Valter Vecellio - Vent'anni dopo

“Bisogna cominciare a contarsi”, come diceva Seneca. Si scoprirà, allora, che siamo isolati ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre, come diceva De Sanctis, l’“opinione” alle “opinioni correnti”. Gli amici dell’Associazione mi comprenderanno: conservo quel biglietto, del 1982, di Leonardo Sciascia come una sorta di reliquia “laica”, per me più sacra di quel che può essere l’ampolla col presunto sangue di San Gennaro per un napoletano. Queste frasi, vergate con l’inconfondibile scrittura minuta e chiara, sono per me una sorta di contravveleno che mi rende più lieve sopportare i tempi che ci tocca vivere e patire. Tempi che immagino anche Sciascia avrebbe trovato insopportabili per l’ostentata, compiaciuta volgarità che li segnano; e che giustificano insieme un impegno per opporre “barriera”, fare resistenza; e disimpegno, fuga, riparo nell’ideale tana, avendo ben cura di cancellare ogni traccia.

Divago, chiedo scusa. Di occasioni per “contarsi”, a Sciascia non ne mancarono certo; penso alla polemica che lo oppose al PCI, all’affaire Moro, alla vicenda del rapimento del giudice Giovanni D’Urso; la polemica sul coraggio e la “vigliaccheria” degli intellettuali, la mafia, il professionismo anti-mafia, l’impegno a fianco di Enzo Tortora per una giustizia più giusta, umana e rispettosa…

Penso a versi che risalgono agli anni Sessanta. Sciascia è più conosciuto come scrittore di prosa, ma ogni tanto accadeva anche a lui di scrivere versi. Lo faceva  – è lui che lo racconta – quando aveva qualche difficoltà con la prosa, perché per lui i versi erano il grezzo della prosa. Un giorno trovò un foglietto con versi da lui scritti anni prima, e poi dimenticati; versi di una poesia “civile” che avevano una vaga rispondenza ai fatti che accadevano quando li aveva scritti, vent’anni prima; e ancor più, qualche rispondenza ce l’hanno con l’oggi, se è vero che mafia, camorra e ‘ndrangheta, senza lasciare i loro territori d’origine, si sono ormai saldamente insediati praticamente in ogni regione del centro-nord, e da tempo hanno varcato la frontiera di Chiasso.
I versi, dunque:

   Il poeta Abu-Hatem, es Segestani
di Persia o di Sicilia (la questione
è rimasta in sospeso), scrisse
lungo elogio della palma: albero
foggiato dalle mani di Dio
a immagine dell’uomo, come Adamo
a immagine di Dio; albero eccelso
che segue la marcia dell’Islam
poiché è dono al credente, e in paradiso
darà ombra dolcissima a fanciulle
dagli occhi neri e casti
che nude fluiranno tra le mani
del credente vero.

                          Gli scienziati
dicono invece che la linea della palma
non ha niente a che fare
con la marcia dell’Islam, e si sposta
di cinquecento metri ogni anno
verso il nord.

                        Personalmente,
non giurerei che la marcia della palma
non ha niente a che fare con l’Islam,
né che avanza verso il nord
solo di cinquecento metri ogni anno.
Probabilmente, a sbalzi e ad arresti,
la media della marcia è più celere…


L’oggi. Magari in occasione del ventennale ci verrà risparmiata questa pena. Ma fino a ieri no, non ci è stato risparmiato nulla: a Sciascia, beninteso, ai suoi cari e anche a noi, che Sciascia lo abbiamo amato e amiamo. Qualche anno fa, per esempio, interpellato dal “Corriere della Sera”, il filosofo Manlio Sgalambro, siciliano di Lentini, se ne è uscito dicendo che “Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico. La sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più”. Colpevole Pellico non si sa bene di cosa; colpevole Sciascia di aver “descritto” la Sicilia solo con l’occhio della mafia. 

E’ perfino avvilente dire che non si condivide una sola affermazione di Sgalambro, e per tante ragioni. Però a conti fatti, credo che Sgalambro, per le sue scempiaggini, vada ringraziato. Le sue affermazioni mi sembrano irritanti, ingenerose, ingiuste. A suo tempo una delle figlie di Sciascia, la signora Anna Maria definì quelle affermazioni “tesi ai confini della realtà. La mafia non era certo l’unico metro usato da mio padre per descrivere la Sicilia. Ecco perché ritengo che le parole di Sgalambro non possano essere prese sul serio”. E non c’è necessità di aggiungere altro.
  
