intellettuali, si sentiva sicilianissimo e nello stesso tempo estraneo. Aveva capito che essere un intellettuale significava contare meno di niente e ripeteva spesso la frase di Machiavelli: “Non ci fanno nemmeno rovesciare una pietra”. Ha continuato a condurre le sue battaglie e le sue polemiche, ma non aveva più speranze. Nato illuminista, è morto pessimista.
E a chi gli chiedeva ragione di questo suo pessimismo, spiegava che in siciliano la frase “Domani andrò in campagna” si dice “Dumani, vaju in campagna” con il presente indicativo. “E come volete non essere pessimista in un paese in cui il futuro non esiste?”.
Ma sul pessimismo di Sciascia bisogna intendersi. Per lui non era un dato naturale siciliano, come i capelli neri o il colorito olivastro, ma un problema storico. O meglio, un modo di essere le cui origini andavano ricercate in una storia di sconfitte: sconfitte della ragione e degli uomini di ragione. Più che di pessimismo, preferiva parlare di scetticismo, che si stendeva sotto la ragione come la rete di sicurezza degli acrobati nei circhi. Non la vedeva come un'accettazione della disfatta, ma come una componente salutare dell'intelligenza, che impediva il fanatismo e l'assunzione di linee e di speranze sbagliate. Tuttavia ho l'impressione che il suo scetticismo fosse andato talmente in là, come è successo con Pirandello, da essere inutilizzabile come rete di sicurezza, o come qualsiasi altra cosa.
Così timido, Sciascia si apriva un poco non in casa sua, a Palermo, ma nello studio di Elvira Sellerio, in via Siracusa. Arrivava quasi ogni giorno, verso le cinque o le sei del pomeriggio, si sedeva su una poltrona liberty, dietro la finestra e accanto alla scrivania, e chiedeva cosa ci fosse di nuovo. Qui si trovava a suo agio, tra le bellissime incisioni appese alle pareti e le bozze dei libri sugli scaffali. I palermitani colti sapevano di questa sua abitudine e a quell'ora comparivano per una ragione o per un'altra. La casa editrice Sellerio è stata per anni uno dei pochissimi luoghi della Sicilia in cui si siano fatte delle conversazioni all'altezza dell'intelligenza dei siciliani.
Sciascia non parlava quasi mai per primo. Erano sempre gli altri ad avviare un argomento, possibilmente polemico, con l'occhio rivolto allo scrittore, per vedere le sue reazioni. Se l'argomento non gli interessava, come accadeva  spesso, Sciascia sorrideva amabile, emetteva un “ehee” come un piccolo singhiozzo, inclinando leggermente indietro la testa, e lì chiudeva. Se invece era attratto dal tema, dopo il singhiozzo prendeva a fare qualche commento: poche parole all'inizio, poi delle frasi più lunghe: non un racconto, ma delle chiose, degli appunti come a margine, che solo più tardi capivo quanto fossero acuti, sarcastici e pertinenti. Aveva il gusto della battuta seminascosta da una citazione e non si sbagliava mai.

Sempre in un tono estremamente amabile, gentilissimo, a volte come a scusarsi e interrompendosi per qualche risata tutta interiore.
Aveva il terrore dei seccatori e pregava i suoi amici di non dare mai il suo numero di telefono privato. Ma non si è mai negato a un giornalista, perché gli sembrava poco urbano negarsi a una persona che era arrivata fino a Palermo per vederlo.
Non erano interviste facili, nemmeno con chi conosceva da lungo tempo, come me, e di cui si fidava. Bisognava “riscaldarlo” parlando del cinema francese degli anni Trenta che conosceva perfettamente, di Brancati o di Savinio, uno scrittore che ha amato moltissimo fin da ragazzo.
Oppure di incisioni, di cui faceva raccolta quando andava a Parigi o che ordinava presso una galleria di Bologna: aveva un occhio finissimo e un grande gusto, da amatore collezionista relativamente povero. Una volta mi disse che la maggior parte dei suoi diritti d'autore se n'erano andati in stampe.
Ci si deve accostare al tema “Mafia” con una certa accortezza. Molti, soprattutto giornalisti stranieri, scendevano in Sicilia per interrogare Sciascia solo sulla Mafia e questa riduzione dell'isola a un'unica dimensione lo infastidiva enormemente. Ma sapeva che era inevitabile, perché era stato lui, più di ogni altro, a rendere straordinariamente attraenti, con i suoi romanzi, delle vicende di per sé luride.
E come numerosi siciliani aveva un atteggiamento ambiguo, se così si può dire, nei riguardi della Mafia.
Sul piano civile è stato uno dei suoi avversari più acuti e più temibili (proprio perché ne capiva tutte le sottigliezze). Ma sul piano letterario – e forse anche sentimentale – la Mafia gli sembrava un fenomeno straordinario e appassionante. Era attratto dal codice d'onore dei mafiosi, dal modo tragico di vedere l'esistenza, dal rigore e dalla spietatezza dei comportamenti, del rispetto delle norme (che immaginava i mafiosi avessero). Sciascia è stato uno dei primi a capire che la democrazia, invece di ostacolare la Mafia, le stava offrendo il terreno più favorevole, attraverso la ricerca dei voti e le compromissioni elettorali. Però i suoi riferimenti erano quasi esclusivamente rivolti alla vecchia Mafia, molto più pittoresca e che meglio di adattava ad estrapolazioni letterarie. Sulla nuova Mafia, ossia sulla delinquenza comune, che si serviva strumentalmente degli antichi rituali per meglio stringere a sé i picciotti, aveva idee non chiare e legate a un passato che non c'era più.
D'estate lo andavo a trovare, quando potevo, nella sua casa di campagna, fuori Racalmuto, Leonardo sapeva che ero particolarmente goloso dei dolci siciliani e me li faceva trovare chiusi in una scatola di latta, perché non si guastassero. (A Palermo una volta mi portò in una pasticceria dove  facevano i cannoli “esportazione”, glassati all'interno di cioccolata, in modo che la ricotta non inumidisse la cialda, durante il viaggio di ritorno a Roma). Maria, la moglie, preparava una frittata di “neonate”, gli avanotti, un piatto squisito. Poi, nel salotto arredato con pezzi liberty, che gli aveva suggerito di comprare Enzo Sellerio, Sciascia faceva un breve riassunto del romanzo su cui stava lavorando. Leonardo ha scritto quasi tutti i suoi libri a Racalmuto, d'estate, dopo averne elaborato la trama durante l'inverno, senza prendere un appunto.
Solo dopo che la conversazione era avviata, Sciascia si permetteva qualche commento. Sempre gentilissimo, sempre sorridente, negli ultimi anni ripeteva la stessa domanda: “E Scalfari che dice?”. Ma sembrava che non ascoltasse la risposta e che ne intuisse già il contenuto. I rapporti tra i due  - da lontano, perché credo che non si vedessero mai – e con la Repubblica in genere erano diventati tesi con l'affare Moro, e pessimi ancora più tardi. Ma non ho mai sentito Leonardo fare un'osservazione che non fosse civile. Diceva solo: “Che peccato, perché lui potrebbe...invece...”. Continuandomi a trattare con inalterata cortesia.

(da La Repubblica, 21 novembre 1989)