Non va preso sul serio, Sgalambro; ma va ringraziato: con le sue affermazioni ha comunque dato il via a un dibattito e a una riflessione benefica, costringendoci, per confutarlo, ad andare a leggere o rileggere i libri di Sciascia. Facendolo, abbiamo avuto conferma di quanto già sapevamo, la straordinaria attualità di Sciascia.

E’ proprio di Sciascia una definizione della mafia – data più di trent’anni fa – e che direi sia calzante, sinteticamente esatta, perfetta, da dizionario. La definizione è questa: “La mafia è un’associazione per delinquere, con fini di arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, ed imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”.
   
Bisogna fare attenzione alle date: queste cose Sciascia le diceva e scriveva nei primi anni Sessanta, quando ancora l’allora cardinale di Palermo negava che esistesse la mafia, e si accusava chi ne parlava di denigrare la Sicilia e i siciliani.
 
Dovremmo rivolgere un pubblico appello al ministro dell’Istruzione perché venga inserita, almeno tra le raccomandate, la lettura de Il Giorno della civetta. In particolare, è consigliabile leggere una pagina che sarebbe bene fosse scolpita anche nei manuali – se ve ne sono – di addestramento per poliziotti, carabinieri, magistrati. La pagina è quella in cui il capitano Bellodi, è preso da scoramento. Teme che don Mariano Arena, il capo-mafia del paese, possa farla franca, come poi in effetti accadrà, grazie alle protezioni e alle complicità politiche di cui gode. Per questo il capitano Bellodi, questo uomo del nord, originario di Parma, antifascista e che ha fatto la Resistenza, cede per un attimo alla tentazione di tradire gli ideali in cui crede e ha combattuto, e pensa che si debbano e possano usare quei metodi al di là e al di sopra della legge che furono la caratteristica del prefetto Cesare Mori durante la dittatura fascista. “Il fine giustifica i mezzi”, per usare un machiavellismo di bassa lega (è noto, dovrebbe esserlo, che messer Nicolò questa frase non la disse mai). Ad ogni modo anche a Mori quei mezzi, per quel fine, furono consentiti solo fino a quando colpì i rami “bassi” della mafia, i briganti. Quando cercò di arrivare ai rami “alti”, ai capi, già collusi e protetti dal regime, prontamente Mori fu fatto senatore, promosso e rimosso.
Il capitano Bellodi vince subito quella tentazione/illusione in cui era precipitato; e svolge un ragionamento che è un po’ il nocciolo della questione:
   “Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”.
  
E’ uno dei tanti “suggerimenti”, da Silvio Pellico che troviamo nel Giorno della civetta, chi ha voglia lo spieghi ai tanti Sgalambro in circolazione. Una strategia investigativa, quella degli accertamenti bancari e del controllo dei patrimoni, che nessuno aveva mai tentato, e che nessuno tenterà mai seriamente prima di Giovanni Falcone, che lo farà vent’anni dopo. Magari questo suggerimento fosse stato accolto e messo in pratica quando venne dato, nel 1962; forse molte di quelle cronache che poi sono diventate capitoli dell’interminabile libro che si chiama “Tangentopoli”, ce le saremmo risparmiate; e magari lo fosse anche oggi, a quasi cinquant’anni di distanza. Perché tante ricchezze, tante esibizioni di ricchezza che non corrispondono a guadagni ufficiali, ci sono arrogantemente sbattute sotto gli occhi; e bisognerebbe darne esauriente spiegazione. Inoltre è interessante il modo severamente critico, impietoso con cui Sciascia, attraverso Bellodi, scruta l’arretratezza culturale del vecchio mafioso, quando gli pronostica che la figlia, mandata a studiare in costosi collegi svizzeri, proprio grazie a quest’acculturazione, diventerà una siciliana “nuova”, “pietosa”, che non avrà più bisogno della mentalità mafiosa.
  
Forse Sciascia in questo punto è troppo ottimista: ché si può benissimo essere mafiosi e laureati. C’è un’importante famiglia mafiosa, ramificata tra Canada, Venezuela e mezza Europa: i Caruana e Cuntrera; i nonni sono partiti da Siculiana, piccolo centro nell’agrigentino, letteralmente con le pezze al sedere, la valigia di cartone legata con lo spago. I nipoti si sono laureati a Cambridge e ad Harvard, parlano lingue, hanno conseguito master, frequentano Borse, si orientano tra listini e mercati azionari; sono, al tempo stesso, mafiosi a tutti gli effetti, buona parte del traffico internazionale di droga, cocaina, eroina, perfino gli spinelli, lo gestiscono loro. Però ha ragione Sciascia quando, alla domanda su che cosa si può fare di concreto contro la mafia, risponde: studiare, leggere. Un libro in più, una marcia di meno.

E’ stato Sciascia ad aprirci gli occhi sulla mafia, con pochi altri, anche loro dei Silvio Pellico, dimenticati, rimossi, “cancellati”: mi viene in mente Danilo Dolci, il sociologo triestino che si trasferì in Sicilia, e ci ha regalato “Banditi a Partinico” e “Inchiesta a Palermo”. Penso a uno scrittore che negli ultimi anni della sua vita ha vissuto appartato, isolato, ed è morto dimenticato: Michele Pantaleone, cui dobbiamo “Mafia e politica”, “Mafia e droga”, “Antimafia, occasione mancata”. E Sciascia appunto. Di cui credo pochi ricordino o sappiano di quando collaborava al “Giorno” di Milano, la stagione migliore di quel giornale, quella dei Luigi Baldacci e degli Italo Pietra. Tra febbraio e giugno del 1962, pubblicò su “Il Giorno” una serie di articoli anche oggi di grande interesse. Un reportage da Misilmeri, per esempio, paese, come si dice ora, ad “alta densità mafiosa”. Un altro è dedicato a Montelepre.

Sono dei piccoli saggi. In quello dedicato a Misilmeri c’è già tutto l’essenziale per comprendere il fenomeno mafioso, che cosa sia, che cosa lo animi, come funzioni. Nell’altro, quello dedicato a Montelepre, paese che deve notorietà per il fatto che vi nacque il bandito Salvatore Giuliano, tutto è in un brandello di conversazione con il tabaccaio, che è anche consigliere comunale della maggioranza: un democristiano passato alla lista del Partito Socialista per un puntiglio; a scorno dei democristiani, era stato trionfalmente eletto; e con i democristiani che lo volevano recuperare. “Troppo presto”, dice il tabaccaio. E intanto, scrive Sciascia, “se ne sta con la maggioranza, come tutti”. Proprio così: come tutti. “Ci siamo tutti”, conferma il tabaccaio, “nella maggioranza”. E la minoranza, l’opposizione?, incalza Sciascia. L’uomo ci pensa un po’, e risponde: “Quelli della lista civica. Forse”.

Quel “troppo presto” e quel “forse” dicono tutto, e possono valere anche per l’oggi. Solo che anni fa c’era uno Sciascia capace di cogliere i significati di quel “troppo presto” e quel “forse”. Oggi chi abbiamo?

Certo la mafia di oggi è diversa da quella descritta nel Giorno della civetta. Nel maggio del 1979, intervistato dal quotidiano palermitano “L’Ora”, Sciascia dice che a suo giudizio, “la mafia da fenomeno rurale è diventata fenomeno cittadino e parapolitico; si è trattato di una specie di integrazione nel potere. La mafia non è più apparentemente riconoscibile come un tempo”. In un’altra intervista, questa volta al “Giornale di Sicilia”, nel settembre 1980, sostiene che “il modo migliore per combattere la mafia è quello di mettere le mani sui conti bancari. Non capisco perché fra l’incostituzionalità del confino e l’incostituzionalità del controllo sui conti bancari, i governi abbiano sempre scelto la prima. Anzi lo capisco benissimo: perché al confino si mandano sempre i soliti stracci, mentre per i conti bancari si sarebbe costretti ad andare più in alto”.
  
Per cercare di decifrare la mafia che da rurale si è fatta cittadina, ci viene in soccorso un altro romanzo di Sciascia, A ciascuno il suo, scritto nel 1966, cinque anni dopo Il giorno della civetta. In questo racconto si intrecciano e si mescolano fatti ed episodi anteriori al 1964, anno in cui è ambientata la storia. Per esempio la lotta antimafia del prefetto Mori negli anni Venti. Serve per raccontare l’evoluzione di Cosa Nostra, che riesce a cambiare, modellandosi alla nuova realtà, restando tuttavia fedele a certi suoi immutabili canoni. Sciascia mette a fuoco le due realtà mafiose, quella locale, agraria, contadina, “antica”; e quella nazionale, con legami ed intrecci con il “Palazzo”, la politica; e i conseguenti giochi di alleanze e complicità. Il professor Laurana, protagonista della storia, che pagherà con la vita la sua ostinazione a cercare la verità, ad un certo punto del racconto parla con l’amico Rosello dell’onorevole Abello, destinato a fare carriera. Il deputato in questione è di destra; ma di una destra che sta più a sinistra dei cinesi; e poi, per dirla con Rosello: “Destra, sinistra, sono distinzioni che non hanno senso”. Laurana chiede se il deputato Abello accetti completamente la linea che il partito sta perseguendo. La risposta che ottiene è edificante: “Abbiamo rosicchiato per vent’anni a destra, ora è tempo di cominciare a rosicchiare a sinistra”.

Ora è facile dire queste cose, le diciamo un po’ tutti. A metà degli anni Sessanta lo era molto meno.

Mauro De Mauro: dice nulla questo nome? E’ stato un coraggioso giornalista de “L’Ora”; ha pagato questo coraggio e la sua indipendenza con la vita, un giorno è uscito di casa e non vi ha fatto più ritorno, neppure il cadavere è stato mai trovato. Il fratello Tullio De Mauro, il celebre linguista, racconta: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…”.

Giovanni Falcone, intervistato da Mario Pirani per “La Repubblica” nell’ottobre del 1991 dice di aver sempre considerato Sciascia un grande siciliano profondamente onesto. In altre occasioni sostiene di essersi formato attraverso i suoi libri.

Voglio chiudere leggendo un brano di un resoconto di quello che Sciascia disse incontrando un gruppo di studenti di Lipari nel maggio del 1984:
C’è un rischio. Il rischio è questo: tutti si occupano di mafia. Tranne la polizia. Non si può perdere di vista questo: di mafia si deve occupare anche e soprattutto la polizia. Poi va benissimo che se ne parli a scuola, nelle famiglie, sui giornali e ovunque. L’educazione civica totale si può fare anche attraverso la letteratura italiana. Se il professore, quando arriva ad aprire il capitolo dei “Promessi Sposi” al capitolo dei bravi, si ferma a dire: guardate, questa è la Lombardia del Seicento. La Lombardia di oggi non ha più questi fenomeni, mentre in altre regioni noi li abbiamo. La Lombardia non li ha più perché ha avuto la fortuna di avere il governo austriaco di Maria Teresa; e se spiega in che cosa consisteva il governo di Maria Teresa, l’illuminismo austriaco, allora credo che si avrebbe una nozione della mafia molto più precisa di quella che si può trovare nei testi mafiologhi”.

Avere spirito critico, unico antidoto in un mare di retorica che minaccia di travolgerci: questo l’insegnamento che ci ha lasciato. Lo hanno bollato come vigliacco, complice della mafia, nemico dello Stato, para-terrorista, di tutto. Dobbiamo essere lieti, pur nel grande dolore per la sua perdita, di aver condiviso un poco di quel “tutto”, con lui. Senza cercarla, ha sempre avuto ragione. Questo è il “mio” Sciascia: l’uomo sorridente e mite che accettò di incontrarmi, poco più che ragazzo, e mi autorizzò a pubblicare una sua raccolta di scritti e interventi; che mi portava con sé ai pranzi e alle cene da “Fortunato” al Pantheon di Roma, dove c’erano Francesco Rosi e Antonello Trombadori, Bruno Caruso e Lino Iannuzzi; che mi regalò preziose edizioni delle opere di Shakespeare, raccomandandomi di leggerle, e mi spiegò il significato dei “Promessi Sposi”, al di là della “lettura” scolastica; l’uomo che, dieci anni dopo sulla sua tomba a Racalmuto mi ha fatto piangere, ed ero riuscito a non farlo anche quando mio padre è venuto meno…Ora che non c’è, tutti ne parlano come di un maestro, una guida, un profeta “laico”. Ora è facile tentare di omologarlo. Visto che non hanno potuto ingabbiarlo da vivo, vogliono inghiottirlo ora che è morto, ora che non è più in grado di difendersi e di difendere il diritto e la dignità umana. Ci sono, per fortuna, i suoi libri, le sue opere. Fino a quando quei libri saranno letti, un po’ di Leonardo continuerà a vivere con noi, per noi.